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Читать книгу: «Il peccato di Loreta», страница 12

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Ma s'interruppe subito vedendo come Loreta ad un improvviso scarpiccio su per il viale avesse trasalito invitandolo col gesto a tacere.

Infatti un passo grave, come d'uomo che cammini lentissimo, si avvicinava. La tortuosità del viale impediva di distinguere ancora chi si avanzasse. Tuttavia, per un solo momento, da una brevissima radura aperta tra i cespugli, sì Loreta che Alvise credettero intravvedere una figura di uomo in abiti neri.

Loreta ebbe paura.

–Lasciatemi… – mormorò concitata. – Io scendo sola verso il villaggio… Voi seguite la strada del colle verso Fontanabona…

Egli le prese rapidissimamente la mano:

–Ci rivedremo, Loreta? – mormorò ansimante, mentr'ella già si staccava da lui, avviandosi.

Confusa, tremante e come vinta per un attimo da quella incoscienza di tutto, che colpisce lo spirito sotto la minaccia di uno stringente pericolo, ella si lasciò sfuggire una parola di adesione, breve e sommessa come un sospiro:

–Sì… sì…

E si separarono frettolosi: Alvise prendendo la via verso il colmo del poggio, Loreta scendendo alla pianura, ove il sentiero campestre raggiunge la strada maestra, che attraversando Tricesimo conduce direttamente alla villa dei Sant'Angelo.

Dopo solo pochi momenti Loreta s'imbattè nella persona che coi suoi passi aveva determinato la rapida separazione di lei e d'Alvise. E fu con un senso di ripugnanza ch'ella riconobbe nel solitario passeggiatore il pievano di Collalto, don Giovanni Morganti. Secondo il suo costume il degno Prè Zuan se ne veniva lentissimamente, col cilindro all'indietro, colle lucide guance vivamente arrossate, col sigaro di Virginia all'angolo della bocca sdentata. Allo scorgere la signora Sant'Angelo il vecchio prete trasse dalle labbra il sigaro e, fissandola in viso coi suoi occhi insolenti, ebbe una curiosa smorfia, che si sarebbe detta di ironia e di gioia al tempo stesso.

Loreta passò rapida oltre. E il prete allora, lanciatale dietro un'altra occhiata, affrettò a sua volta il passo curiosamente, mettendosi a fischiettare con aria di spavalderia il ritornello allegro di una canzone popolare.

La Sant'Angelo era rientrata agitatissima, in preda ad una eccitazione penosa, che per qualche momento ella credette impossibile di poter nascondere o dominare. La coscienza della propria agitazione era così piena in lei da farle credere inutile ogni tentativo per mascherare più oltre al professore il vero stato dell'animo suo. La sua mente le diceva che appena egli l'avrebbe veduta, il vero gli sarebbe stato palese. Epperò nel varcare la soglia della casa, ella aveva provato un invincibile e profondo timore. Ma il capriccio del caso parve venuto in suo soccorso. Il suo incontro con Mattia fu ritardato da speciali circostanze: il professore era stato trattenuto all'ufficio comunale di Tricesimo per certi urgenti ed improvvisi interessi d'indole elettorale ed aveva lasciato detto che sarebbe rientrato più tardi, anzi che non l'attendessero nemmeno. Il tempo così intercorso giovò a rimettere l'animo di Loreta ed a riguadagnarle la calma necessaria a coprire il suo turbamento.

Il Sant'Angelo ritornò infatti assai tardi e, trovata la moglie che ancor l'attendeva per la cena, non mancò di farle un gentile rimprovero per il disturbo dell'attesa, ch'ella, a malgrado del suo avvertimento, s'era voluto procurare. Poi, poco appresso, quando furono a tavola, Loreta notò subito come il consorte fosse tutt'altro che del consueto umore: parlava poco, rannuvolato in viso, e la premurosa Vige spendeva indarno le sue abitudinarie magnificazioni a' propri manicaretti, che quella sera rimanevano proprio quasi intatti, con grandissima mortificazione al suo orgoglio di abilissima cuoca.

Il professore, che ad una timida interrogazione della moglie aveva accusato della propria svogliatezza l'uggia delle molte brighe avute in quel pomeriggio, non potè trattenere qualche segno d'impazienza anche quando la Vige, dopo avergli servito il bicchierino di vecchia acquavite, ch'egli prendeva sempre al finire della cena, stimò opportuno, forse nell'intento di distrarlo dai suoi foschi pensieri, di toccare un argomento, del quale s'era già parlato moltissimo in casa Sant'Angelo. Si trattava della sparizione, che durava ormai da più giorni, del fido terranova, prè Zuan. Il professore, avvertitone subito, non vi aveva fatto da prima gran caso: tratto tratto quel vigile guardiano, obbedendo chi sa mai a quale allegro desiderio di avventure, soleva prendersi le sue brave vacanze, e di certi suoi lunghi vagabondaggi per le campagne e sino ai più lontani villaggi s'eran fatti assai spesso tra i contadini del luogo i commenti più faceti e più maliziosi. È vero che, questo suo amore per le avventure, il povero prè Zuan fu replicatamente a un pelo di pagarlo assai caro. Col nome che portava, di nemici non aveva difetto. Il Morganti e i suoi accoliti una buona schioppettata, se l'avessero avuto a tiro in qualche loro podere, sarebbero stati ben lieti di potergliela regalare: anzi più volte gliel'avevano, senza tanti misteri, promessa. E se il valoroso terranova era riuscito fino allora a salvare la sua pelle, non aveva per contro saputo risparmiarsi più d'un matto colpo di randello e qualche brava sassata, che l'avevano fatto tornare zoppicante e malconcio alla casa del padrone. Le sue sparizioni duravan però assai poco: dopo un paio di giorni di baldoria si era certi di vederlo ricomparire a un tratto, mogio mogio, con le orecchie basse, quasi col timore di qualche castigo. E poichè questa volta la sua scomparsa durava un tempo ben più lungo dell'ordinario, tutti in casa ne avevano parlato più volte come di un fatto che suscitava una vera curiosità: Agnul specialmente, che pel vecchio cane aveva un affetto grandissimo.

Ora quella mattina una ragazza di Collalto, capitata a trovare la Vige con cui eran da lungo amiche, le aveva, tra le molte storielle del suo villaggio, narrata pur quella di un magnifico tiro, che un certo suo parente, colono del prete Morganti, furbo trincato e maestro insuperabile di burle, aveva fatto un paio di giorni innanzi, e questa volta non già col proposito di prendersi uno spasso, ma con quello assai più positivo di ingraziarsi il padrone, il quale-diceva lei-era un ministro del Signore, degno certo di tutto il rispetto, ma duro co' suoi contadini assai peggio di un sasso. Il tiro, soggiungeva la donnetta, senza immaginarsi mai più quanto la cosa toccasse i Sant'Angelo, era stato giocato nel modo il più comico, tanto che in paese non rifinivano dal farne le più matte risate. Si trattava, figurarsi!, di un vecchio cagnaccio, al quale uno "spregiudicato" aveva avuto la faccia fresca d'imporre per ischerno il nome stesso del signor pievano!.. E al contadino-che dei debiti col prete suo padrone ne aveva per disgrazia un grosso sacco e cercava sotto terra il modo di renderselo paziente e buono-quando una bella mattina si trovò il famoso cane che s'aggirava pel suo cortile… immaginarsi se non parve un regalo della provvidenza! Che fa? Panf! gli aggiusta prima un tal colpo di pietra che per poco non lo lascia morto, e lo chiude quindi in un suo fienile, giurando di fargli fare un digiuno così bello, da rimandarlo poi con tanto di cestole fuori a quel "poco di buono, senza timor di Dio" che s'era permesso di dare ad una simile bestiaccia niente di meno che un nome cristiano! – E la ragazza, che a narrare cotesta storiella aveva adoperato un vero fiume di parole, venne alla conclusione che il tiro era stato così destro e bene ideato che il furbo suo autore poteva, senza tema di errare, ripromettersene dal prete Morganti uno strappo da far epoca alla sua proverbiale spilorceria…

La buona Vige, chiacchierina sempre, volle condire a sua volta questo racconto con una serie di commenti così prolissi e con un lusso talmente abbondante di digressioni, che il professore, per quanto interessato dall'argomento, terminò per infastidirsi, mandando al diavolo il prè Morganti, tutti coloro che gli volevano bene e perfino la Vige, a cui, nel sentirlo a parlare in quel modo, eran venuti lì per lì i lucciconi agli occhi.

Ma stette zitta, perchè quando il professore era in quello stato, prudenza insegnava a non rifiatare ed a lasciarlo in pace.

Del resto Mattia stesso, appena finito quel racconto, accese il suo virginia, e salutata la moglie, che diceva di volersi ritirare, uscì solo sulla spianata, dinanzi alla casa, per fumare un poco tranquillamente.

"Tranquillamente" – aveva detto così a Loreta nel lasciarla. Ma chi lo avesse veduto poco appresso, allorchè si trovò solo, nel silenzio della notte, con la coscienza d'essere al sicuro di ogni sguardo indiscreto, avrebbe compreso come quella parola non fosse stata per nulla corrispondente alle condizioni dell'animo suo. Sedutosi al posto consueto, presso alla balaustrata che guardava sui campi, il professore aveva gittato con un senso di nausea il suo sigaro; poi, rialzata l'ala del cappello sulla fronte, erasi raccolto il capo fra le palme, fissando lo sguardo pensieroso sulla campagna nera e silente. La notte era cupa. Sul cielo, dove correvano con la minaccia di un maltempo grosse nuvole scure, luccicavano a tratti poche pallide stelle. Solo da lunge un lieve riflesso rossastro lasciava indovinare, di là dalle macchie brune de' villaggi dormenti e punteggiati ancora di qualche fievole lume, la città di Udine con le sue strade ben rischiarate.

Il tempo passava e Mattia restavasene immobile al suo posto. Era lì da un pezzo e pareva che neppure si fosse accorto del silenzio che s'era fatto in quel mentre nell'interno della casa. Sparecchiata la mensa e riordinata la cucina, la Vige aveva spento i lumi; nella camera della signora, al primo piano, il bagliore della lampada di tra le persiane era sparito da molto tempo. Ma il professore non pensava affatto a rientrare. Il pensiero ond'era dominato lo teneva così tenacemente che il sentimento d'ogni altra cosa erasi estinto in lui. Ed era il pensiero doloroso, che da più giorni lo torturava senza tregua. Il dubbio, da lui respinto prima come insensato, s'era negli ultimi giorni, nelle ultime ore, fatto a poco a poco sempre più acuto. E l'impotenza della difesa, subito, con velocità fulminea, si presentò alla sua mente agitata. Quanto credulo prima, diffidente a un tratto, era cominciato in lui un lavorio febbrile di idee, un cozzo di mille supposizioni, da cui gli veniva una sofferenza insopportabile. Non sapeva ancor nulla, non aveva raccolto ancora nessun indizio positivo, ma pure il suo animo tremava in uno di quei tetri presentimenti; che nascono talora da un nonnulla appena avvertito, ma che nessun ragionamento riesce a far dileguare.

Il cielo intanto s'era venuto sempre più oscurando: uno spiro molesto di vento faceva stormire gli alberi intorno alla casa: per tre o quattro volte il guaìto lamentoso di un cane risonò nella campagna. Il professore si scosse e tendendo l'orecchio a quella voce sinistra, che rinnovavasi ancora con penosa insistenza nell'oscurità ormai profonda, non potè schermirsi dal pensare al malurioso significato, che a tali voci notturne suole attribuire la superstizione dominante tra quelle popolazioni agricole.

Lentamente, il professore accingevasi a rientrare, quando di là dal cancello osservò dischiudersi la porta dello stallaggio ed uscirne frettoloso, con una lanterna accesa dondolante in mano, il piccolo famiglio Agnul. Con passo rapido egli attraversò il cortile e in pochi momenti fu innanzi al padrone:

–Che c'è? Dove vai? – chiese questi,

Agnul alzò la sua lanterna a livello del capo e Mattia notò subito uno strano sbigottimento ne' lineamenti del bravo ragazzo.

–Signor padrone, venivo in cerca di lei. Mi immaginavo ch'Ella potesse essere ancor qui, come ogni sera… Non avrei potuto aspettare domani per dirle… È una cosa tanto curiosa…

–Ma via dunque, cosa è stato?

Prè Zuan

–Ebbene?

–Povero prè Zuan! È tornato.

Mattia non potè frenare un gesto di noia: per quanto quella notizia gli facesse piacere, non giustificava per fermo tutta la sollecitudine e il grande sbigottimento del ragazzo.

–Ebbene… tanto meglio!

–Eh! sì, sarebbe meglio… Ma se vedesse in quale stato!.. Ero andato a dare un'occhiata ai cavalli come faccio ogni sera, poi stavo per recarmi a dormire, quando dalla porta della stalla-dalla piccola porta che dà sulla campagna-odo un certo rumore come di chi spingesse dal di fuori l'imposta, e poi, subito, due o tre lamenti lunghi… ma così tristi, proprio come di un uomo che chiamasse in aiuto. Corsi subito a vedere e là, proprio sulla soglia, giacente in mezzo all'erba, ho trovato il povero nostro prè Zuan… Se sapesse che male mi ha fatto a vederlo così! Magro, infangato, colla testa macchiata di sangue. Chi sa mai da dove viene, chi l'ha conciato a questo modo e come ha fatto a trascinarsi fin qui!.. Lo portai dentro, lo distesi sulla paglia: mi guardava con due occhi… con due occhi che dicevano tante cose… Ho paura, povero prè Zuan, che questa volta non la scappa più!.. Ma la cosa più strana principia adesso… Quando feci per levargli il collare che portava ancora, notai subito un oggetto, che non capivo che fosse e che vi stava attaccato con un pezzo di spago. Era un rotoletto di carta… eccolo qui!

E si trasse dallo sparato della camicia, aperta sul petto, un involtino che porse al professore.

Colpito dalla bizzarria del fatto, il Sant'Angelo tolse vivamente di mano al ragazzo l'involto e dopo averlo per un istante guardato al lume della lanterna, lo svoltò. Era un foglietto di carta grossolana, piegato in doppio, e conteneva poche linee di scritto a matita rossa con un grosso carattere contraffatto.

Sotto un notissimo distico friulano, che allude salacemente alla cecità de' mariti vecchi, il nome di Loreta e quello di Alvise Polverari si leggevano uniti in una frase brutalmente accusatrice. Poi in chiusa poche parole, piene di velenoso livore, contenevano un ammonimento, a lui stesso diretto, di aprire gli occhi "per vedere anche lui quello che tutti gli altri avevan già veduto."

Quelle parole, lette ansiosamente al lume tremulo della lanterna e che venivano proprio in quell'ora a ribadirgli i suoi sospetti tormentosi, furono come tanti colpi di una lama avvelenata nel cuore del Sant'Angelo. Non pensò alla mano nemica che le poteva aver tracciate; non ebbe uno scatto d'ira contro gli autori presumibili di quell'azione bassa e vigliacca: non sentì che una voce, la quale lo riconfermava nei suoi dubbî e gli appalesava quella verità, contro la quale s'era fin allora con tanta tenacia ribellato.

Barcollante, senza poter articolare una parola, credendo di venir meno ad ogni passo, egli rientrò in casa. Ma invece di salire alla sua camera per coricarsi, entrò al buio nello studio, e colà, gittatosi a sedere nella sua poltrona e, abbandonato il capo fra le braccia, si mise a piangere disperatamente, come un fanciullo.

XVII

Quando la mattina seguente Loreta si vide innanzi suo marito non potè reprimere un atto di sgomento, tanto le parve mutato e sofferente. Pallido, con gli occhi congestionati e con un tremore convulsivo, che gli contraeva le labbra ad ogni parola, tutto tradiva in lui una celata angoscia. E allorchè Loreta, trovatolo così nel suo studio, lo interrogò se si sentisse male, stette un istante perplesso, come côlto da un dubbio circa la vera significazione di quella domanda. Poi avendo ella insistito, sostenendo lo sguardo scrutatore ch'egli figgeva in lei, rispose seccamante con alcune frasi evasive:

–Sto male. Ti ho detto già ieri che mi sento un po' spossato. L'eccesso di lavoro in questi ultimi giorni…

Quindi vedendo com'ella accennava a soggiungere qualche parola, con fare un po' aspro ne la impedì:

–Non ho bisogno che di un poco di riposo. Lasciatemi stare: passerà.

Ma Loreta conosceva così bene l'animo di suo marito, ribelle ad ogni simulazione, che quelle parole, cercate con tanto stento e pronunciate con tanto sforzo, non potevano ingannarla. E poichè l'eccitazione vivissima, in cui ella stessa trovavasi, doveva di necessità farle apparire chiaro il vero motivo del turbamento di Mattia, ella pensò tosto con un senso di terrore, ch'egli avesse potuto già intuire di quale recondita lotta ella fosse in preda. Per un risveglio repentino d'onestà e di gratitudine, ogni altra riflessione tacque in quel momento in lei. Il pericolo a cui stava dappresso le balenò con piena evidenza. E con uno slancio, altrettanto pronto quanto sincero, si propose di uscire coraggiosamente da quella situazione. Conveniva non vedere più il Polverari: sottrarsi a tempo al fascino di cui pareva egli possedesse il segreto e contro il quale, come in un giorno lontano della giovinezza, ella sentiva già vacillare la propria volontà.

Penetrata della necessità di tradurre ad effetto questo divisamento, ella si tenne sicura di potervi riescire. Alvise l'avrebbe compresa e sarebbe stato costretto ad apprezzare il sentimento, al quale ella imponevasi di porgere ascolto. Era il dovere d'entrambi e bisognava compierlo senza esitanze.

Con l'anima tutta piena di questo pensiero, Loreta s'era chiusa nella sua camera e febbrilmente aveva cominciato una lettera per il conte Polverari. La penna le era corsa veloce per un intero foglietto, senza un pentimento, con quell'ardore di frasi che le veniva dalla sincerità del suo proposito. Era un appello energico al cuore di lui, alla sua bontà, al suo antico affetto: ed era in pari tempo un ultimo richiamo a quel passato, che doveva cancellarsi per sempre dalla loro memoria.

Ma a questo punto Loreta si arrestò. La mano, improvvisamente irrigidita, lasciò sfuggirsi la penna. E la signora, reclinato il capo, rimase con gli occhi immobilmente assorti nelle ultime parole da lei tracciate.

Dinanzi a quelle parole, che eran pure la ingenua confessione di quanto aveva sofferto per il suo amore infelice, uno scoraggiamento la invase paralizzandole d'un sol tratto le forze, dalle quali poco prima si sentiva sorretta. Nell'atto di dare così un addio decisivo al sogno della sua giovinezza, la poesia di quel sogno la riafferrava violentemente con una potenza nuova di seduzione.

In questo momento Loreta ebbe onta della propria fiacchezza. L'idea di trovarsi vinta le repugnò. Ma poi, persuasa ormai di non poter riprendere il dominio di so stessa, quasi si compiacque della riflessione, a poco a poco sôrta nel suo cervello, che il mezzo al quale aveva pensato di ricorrere fosse scelto con sì poca accortezza da dovervisi senz'altro rinunciare. Pensò a tutte le difficoltà, che avrebbe incontrato per far pervenire la lettera ad Alvise: si domandò quale contegno avrebbe egli tenuto dopo la lettura di quel foglio. Se, lunge dal piegare alla preghiera di lei, egli avesse voluto rivederla ancora? Se, come un giorno le aveva minacciato, fosse ricorso, pur di avere con lei una nuova spiegazione, ad un atto d'imprudenza?

Con una sùbita risoluzione Loreta balzò in piedi e lacerò la lettera. Indi, quasi con un senso di sollievo e con un rinnovamento d'animo, uscì dalla sua camera per tornare alle faccende di casa. Avrebbe trovato di meglio: il suo dovere l'avrebbe saputo compiere ad ogni modo.

In tutto quel giorno vide suo marito appena per brevi momenti. Pareva abbattutissimo; al pranzo scambiò con lei poche parole: di sera non volle prendere cibo e si mostrò d'umore così tetro, che a Loreta venne meno il coraggio di muovergli alcuna domanda.

La mattina appresso, subito dopo che il procaccia di Tricesimo gli ebbe rimesse le lettere, fe' chiamare il famiglio Agnul:

–Attaccherai la Grigia col carrozzino piccolo. Vado a Udine per affari e non tornerò che tardi questa sera…

Loreta, che aveva notato come il professore avesse cercato nel pacchetto della posta e percorsa con molto interesse una lettera, sulla cui soprascritta ella aveva riconosciuto il carattere grosso e malfermo di don Letterio Prandina, che sapeva da più tempo sofferente:

–Ti scrive Prè Letterio? – domandò al Sant'Angelo. – Sarebbe per caso aggravato?

–Sì, mi scrive. Sta molto meglio. Se sbrigo presto ciò che ho da fare… alla prefettura e al municipio… passerò un momento a salutarlo.

–Farai bene. Povero Prè Letterio, quello è un amico! Il professore la guardò in viso un istante. Poi con una lievissima intonazione di ironia:

–Quello… sì! – rispose.

E poichè in quel momento Agnul veniva a dirgli che il carrozzino era pronto e se desiderava ch'egli venisse con lui:

–No, puoi restare, – soggiunse subito. – Forse la signora può aver bisogno di te. Se vuoi uscire… colla carrozza…

Quindi volgendosi a Loreta:

–Uscirai oggi? – domandò con naturalezza.

–Non so… forse. C'è la fiera a Moruzzo. Sai che s'era stabilito di andarvi… Avevamo promesso alla Vige…

E siccome la Vige, che dalla porta della cucina aveva ascoltato il dialogo, avvicinavasi ora sorridendo, la signora accennò a lei benevolmente:

–È da un anno che predica perchè si vada proprio a questa fiera a comperarle le stoviglie nuove per la credenza… Una sua fissazione… Se il tempo si mantenesse bello…

La buona Vige a questo punto sarebbe stata ben lieta di poter mettere a sua volta quattro parolette nel discorso. Ma il professore non gliene lasciò modo:

–Bene, bene, bisogna accontentarla! – disse brevemente, con l'aria di chi comincia già a sentirsi infastidito.

Poi, scambiato un rapido saluto con la moglie, prese posto nel carrozzino e partì.

Durante la giornata Loreta stette a lungo indecisa. Ella pensava che non approfittando di quell'assenza di suo marito, difficilmente le sì sarebbe più offerta occasione di rivedere da sola a solo il Polverari, per potergli dire ciò ch'ella si era risolutamente fissato nell'animo. E ricordando come in presenza di lui si fosse ne' giorni antecedenti fatto cenno della loro andata alla fiera di Moruzzo, giudicò ch'egli, tenuto di ciò memoria, vi si sarebbe certamente recato egli pure. In quel luogo popoloso il loro incontro non poteva destare sospetti ed essi avrebbero avuto adito di parlarsi con tutta facilità anche lungamente, senza correre nessuno de' pericoli, ch'ella ravvisava in ogni altro modo di abboccamento. Le sue esitanze furono con ciò completamente vinte: anzi riconobbe come felicissima la combinazione che le si era presentata. Epperò verso le prime ore del pomeriggio die' ordine al ragazzo di apprestare la carrozza.

Il ragazzo a quell'ordine fe' un salto dalla consolazione. Era una delle sue grandi gioie quando poteva uscire con la signora. E così tutta quella mattina, attendendo ch'ella si decidesse, non aveva fatto che consultare il cielo, nel timore che una grossa nuvola, comparsa improvvisamente ad offuscare il sole, non fosso venuta a rovinargli ogni cosa. Ma questo pericolo per fortuna fu scongiurato e in pochi minuti Agnul si trovò lesto con la carrozza, così azzimato e liscio nel suo abito da festa che la Vige, uscita ad accompagnare la signora, non si tenne dal fargli i suoi complimenti, cui egli-bisogna dire anche questo-mostrò di accettare con molta modestia, ma non certo senza una visibile soddisfazione.

Contento come una pasqua il ragazzo con quattro belle schioccate di frusta mise a buon trotto il cavallino e lungo tutta la strada che da Tricesimo conduce a Moruzzo non lasciò di rivolgere alla signora ad ogni momento qualche domanda, non tanto per tenerla allegra, quanto per ottenerne, – ambiziosetto com'era, – almeno una parola di elogio per la propria abilità di valente auriga.

Loreta però non era in vena di discorrere: di quanto il ragazzo le veniva dicendo pareva accorgersi appena, tanto che l'ottimo Agnul, vedendola così persistentemente seria, finì egli stesso per sentirsi sfumare tutta la sua allegria di poco prima. Faceva egli ancora scoppiettare la sua frusta, ma adesso non era più in segno di letizia, anzi le frustate sul dorso del cavallino eransi fatte così rabbiose, che questo, se avesse potuto, non avrebbe certo mancato di protestare contro la immeritata parte che gli toccava, di servire di sfogo all'altrui malumore.

Poi, dopo circa un'ora di corsa, il tempo s'era venuto peggiorando. Il sole, che dal meriggio in poi aveva lottato vittoriosamente con l'addensarsi delle nubi, ora era sparito sotto un fitto velo di nebbia, che cacciata da un'aria frizzante si stendeva rapidamente pel cielo.

Il bravo Agnul, che come tutta la gente di campagna era pratico di queste sorprese del tempo, cominciò a guardarsi intorno impensierito. Egli sapeva come quel nebbione, che fumava ognora più fosco laggiù dai piedi delle Alpi, era sempre stato foriero di temporali. Ma poichè la signora nulla diceva, egli guardavasi bene dall'essere il primo a parlare. Mentre attraversavano i villaggi la gente guardava con un po' di sorpresa la carrozza dei Sant'Angelo che passava veloce a malgrado della minaccia del tempo. E quando, nel salire l'erta un po' faticosa che costeggia il palazzo Morò-Casabianca, il cavallo rallentò il passo, il fattore Beppo, uscito dal cortile al rumore delle ruote, s'avvicinò alla carrozza, per salutare la signora.

–Va a Moruzzo, contessina? – domandò garbatamente, col berretto in mano.

–Sì, a Moruzzo.

–C'è andato anche il signor conte Alvise. Ma mi pare che il tempo voglia farne una delle sue. C'è un buio laggiù dalla parte di Tarcento… Sarebbe meglio tornare, contessina.

Loreta sorrise.

–Non ne indovinate mai una voialtri. Non sarà nulla. In meno di mezz'ora avremo il sole.

E la carrozza proseguì.

Ma non erano trascorsi dieci minuti che un improvviso incalzare del vento die' ragione a' consigli del vecchio fattore. Un polverone bianco, accecante, si sollevò sulla strada maestra, mentre in fondo all'orizzonte oscuro, di là dalla città di Udine, un rapido balenio rompeva a tratti con un solco rossastro la nuvolaglia bigia.

Lungo la strada vedevansi ora le contadine chiudere affrettate le finestre dei casolari e sbarrare le porte degli stallaggi. Dalla parte di Moruzzo scendevano di seguito numerosi carrozzini coi cavalli lanciati a gran trotto: molte donne e molti uomini coi canestri in capo e con fardelli in mano venivano frettolosi nel gran polverone, cacciati evidentemente dal campo della fiera, ove l'avvicinarsi del temporale aveva disertato il mercato e rotte le contrattazioni.

Il cavallo dei Sant'Angelo repentinamente s'arrestò recalcitrando, colle orecchie ritte, fiutando esso pure il maltempo.

Allora Agnul si risolse a parlare:

–Che si fa, signora? Il temporale viene. Torniamo?

Ella parve per un momento indecisa. Quell'aria acuta che le sferzava il volto, quella sorda minaccia della tempesta che pesava tutto intorno, le dava quasi un senso di ebbrezza.

Agnul timidamente ripetè la sua domanda.

Fu in questo momento che una carrozza, la quale scendeva dal paese, s'incrociò con quella dei Sant'Angelo. E tosto una voce: quella di Alvise Polverari, ordinò vibratamente al cocchiere di fermarsi.

Subito i cavalli si arrestarono e il conte Alvise, balzato a terra, s'affrettò premurosamente al carrozzino, in cui sedeva Loreta.

–Ella pure diretta a Moruzzo? Peccato, peccato!.. Un vero contrattempo… Avesse visto! Un fuggi-fuggi generale: lassù ormai non ci deve più essere anima viva.

–Infatti, – ella disse, – non c'è ormai proprio che il tempo di mettersi in salvo.

–Avrebbe in mente di rifare la strada?

–E come no! Da qui a Tricesimo…

–Da qui a Tricesimo c'è un'ora buona. Il temporale sta per iscoppiare. Sarebbe un'imprudenza. Guardi…

Ed egli tese la mano sotto le gocciole della pioggia, che già cominciavano a cadere grosse e lente. Indi con molta cortesia:

–Morò-Casabianca, – proseguì, – è a due passi. Io spero ch'Ella vorrà accettare una breve ospitalità. I temporali in questa stagione durano tanto poco… Ma avventurarsi ora…

Loreta non potè schermirsi. Era così naturale che non opponesse un rifiuto a quella profferta gentile, che ella rinunciò subito a farlo, tanto più che Agnul, il quale, al pari di tutti i contadini di quelle campagne, coraggioso d'indole si faceva piccino piccino durante le tempeste, le veniva da un pezzo ammiccando perchè ella acconsentisse. Di quel contrattempo il ragazzo a conti fatti avrebbe trovato motivo di consolarsi: alla fattoria un bicchiere di quel buono non gli sarebbe mancato, poi, dopo sì lungo tempo, non gli spiaceva niente niente di rivedere la sua vecchia nonna Mariute, l'unica parente che gli restava ed alla quale voleva bene a malgrado vivessero già da tanti anni separati.

Le due carrozze procedettero a passo spedito di conserva verso il palazzo e in meno di dieci minuti entravano sotto la vôlta dell'androne dove il fattore Beppo e le sue figliuole stavano attendendo.

Il conte, che aveva aiutato Loreta a scendere dal carrozzino, ordinò rapidamente al fattore di provvedere ai cavalli; poi, con molto garbo, invitò la signora ad entrare. La pioggia in quel momento cominciava a cadere con uno scroscio torrenziale, e il vento cacciandosi con veemenza nell'androne fe' sbatacchiare violentemente tutte le imposte.

–Vede, signora, se avevo ragione quando le dicevo che sarebbe stata imprudenza il voler continuare la strada.

–Infatti! – ella rispose brevemente salendo lo scalone, preceduta da una delle figlie del fattore.

Poco appresso, licenziata la fanciulla, si trovarono soli nella sala dei quadri, che il conte Alvise, in quei brevi giorni da che durava la sua dimora al paese, aveva scelto nel palazzo a suo luogo preferito.

Loreta, entrata appena, si guardò intorno con curiosità. Ella riconobbe quella sala, ricordando il giorno in cui parecchi anni prima c'era venuta in un pomeriggio d'aprile con Mattia, la signora Chiara ed il conte Mangilli. Nulla v'era di mutato: sempre al loro posto gli antichi mobili di noce, coperti di broccato veneziano: sempre in alto sulle pareti le vecchie tele che eternavano colla bellezza delle loro linee il nome e la gloria di Bertrando da San Genesio, il patriarca-guerriero.

–Ah! qui? – ella chiese naturalmente.

–Qui… è il luogo dove io passo quasi tutte le mie ore. Ho scelto questo per tante ragioni: prima di tutto le memorie, anzi le leggende, che vi si connettono; poi… la splendida vista che vi si gode.

Ella guardò dagli ampî balconi. Ma la scena non era più quella che un giorno le si era affacciata, beata e sorridente, de' campi in festa. Una bruma bassa e folta addensavasi sopra l'intero paesaggio: nel letto del Cormor, fra le due rive rocciose, l'acqua alta e giallastra scrosciava con sordo rumore fuggendo sotto le sferzate violenti della pioggia. Da lunge il brontolìo del tuono prolungavasi cupo, mentre da tutti i villaggi della vallata giungeva il suono affrettato e insistente delle campane, col quale i contadini hanno la superstiziosa credenza di scongiurare il pericolo delle saette.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
03 июля 2017
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