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Quel giorno, Spinello deliberò di piantar lì il suo ritratto, per cominciarne un altro.

V'ho a dire che gli riescì meglio del primo? Sarebbe una bugia. V'ho a raccontare come non gli riescisse? Sarebbe una ripetizione. Di certo quella non era ancora la volta buona. E Spinello, o sbagliando le proporzioni, o non sapendo cogliere certi rapporti insensibili della figura, seguitava a credere che ci fosse una malìa. Ad un certo punto, riconoscendo che il secondo ritratto era peggiore del primo, gittò la tavolozza e i pennelli, cedendo ad un impeto di sdegno improvviso.

–O Fiordalisa!—gridò.—La natura si ride di noi, poveri sciocchi, i quali ci siamo fitti in capo di agguagliarla, o almeno almeno di seguirla da presso, coi nostri miseri spedienti. O forse son io che getto sull'arte la colpa della mia ignoranza! Forse ho presunto troppo delle mie forze, ed ho commesso una profanazione, una vera profanazione. Ma io non lo volevo, ve lo assicuro, è stato vostro padre che mi ha stimolato; è stato lui che mi ha acceso questa febbre nell'ossa.—

E piegatosi a mezzo sulla seggiola, appoggiò i gomiti alla spalliera, nascondendo il volto tra le palme, piangeva di rabbia, il povero Spinello Spinelli.

Madonna Fiordalisa si era alzata, e si appressava a lui con aria di compassione. Spinello non la vide giungere, ma sentì una mano gentile posarsi sulla sua testa e un morbido braccio sfiorargli le tempie.

–Chetatevi, messere;—diceva frattanto la divina creatura.—Abbiate un po' di pazienza. Non è poi un male così grave, non poter fare un ritratto.

–Non è grave!—esclamò egli, restando fermo nel suo atteggiamento, per non avere a perdere il contatto di quella mano adorata.—Non è grave, voi dite? Ma è il vostro ritratto, che non mi riesce di fare, è il vostro ritratto, capite, Fiordalisa? Ora, se io non vedessi…. se io non sentissi la vostra bellezza, intenderei il mal esito; ma in questo caso soltanto. E poichè questo non è….

–Poichè questo non è,—riprese madonna Fiordalisa con accento scherzevole,—bisogna studiarne un altro. Se fosse vero che la sentiste troppo?—

Spinello si voltò tutto d'un pezzo.

–Ah, questo sì, potete giurarlo!—esclamò con accento di convinzione profonda.

E la vide così bella, così splendida nel suo divino sorriso, che non seppe resistere al desiderio di afferrar la sua mano, indi, fatto ardito dalla sua stessa condiscendenza, di rigirarle un braccio intorno alla cintura e di stringere al seno l'adorata fanciulla.

Istanti di dolcezza inenarrabile, di beatitudine celeste, voi rimanete impressi nell'anima e vi si ricorda per tutta la vita. Quella che avete stretta al seno in un impeto d'amore, che avete sentita palpitare ed ardere sul vostro cuore, era la più bella tra le creature di Dio; e per un momento, anche rapido come la folgore, ella è stata vostra, così pienamente vostra, che nessun potere geloso, neppur l'ombra d'un pensiero profano, ha potuto mettersi tra il vostro cuore ed il suo. Che altro si può desiderare o sperare, che non sia da meno di quel momento sublime? E come tutto il resto della vita, vanità appagate, ambizioni soddisfatte, altezze superate, è nulla al paragone di queste ineffabili possessioni dello spirito! Lo si sente quando la vita sta per fuggire, o quando incomincia a prendervi l'enorme fastidio di tutto ciò che vi parve desiderabile in essa.

Fiordalisa si era lentamente disciolta dai lacci dell'innamorato Spinello.

–Lavorate, lo voglio;—diss'ella, non tanto per desiderio di comandare a lui, quanto per rimettersi in contegno e riavere la padronanza di sè medesima.

Spinello, obbediente, ripigliò tavolozza e pennelli.

–Oh, quando sarete mia!—mormorò, rimettendosi al cavalletto.

–Non lo sono io già, per la fede che v'ho data?—chiese ella con un placido riso.

Le dolci promesse di un'estasi invocata passarono davanti agli occhi di Spinello, che ne fu come abbagliato. E gli fu necessario un grande sforzo di volontà per rimettersi in pace, poichè il brivido di quella stretta gli correva ancora per le vene.

Ad aiutare la sua volontà giunse un rumore di passi che veniva dalle scale. Poco stante, mastro Jacopo appariva sulla soglia.

Spinello non poteva vederlo, poichè volgeva le spalle all'uscio; ma lo vide Fiordalisa e notò che aveva la cera stravolta.

–Che c'è?—chiese la fanciulla, turbata.

–Che c'è?—ripetè Spinello, turbato dal turbamento di lei.

–C'è… c'è… che siamo nati sotto una cattiva stella,—brontolò mastro Jacopo abbandonandosi su d'una scranna, e gettando la berretta in un angolo.

–In nome di Dio, parlate;—gridò Spinello, lasciando di lavorare.—Che v'è egli intervenuto di grave?

–Di grave, sì, proprio di grave!—esclamò il vecchio pittore, guardando la sua berretta, che era andata ruzzoloni per terra.—E quei massari! Con che aria me l'hanno detto! Quasi che la colpa fosse mia, e che io li avessi traditi! Se ne farà un altro, col malanno che il ciel vi dia; se ne farà un altro, e tutti pari. Ma intanto… che figuraccia! Che cosa non si dirà dei fatti nostri in Arezzo?

–Che?—disse allora Spinello, credendo di aver capito da quelle rotte parole l'argomento delle ire di mastro Jacopo;—avrebbero per avventura biasimato un vostro dipinto? Entrerebbero a disputar d'arte con voi?

–Che biasimato? Che disputare con me? c'è ben altro;—gridò il vecchio pittore.—Si tratta del Miracolo di san Donato, mi capisci? Del Miracolo di san Donato.

–Ah, meno male!—esclamò Spinello.—E che cosa gli ha fatto, ai massari del Duomo, il mio povero dipinto?

–Nulla; è andato a male.

–Che? come?—balbettò Spinello.—Andato a male?

–Sì, ragazzo mio; bisogna vederlo, che cos'è diventato. Un vero guazzabuglio. Ma procediamo con ordine; altrimenti non capirai nulla. Ero sul ponte, a lavorare, e si trovava con me Parri della Quercia, per mesticarmi i colori. Ad un tratto, i massari mi vogliono giù. Che bisogno hanno di me, da chiamarmi così in fretta? Per fortuna, non mi ero ancor messo a dipingere. Scendo dal ponte, vo in sagrestia: e là, con aria di mistero, mi mettono in mezzo, per dirmi: Messer Jacopo, mala nuova abbiamo a darvi quest'oggi. Restai di sasso–A me? Non si tratterà mica di persone che mi appartengano.—No, rassicuratevi, nessuna disgrazia di persone; si tratta dell'affresco di Spinello, del vostro scolaro prediletto.—Orbene? Che ci avete ancora con quell'affresco? Non lo avete accettato? Non v'è egli piaciuto, come, oso dire, è piaciuto a tutti, in Arezzo?—Sì, moltissimo, in verità; ma che volete, messer Jacopo? Egli pare che il vostro discepolo, come è forte in disegno, non sia altrettanto pratico dei colori.—Oh, diamine! Che cos'è questa novità? Nell'uso dei colori l'ho istruito io, come in tutto il rimanente. Che cosa ci avete coi colori di Spinello Spinelli?—Eh, veniteci voi, a vederli, il maraviglioso affresco non si riconosce più da quello di prima.—Andiamo, gridai, turbato da quella notizia.

–E siete andato?—interruppe Spinello, tremante.—E avete veduto?

–Ragazzo mio, sono andato ed ho veduto, sicuramente. Per la croce di Dio, non so come ciò sia avvenuto. Che colori hai tu adoperati, per dipingere il Miracolo di san Donato?

–I vostri, padre mio. Non ne avevo altri. Siete voi, che me li avete forniti. Erano quelli che si macinavano in bottega dal Chiacchiera.

–Ah! dovevo ricordarmene!—gridò mastro Jacopo, battendosi la fronte.—Il Chiacchiera, che se n'è andato così d'improvviso!… Che diavolo ci avrà messo dentro? Colori di miniere, certamente; e per mandarti a male ogni cosa.

–Ma dite, parlate;—ripigliò Spinello.—Finora non mi avete spiegato che cosa sia avvenuto dell'affresco.

–Immagina il peggio che potesse accadere. La figura del Santo non si riconosce più. C'è il verde, l'azzurro, il nero, tutto quello che vuoi, meno il color naturale delle carni. Il tuo povero Santo è più lebbroso di Giobbe. E quei massari degnissimi! A sentirli, come ti conciavano! E come, senza parere, davano la baia anche a me! Già, non ero io il colpevole, per averti allogato il lavoro? Ecco un gran danno, mi dicevano, con le beffe per giunta; e queste non solamente per voi. Maledetti! Non ho voluto saperne più altro e li ho piantati là, con tutto il loro veleno.—

Spinello era rimasto avvilito, quasi istupidito, come il povero villano che veda il suo campo devastato dal turbine e perdute in un'ora tutte le speranze d'un anno. La similitudine, se non m'inganno, è classica; ma a questo che ci posso far io? È la sola che mi si affacci alla mente. Vedete, del resto, che io non la tiro in lungo e non ne cavo il costrutto che si potrebbe.

–Orbene, che c'è?—disse Fiordalisa, vedendo il suo fidanzato così sbalordito.—Già vi perdete d'animo?

–Oh, madonna!—esclamò allora Spinello.—Come resistere ad un colpo simile? Credevo poc'anzi ad una malìa. Ma ora mi avvedo che l'arte non è fatta per me. Vedete? Qui, con la vostra immagine, non vengo a capo di nulla. E laggiù mi va male d'un tratto ciò che da principio era bene e poteva assicurar la mia fama. Che debbo io pensare? D'aver fatto un bel sogno, e d'essermi svegliato nella più grande miseria.—

La bella figliuola di mastro Jacopo scosse la testa, in atto d'incredulità.

–Alla fin fine,—diss'ella,—non è un sogno esser qui.—

Spinello alzò gli occhi a guardarla. Non era un sogno, davvero. La bella creatura stava davanti a lui, lo consolava con le sue dolci parole e col suo divino sorriso. Era, infine, la sua fidanzata; e di questo non poteva egli dubitare, come della sua vocazione per l'arte.

–Animo, via!—soggiunse mastro Jacopo.—Vieni in Duomo, a vedere come te l'hanno conciato, il tuo povero affresco. Sarà un altro dolore, lo capisco: ma ti farà andare in collera. In certi casi la collera val meglio dell'abbattimento. E se ti sentirai andare il sangue alla testa, tanto meglio; ti verrà la voglia di cancellare il dipinto, per rifarlo di pianta.

–Dite bene, maestro. Oh, voi non dubitate ancora di me, come ne dubito io! Ma lo consentiranno i massari?

–Che vuoi che facciano di diverso?

–Ma… potrebbero volere che l'opera fosse fatta da voi. E forse, anzi senza il forse, sarà meglio così.

–Tira via, sciocco! I massari non mi faranno il torto di credere che io possa accettare una sostituzione di questa fatta. Poi, metteremo i ponti e si vedrà. Basti a loro che io m'assuma la malleveria d'ogni cosa. Se l'opera non riesce bella e salda come è nostro desiderio che sia, lo giuro a san Luca, che è il patrono dei pittori, saremo in due a smetter l'arte. Per altro,—soggiunse mastro Jacopo, ridendo,—non ci sarà questo pericolo. Ricordati che non c'è più il Chiacchiera a macinare i colori.

–Oh, non dubitate, padre mio;—rispose prontamente Spinello,—Nessuno metterà mano nelle tinte. Macinerò io, mesticherò io, farò ogni cosa da per me.—

Così dicendo, Spinello si alzò, per seguire il maestro. Era un triste viaggio, quello che stava per fare; ma lo avevano confortato le soavi parole di Fiordalisa. E l'arte, per gli occhi di madonna, tornava ancora a sorridergli.

VI

Il guasto intervenuto nell'affresco di Spinello Spinelli aveva fatto chiasso in città; ne aveva fatto forse più della notizia, corsa un mese addietro, che ad Arezzo fossa toccata la fortuna di possedere tra' suoi cittadini un pittore.

Molta gente accorreva nel Duomo vecchio, per vedere il povero San Donato, il patrono della città, diventato di tutti i colori. E gli amici di Spinello si dolevano a quella vista, e i nemici si rallegravano. Aveva già dei nemici, Spinello, oltre i suoi compagni di bottega? Sicuro; e perchè no? Tra i nemici di un uomo che lavora, ci potete mettere tutti i fannulloni d'ogni risma, il maggior numero, insomma; gente leggiera, che vi loda quando non può farne di meno, ma che, venuto il momento buono, è sempre felice di potervi assestare uno scappellotto.

Con tanta folla, e di un umore così benevolo come potete immaginarvi, le chiacchiere erano molte, davanti all'affresco del pittor novellino. Quando giunse in Duomo il vecchio Jacopo, seguito da Spinello Spinelli e da Tuccio di Credi, che aveva voluto andarvi anche lui, per confortare l'amico, si faceva capannello intorno ad un pezzo grosso, che era (fategli di berretta!) messer Lapo Buontalenti. I quattrini non gli mancavano, a quel giudice di cose d'arte; n'aveva tanti, che potevano tenergli luogo di giudizio.

–Buon dì, mastro Jacopo!—disse il cavaliere, accompagnando la frase con un risolino sarcastico.—Che siete forse venuto per vedere il lebbroso?

–Maisì, messere;—rispose il vecchio pittore;—un lebbroso che sarà risanato.

–Ah, bene!—ripigliò il Buontalenti.—Sarete dunque voi, che farete il miracolo?

–Non lo farò io, messere; lo farà il mio discepolo Spinello, a cui è toccato questo tiro mancino.

–E riderà bene chi riderà l'ultimo;—soggiunse Spinello, passando attraverso il crocchio, e dando un'occhiata severa al beffardo suo giudice.

–Il Buontalenti non poteva lasciar passar nè l'occhiata nè la risposta. Egli rideva, appunto, e scherzava sulla disgrazia del pittore. La bottata era dunque per lui.

–Dite per me, giovinotto?—chiese egli con piglio altezzoso.—Sappiate che io non rido di voi. Solamente compiango chi si crede da più degli altri e non sa far buon viso ad una giusta osservazione.

–Compiangete dunque voi stesso, messere,—gli rispose Spinello,—che venite ad impancarvi tra i giudici, senza sapere da che parte si tenga un pennello.—

E passò oltre, appoggiando la risposta con una alzata di spalle.

–Sentite questo ragazzaccio?—gridò il Buontalenti.—Se non fossimo nella casa di Dio, mi verrebbe voglia di allungargli una pedata.

–Lasciate correre, messere;—gli disse un savio.—Questi pittorelli sono otri pieni di vento, e s'hanno a sgonfiare da sè.

–Sapessero almeno il valor delle tinte!—soggiunse un altro.—E invece mettono negli affreschi i colori di miniere, scambio dei vegetali.

–Chi l'ha detto?

–Eh, l'han detto parecchi; tra gli altri messer Bindo del Rosso, che è dei massari. Anch'io, del resto, che ho avuto pratica con pittori, posso assicurarvi che la cosa non è andata altrimenti. Lavorare in fresco, che si canzona? Non è mica come sorbire un uovo;—continuò l'oratore, vedendo di avere tirato a sè l'uditorio.—Certo, è il modo più maestrevole e bello di dipingere, perchè consiste nel fare in un giorno solo ciò che con gli altri modi si può in molti giorni ritoccare sopra il lavorato. Ma, per fare un'opera che valga, bisogna lavorare sulla calce che sia fresca, nè lasciata mai sino a che sia finito quel tanto che per quel giorno si vuole lavorare. Mi spiego? Infatti, quando il pittore indugia a dipingere quel tratto di muro che è stato preparato per ricevere i colori, la calce fa subito una certa crosterella, pel caldo o pel freddo, pel vento o pel ghiaccio, e vi ammuffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuol essere continuamente bagnato il muro che si dipinge; i colori che vi si adoperano, tutti di terre, non di miniere; e il bianco, poi, di travertino cotto. Da ultimo, quando si è dipinto, bisogna guardarsi di non avere a ritoccare il quadro con colori che abbiano colla di carnicci, o rosso d'uovo, o gomma, o draganti, come fanno certi guastamestieri; perchè, oltre che il muro non fa il suo corso di mostrar la chiarezza, vengono i colori appannati da quel ritoccar di sopra, e in poco spazio di tempo anneriscono. Ora, io dico, questo giovinotto che s'è buttato a dipingere in fresco, non le sapeva, queste cose? E se non le sapeva, come pare da quest'opera sua andata a male, perchè allogare a lui una medaglia di tanta importanza?

–Già,—disse il Buontalenti,—perchè allogare a lui la medaglia? Che ne pensate voi, Tuccio?—

La domanda era rivolta a Tuccio di Credi, che poco prima si era avvicinato al crocchio.

–Io, messere,—rispose Tuccio con aria discreta,—penso che il povero Spinello sia stato tradito da qualche compagno d'arte, invidioso della sua fama. Perchè, in verità, supporlo ignaro dell'effetto dei colori, non si può. Tanto varrebbe il dire che egli non conosce i primi elementi della pittura.

Indi, accostatosi con bel garbo a messer Lapo Buontalenti, come se domandasse licenza di passar oltre, gli fece un inchino e gli gittò un'occhiata d'intelligenza.

–Fermo qua,—disse il Buontalenti, prendendolo famigliarmente per un braccio, ma accompagnandolo un tratto più oltre, anzi che trattenerlo.—Voi dunque pensate?… Voi sospettate che….—

Indi, a bassa voce, mutato argomento, proseguì:

–Che ci avete di nuovo?

–Ho da parlarvi, messere;—rispose Tuccio di Credi.—Il padre è più incocciato che mai a volergli dare la ragazza. Bisognerà pensarne un'altra.

–Bene, venite stasera da me; saremo soli;—disse il Buontalenti.

Tuccio di Credi si allontanò, per andare a raggiungere Spinello e messer Jacopo, che stavano in sagrestia a leticare coi massari del Duomo. Dico che stavano, ma potrei restringermi al singolare, poichè Spinello taceva, e mastro Jacopo sosteneva tutto il carico della conversazione con quei bisbetici messeri.

Mastro Jacopo, quando lasciava di brontolare e si disponeva a chiacchierare, avrebbe potuto dar dieci punti dei sedici a Marco Tullio Cicerone. S'intende a Marco Tullio, quando parlava pro domo sua. Infatti, il vecchio pittore, trattando la causa di Spinello, parlava anche un pochettino per sè. Non era lui che aveva allogato il lavoro al discepolo? E quel discepolo non doveva sposare la sua bella figliuola? Immaginate dunque gli sforzi d'eloquenza che fece coi massari del Duomo. Spinello aveva fatto un'opera maravigliosa, e su questo non ci cascava dubbio, lo avevano riconosciuto tutti, massari e non massari. Quanto alle tinte e alla buona preparazione della calce, non c'era stato niente di diverso, pel Miracolo di san Donato, da ciò che aveva fatto lui, mastro Jacopo, per gli altri affreschi del Duomo. Il tradimento era certo, e veniva da qualcheduno dell'arte. Anzi, mastro Jacopo e Spinello Spinelli sapevano già dove metter le mani. Del resto, non temessero i massari; a quel guaio si sarebbe rimediato prontamente. Se a loro premeva il decoro della chiesa, a Spinello Spinelli premeva altrettanto, se non più, la sua fama. Ai tristi non sarebbe rimasto altro guadagno che di far lavorare doppiamente quel povero e valoroso giovinotto. Ma questo non importava, e nello spazio d'un mese si sarebbe veduto un Miracolo di san Donato bello come il primo e condotto secondo ogni regola d'arte. Non era solamente impegnato in quell'opera l'amor proprio di Spinello, ma altresì l'onore del maestro e di tutta la sua scuola, a cui non era mai accaduta una cosa simile.

–Del resto,—soggiungeva mastro Jacopo,—questa volta ci sarò io a vegliare, e non entreranno in Duomo altri colori che quelli macinati e mesticati da noi.—

I massari chinarono la testa, in atto di assentimento, e diedero licenza a mastro Jacopo di fare in tutto come gli piacesse meglio, ma a sue spese e sotto la sua malleveria.

–Non temete, messeri onorandissimi;—rispose il vecchio pittore, abbastanza contento di averla aggiustata in quel modo.—Ho giurato di smettere i pennelli, se la cosa non va come è giusto che vada.—

La mattina seguente, chiuso il Duomo ai curiosi importuni, i manovali si fecero tosto a rizzare una nuova impalcatura, nella cappella di San Donato. Frattanto, Spinello Spinelli, andando dalla bottega al Duomo, ci aveva da rispondere a tutti coloro che lo fermavano per via, e da mandar giù le condoglianze più o meno sincere, che tornano così moleste ad un galantuomo, quando ci ha l'anima oppressa.

Io non riesco a capire come mai non ci pensino, le persone cerimoniose, all'effetto di certi loro discorsi. Basterebbe il dire: "v'e andata male, abbiate pazienza, rifate e prendete la vostra rivincita". Ma no, bisogna proprio che vi s'accostino con aria malinconica, che vi stringano la mano con tutt'e due le loro, che levino gli occhi al cielo in atto di fare a Dio l'offerta dei vostri dolori, e che vi facciano una stampita da non finirla più. E voi escite dalle loro consolazioni più disanimati che mai. Peggio, poi, quando le condoglianze vi sanno di bugiardo, perchè allora ci avete anche la nausea, dovendo dar fuori il dolce e tenervi in corpo l'amaro.

Spinello Spinelli, come potete argomentare da questo discorso che io vi ho fatto secondo la sua intenzione, cansava molto volentieri ogni incontro. Nello stato d'animo in cui egli si trovava, ogni conoscente era un seccatore. Da bottega al Duomo; dal Duomo a bottega; era questo il suo itinerario quotidiano, compiuto con una rapidità da meritargli il soprannome di Saetta.

La nuova impalcatura era stata rizzata dai manovali; e Spinello, come potè avvicinarsi al suo povero affresco, non durò fatica a riconoscere che, scambio di terre, gli avevano macinato colori minerali, con qualche altra diavoleria per giunta alla derrata. Ma che cosa fosse veramente questa diavoleria, nè egli, nè mastro Jacopo riuscivano ad intendere, mancando a quei tempi il benefico trovato delle analisi chimiche. Ambedue maledissero un'altra volta il Chiacchiera e lo votarono agli spiriti maligni, come usavano fare gli antichi Ebrei col capro emissario della tribù; indi Spinello si diede a rifare i suoi cartoni, in quella che i manovali scalcinavano la vòlta.

Disgraziato affresco! Egli sparì dopo aver brillato una settimana agli occhi della moltitudine stupefatta; sparì, come sparisce una donna leggiadra, dopo avere innamorato mezzo mondo della sua fiorente bellezza. Ma quantunque la fine dell'affresco di Spinello Spinelli fosse stata precoce, non gli era toccata la sorte delle belle donne che muoiono giovani, poichè s'era da un giorno all'altro imbruttito e ne avevano detto corna quegli stessi che più lo avevano lodato. Instabilità degli umani giudizi!

Animato da un po' di rabbia, ma più dai conforti della bella Fiordalisa, Spinello si pose all'opera e lavorò per quattro. Già si capisce che il ritratto di madonna fu per allora rimesso a dormire. Infelice ritratto! Non era venuto bene da principio, e meritava la sua sorte.

Mastro Jacopo non si dolse di ciò. Egli, che pure aveva spese tante parole a consigliare quell'opera, fu il primo a dire che era meglio lasciarla da banda. Un po' di intervallo ci voleva, perchè l'animo si mettesse in pace e l'occhio del pittore si liberasse da certi dirizzoni; più tardi si sarebbe veduto. Ma Spinello non contava di ripigliare il lavoro, nè più tardi, nè mai. Sapete già che nella impossibilità di ritrarre i lineamenti di Fiordalisa egli ci vedeva l'effetto di una malia. Perchè avrebbe richiamato lo spirito maligno, che si beffava così crudelmente di lui? Meglio era non pensarci affatto.

Del resto, il Miracolo di san Donato richiedeva tutto il suo tempo. Spinello era pieno d'ardore e passava sul trespolo le intiere giornate, lavorando alla brava. I pennelli, nelle sue mani, andavano e venivano come la spola in mano alla tessitrice. Un mese dopo la scena coi massari del Duomo, che v'ho raccontata più su, il nuovo affresco era condotto a termine. Tutto era stato osservato con diligenza, e direi quasi passato allo staccio, la calce, la rena, i colori. Mastro Jacopo vegliava come uno degli Otto; nessuno, oltre lui e Spinello, aveva potuto metter piede sul ponte. Anzi, il vecchio pittore aveva spinto il rigore a tal segno, che lo scaccino del Duomo dovesse vietare a lui stesso a lui, mastro Jacopo, di salire sull'impalcatura, se non fosse stato presente Spinello.

–Non si sa mai!—diceva egli ridendo.—Potrei essere sonnambulo, venire in Duomo senza avvedermene e tentare di salire quassù; per fare qualche tiro mancino, sotto la guida del diavolo.—

I massari degnissimi videro il nuovo dipinto e si congratularono col giovine artista per la sua diligenza, come per la sua valentia. Il popolo fu chiamato e ammirò. Spinello, rifacendo, aveva mutato alcune cose, pensando che potesse vantaggiarsene il quadro. E certamente la composizione, restando suppergiù quella di prima, ci aveva guadagnato di scioltezza; il disegno appariva più corretto, e tutte le parti assai meglio dipinte. Chi ha dovuto rifare un lavoro, anche lodato nella sua prima forma, intenderà queste cose. Ma non mancarono neanche i sofistici, per sentenziare che il primo affresco era meglio. E forse, anche senza saperlo, dicevano il vero, poichè la freschezza di una prima impressione non si ripete più, anche facendo un più corretto lavoro.

Lodato, levato a cielo, messo a confronto con sè medesimo, Spinello non era tuttavia con l'animo all'altezza della sua riputazione. Il poveretto sfioriva, avvizziva, intristiva ad occhi veggenti.

–Ragazzo mio,—gli disse un giorno Mastro Jacopo,—tu non sei contento dei fatti tuoi; tu aspetti qualche cosa, come a dire la manna del cielo.

–Che dite, maestro!—esclamò il giovinetto, confuso.

–Negalo, se ti basta l'animo. Non sarà la manna, lo capisco, ma qualche cosa di simile. Per esempio,—soggiunse maliziosamente il vecchio pittore,—una parolina di quel certo babbo. Ed io, scimunito, m'ero messo in testa che ti bastasse la gloria!

–Oh, padre mio,—rispose Spinello, indovinando finalmente dove volesse andare a battere mastro Jacopo,—la gloria è una bella cosa, soltanto perchè è donna. Ma una donna vera, sia detto con vostra licenza, vale assai più della gloria, che è donna solamente per grammatica.

–Eh! non dirai mica sempre così;—ripigliò mastro Jacopo.—Come tu mi vedi, io amo adesso la gloria, che è donna per burla. È vero che anch'io non sono più l'uomo di prima. Tuttavia, quando aveva i tuoi anni, amavo una cosa e l'altra, anzi una cosa per l'altra. Ma infine, siamo giusti, non è questo ciò che tu fai? Desideri di risplendere, d'innalzarti, per raggiungere un fiore.

–Ed un fiore che voi tenete tropp'alto con la mano;—disse Spinello, ridendo.

–Sì, eh, manigoldo! Troppo alto? Stiamo a vedere che dovrei buttartelo tra' piedi! Ma basti di ciò;—soggiunse mastro Jacopo, vedendo che il povero innamorato si faceva serio da capo;—che diresti tu del giorno di San Luca? Sai pure. San Luca è il patrono dei pittori.

–Dico,—rispose il giovane, chinando la testa,—che san Luca verrà fra trentadue giorni.

–Ti paion troppi? Contentati! Anche Fiordalisa ci ha i suoi apparecchi da fare.—

Spinello Spinelli si buttò nelle braccia di mastro Jacopo.

–Animo, via!—brontolò il vecchio pittore.—Non piangere, io credo di aver disimparata quest'arte, e potrei esser geloso di te.

Così dicendo, mastro Jacopo asciugava due luccioloni, che erano venuti proprio allora a farlo bugiardo.

Quel giorno, Spinello Spinelli entrò raggiante in bottega. E Parri della Quercia e Tuccio di Credi, opachi e taciturni lavoratori, levarono gli occhi stupiti a contemplare quel giovine cherubino, che non capiva più nella pelle.

–Che c'è?—disse Parri della Quercia.—Vi fiammeggiano gli occhi.

–Lo credo io!—rispose Spinello.—C'è… c'è, amici miei, una grande novità. Ve la dò a indovinare alle cento.

–Dio buono!—esclamò Parri della Quercia,—si tratta di una cosa che vi fa molto piacere.

–Benissimo! Avete indovinato alla prima.

–Eh, che sia una cosa allegra lo si vede dalla vostra cera. Che cosa sia, poi, aspettiamo di udirlo dalle vostre labbra, poichè non basterebbero a noi, nè le cento, nè le mille.

–San Luca! San Luca!—gridò Spinello, saltando, e abbracciando l'amico Parri.—Mi capite? Il giorno di San Luca.

–Cade se non m'inganno ai 18 di ottobre;—rispose Parri della Quercia.

–Che importa a me quando casca? Volevo dirvi che quel giorno io sposerò madonna Fiordalisa.

–Ah!—disse Parri.—Abbiate le mie congratulazioni. Quantunque, potete anche farne di meno.

–V'ingannate, Parri; le congratulazioni degli amici ci esprimono il loro animo e portano fortuna come gli augurii. E il vostro e quello di Tuccio mi saranno carissimi.—

Tuccio di Credi, così chiamato a parte della gioia di Spinello Spinelli, lasciò di macinar colori, per rispondere col suo accento grave, che pareva scaturire dagli abissi:

–Siate felice!

–E voi mi sarete compagni alla cerimonia, non è vero?—ripigliò Spinello, che era avvezzo al tono di voce dell'amico Tuccio e non doveva farne più caso.

–Sicuramente,—rispose Parri della Quercia.—La vostra allegrezza è la nostra.

–Ed è grande, sapete? Così grande che io non la posso contenere; così grande, che ho sempre paura di…. Ma non diciamo sciocchezze. Volevo soltanto farvi intendere che gioia profonda sia quella di possedere chi s'ama, quando si ama….

–Come voi amate, ho capito;—disse Parri della Quercia, col suo placido viso.

Era contento quel buon diavolaccio di Parri. Non si sentiva nato per nessuna altezza, e dalla sua mediocrità consapevole, ma non gelosa, godeva di ammirare i fortunati che andavano su, fin dove un uomo può andare, per cogliere ciò che è più desiderato nel mondo, una corona di alloro o un amplesso, il bacio della gloria o un bacio di donna.

Tuccio di Credi, per contro, era diventato livido come un cadavere. Ma già, voi lo sapete, Tuccio di Credi aveva la faccia di colore olivastro, e queste tinte illividiscono facilmente ad ogni commozione dell'animo. Ora, il lividore di Tuccio poteva essere un segno di allegrezza profonda, come era di profondo rancore.

Anch'egli aveva amato Fiordalisa, ma senza speranza, prima che Spinello Spinelli entrasse in bottega di mastro Jacopo e innamorasse la bella figliuola del pittore. Per altro, avrebbe voluto che gliela rubasse un altro; il Buontalenti, per esempio, o il primo venuto tra i cavalieri d'Arezzo. Egli certamente avrebbe odiato il rivale, ma non così fieramente come un compagno d'arte, la cui felicità dovesse stargli sempre davanti agli occhi, quasi un rimprovero alla sua dappocaggine.—Ecco qua (parea dirgli un matrimonio di quella fatta); madonna Fiordalisa, quest'angelo di bellezza doveva toccare in premio ad uno che avesse in petto il sacro fuoco dell'arte; e tu non eri quell'uno.—

Ma che importa, quando si ama (dirà il lettore), che importa che la persona amata vi sia rapita da Caio, anzi che da Sempronio? Importa moltissimo, se all'amore aggiungete l'invidia.

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Дата выхода на Литрес:
01 декабря 2018
Объем:
250 стр. 1 иллюстрация
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