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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Le quali cose mal considerate da noi, non come térrei, ma quasi come se di fuoco fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá di scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza, chi per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi divenuti siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni leggerissima cosa ci accendiamo; e, non potendo lʼun dellʼaltro sofferire i costumi, non solamente per ogni piccola ingiuria ci adiriamo, ma come fiere salvatiche daʼ cacciatori e daʼ cani irritate, in pazzo e bestial furore trascorriamo, tumultando, gridando e arrabbiando. E cosí nelle tenebre dellʼignoranza offuscati, spesse volte e noi e altrui in miseria quasi incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la divina ira, avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli splendor mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e noi non altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati in puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando, adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere ad altro; accioché per questa dichiarazione sia meglio conosciuto, e, per conseguente, dal meglio conosciuto meglio guardar ci possiamo, e, oltre a ciò, con men difficultá veggiamo come attamente lʼautor disegni dalla giustizia di Dio essere alla colpa dato conveniente supplicio.

Dico adunque che, secondo che ad Aristotile pare nel quarto dellʼEtica, che lʼira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata da tristizia nata nellʼadirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé o in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è di bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che non deono, e piú tempo perseverano in stare adirati che essi non deono.

E di questi cotali adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo dimostra, son tre maniere. La prima delle quali è quella dʼalcuni, che, per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori, solamente che loro non sodisfaccia, subitamente sʼadirano e gridano e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi lor sia bastevole dʼaversi mostrati adirati, o perché subitamente vien lor fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si sono; e cosí esalata lʼira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la colpa dellʼadirarsi minore. Eʼ pare che in questa spezie dʼira sieno fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession collerica, dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga questa subitezza.

La seconda maniera è quella di coloro li quali non troppo correntemente per ogni piccola cagion sʼadirano, ma pure in quella, dopo alquanto aver sofferto, pervengono: lʼira deʼ quali è sí pertinace e ferma, che non senza difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente adirati, servando dentro a se medesimi lʼira loro, né quasi mai quella risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna vendetta non prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima noia, percioché, quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato appetito, tanto servano lʼira e se medesimi affliggono e molestano. Ed è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né amico né altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue esser di necessitá o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son questi cotali non solamente a se medesimi molesti, ma ancora alle lor famiglie, aʼ compagni e agli amici, coʼ quali essi, stimolati dalla turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. [E da questa spezie dʼira sono infestati maravigliosamente quegli che son di complessione malinconica, percioché in essi, per la grossezza dellʼumor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente.]

La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati, in alcuna maniera non lasciano lʼira, né per consiglio dʼalcuno, né per lusinga, né ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa vendetta dellʼoffesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono pessimi adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi hanno lʼira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare; e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo, rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci per alcuna maniera ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli, per farci al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il quale volle rivedere la ragione dellʼamministrazione che un deʼ suoi servi aveva fatta deʼ fatti suoi. Trovò che ʼl servo gli doveva dare cento talenti, e però comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse messo in prigione, infino a tanto che egli avesse interamente pagato: ma, pregandolo con umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione del debito; e poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere un suo conservo, per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in prigione. Il che udendo il signore, che cento nʼavea perdonati a lui, il fece prendere e dʼogni suo bene spogliare e gittare nelle tenebre esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato ingrato, non volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo signore essere Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti esser ciascheduno uomo: e perché possibile non ci era pagare il debito, mandò di cielo in terra il Figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal grati di tanta grazia, non ci possiamo, né ci lasciamo recare aʼ conforti di coloro che saviamente ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, lʼuno allʼaltro: di che, privati dʼogni nostro bene, siamo per giudicio di Dio gittati in casa il diavolo.]

Ma, quantunque lʼuno pecchi meno che lʼaltro di queste tre maniere dʼiracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver saputo porre il freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la ragione detta di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: «Mihi vindictam et ego retribuam». E per questo nellʼira sua divenuti e in quella morti, quello ne segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam mandati al supplicio, il quale lʼautore ne discrive.

È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro supplicio dannoso molto allʼiracundo, ma ancora nella vita presente. Ercule, adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due suoi figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular battaglia contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre suoi nepoti mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il quale non avevan potuto vincere lʼarmi troiane, vinto dallʼira, se medesimo uccise; Amata, moglie del re Latino, veduta Lavina, sua figliuola, divenuta moglie dʼEnea troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne misero peso delle travi del real suo palagio. Annibale cartaginese, chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani deʼ romani raddomandantilo al re Prusia, incontro a sé adiratosi, preso volontariamente veleno, sí morí. Che bisogna raccontarne molti? conciosiacosaché manifesto sia, lʼira, poi che il consiglio della ragione ha tolto dellʼuomo, col furor suo molti nʼabbia giá in miseria e detestabile ruina condotti; li quali come che in questa vita e seco medesimi e con altrui crudelmente si trattino, ne mostra lʼautor nellʼaltra non esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro essere nella palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile per lo suo fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente esala, tuffati e pieni dʼabominevole fastidio; e in quella non solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con ciascuno altro membro fieramente percuotersi, e coʼ denti mordersi e troncarsi le persone e stracciarsi tutti.

Sotto la corteccia delle quali parole, mescolando il moral senso, spettante a noi che vivi siamo, con lo spirituale, il quale aʼ dannati appartiene, si può vedere il dannoso costume degli iracundi in questa vita, e la gravosa pena deʼ dannati nellʼaltra. Il percuotersi con la testa, col petto e coʼ piedi niuna altra cosa è che un disegnare glʼimpeti furiosi degli iracundi, quando dal focoso accendimento dellʼira sono incitati. Possiamo nondimeno intendere per la testa dellʼiracundo i pensieri, glʼintendimenti, le diliberazioni dellʼiracundo, tutti posti e dirizzati dietro al disiderio della vendetta: e questo, percioché nella testa consistono tutte le virtú sensitive interiori e ancora le ʼntellettive, dalle quali sono formate le predette cose. E percioché nel petto consistono le virtú vitali e le nutritive, dobbiam sentire coʼ petti offendersi glʼiracundi, non lʼun lʼaltro, ma se medesimi; in quanto, quando molto si pon lʼanimo intorno allʼeffetto dʼalcun disiderio, non si prende da colui, che cosí è occupato, né la quantitá del cibo usata, né ancora con lʼordine consueto, per che conviene che la virtú nutritiva sia intorno al suo uficio talvolta molto impedita; dal quale impedimento séguita la debolezza e il diminuimento delle virtú vitali: e cosí, mentre che lʼiracundo con tutto il suo disiderio sta inteso a doversi dellʼingiuria ricevuta vendicare, offende piú se medesimo che ʼl nemico. E cosí ancora per li piedi dobbiamo intender le affezioni di qualunque persona; percioché, sí come i piedi portano il corpo, cosí lʼaffezioni menano lʼanimo e son guida di quello: e percioché tutte le affezioni dellʼiracundo sono pronte e inchinevoli a dover nuocere a colui o a coloro contro aʼ quali è adirato, dice qui lʼautore glʼiracundi coʼ piedi offendersi.

 

Il troncarsi coi denti le carni e levarsele con essi a pezzo a pezzo è efficacissima dimostrazione di quanta potenzia sia lʼimpeto di questo vizio, poiché non solamente offusca lʼintelletto e la ragione nellʼadirato, ma ancora il priva del senso corporale. Il che se non fosse, basterebbe allʼadirato lʼaversi morso una sol volta; percioché il dolore ricevuto di quella il farebbe rimanere di piú volte mordersi; dove noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta e sí furiosa ira accesi, che in se medesimi, non potendo quel che disiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, coʼ denti troncarsi le proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle. E questo medesimo ancora sono stati di quegli che, avendone il destro, hanno adoperato nelle persone state odiate da loro: sí come ne scrive Stazio, nel suo Thebaidos, di Tideo, amico di Polinice, il quale, sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con furia domandò dʼaverlo, e ultimamente, non senza gran zuffa e morte di molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso e menato dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane rabbiosamente coʼ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale atto, piú che umano, morí egli e uccise il nemico.

Lʼessere in quella padule fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa e piena di loto, assai ben si può comprendere la tristizia esser causativa dellʼira; percioché, se quelle cose che avvengono, delle quali lʼuomo sʼadira, se esse non ci contristassono, senza dubbio noi non ci adireremmo, e cosí per lʼesser contristati ci adiriamo: e perciò, accioché i miseri iracundi sieno nel vizio loro medesimo puniti e afflitti, e per quello senza pro riconoscano sé dovere avere con pazienza schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in questa padule di Stige, la quale è interpretata «tristizia», demersi bollono, e in continua ira, in danno di se medesimi, come dimostrato è, sʼaccendono.

Lʼessere la padule calda e nera e nebulosa ne può assai ben dimostrare le tre qualitá deglʼiracundi, delle quali di sopra è detto: intendendo per la caldezza del pantano la qualitá deglʼiracundi, la qual dissi subitamente accendersi, e ciò procedere dallʼomor collerico, il quale è caldo e secco. Per la nebula del padule possiamo intendere lʼaltra qualitá deglʼiracundi, la qual dissi lungamente servare lʼira accolta, ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco risolversi, sí come veggiamo che le nebule deʼ pantani, state quasi salde e intere per buona parte del dí, pure alla fine si risolvono e tornano in niente. La terza qualitá deglʼiracundi, li quali dissi non solamente non lasciar mai lʼira presa, ma quella convertita in odio mai non dimettere, senza aver presa vendetta dellʼoffesa, la quale gli parve aver ricevuto, e ciò procedere da complession malinconica, cioè terrea, si può intender per la nerezza del pantano, in quanto la terra di sua natura è nera, e la interpetrazion del nome della malinconia si dice da «melan», graece, il quale in latino suona «nero». E questi cotali malinconici son sempre nellʼaspetto chiusi, bulbi e oscuri, per che assai paion conformarsi al colore del padule. O vogliam dire queste tre proprietá, le quali lʼautor discrive esser di questa padule, dover significare tre proprietá deglʼiracundi, cioè: per la nerezza, la tristizia; per la nebula, la caligine dellʼignoranza, la quale lʼira para dinanzi agli occhi dello ʼntelletto, e cosí non può, offuscato, vedere quello che sia da fare; e per lo caldo, il furor dellʼiracundo nel qual sʼaccende.

Per lo loto, nel qual sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo intendere la sozza e fetida macula, la quale lʼira mette nelle menti di qualunque da essa vincere si lascia, e ancora per gli effetti di quella, li quali macolano e bruttano ogni onesta fama.

Resta a vedere del vizio opposito allʼiracundia, il quale in questa medesima padule di Stige si punisce con glʼiracundi, cioè lʼaccidia. Alla quale rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura delle cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e dagli uomini virtuosi: ma, se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del nostro intelletto e deʼ corporali levata ne fosse, assai forza dovrebbe avere, al sospignerci ad esser neʼ tempi debiti in continuo esercizio, il riguardare la bruna schiera delle formiche, piccolissimi animali, nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa vorremo attendere, senza aver né astrolago o altro maestro, senza vedere albero o prato fiorito, senza salire in alcun luogo rilevato a considerare se incerate son le biade neʼ campi, o altra qualitá di tempo, come talvolta fanno i naviganti; dentro dalla sua cava standosi, cognoscono quando la state ne viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade si ricolgano; e allora, purgata la via e aperta lʼuscita della sua cava, la qual per ventura le piove del verno e i piedi degli animali aveano riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida alcuna, tutte si dirizzano allʼaie, dove i lavoratori le biade segate ragunano e battono e mondano, e aʼ granai neʼ quali quelle ripongono, e a qualunque altro luogo per li campi fosser per ventura ristrette. E quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla paglia le granella, quello che possono prendono; e, vòlti i passi loro, sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che se medesime, con quel che preso hanno, ritornano alla lor tana; e quello salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole sta sopra la terra, ritornano al cominciato uficio. Né son contente dʼun sol dí essersi faticate, ma, mentre il caldo dura, ciascuna mattina col sole levandosi, ritornano al loro esercizio; mostrando assai bene, in quello, essere a loro manifesto quello nel verno non potere operarsi, sí per le piove continue, e sí perché quello che la state truovano in molte parti e presto è aperto loro, quello il verno troverebbono in poche e serrato; avvedendosi ancora che, se cosí nellʼabbondanza della state fatto non avessono o non facessono, convenirle di verno perir di fame.

La qual cosa sanamente riguardata, non dubito che a ciascuno non prestasse utile dimostrazione contro allʼoziositá, e contro al porre indugio alle cose opportune e a dovere, quanto è per lo corpo, sí adoperare nella nostra fervida etá, cioè nella giovinezza, che poi, vegnendo nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna e senza stento aspettar lʼultimo giorno, quando a Dio piacesse mandarlo: e, oltre a ciò, per la futura vita, mentre prestato nʼè nella presente vita, adoperare che, vegnendo il freddo della morte, noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intraʼ beati, e non esser gittati nella morte perpetua dello ʼnferno, dove sará pianto e stridor di denti. Ma, percioché lʼaddormentato intelletto di molti, né per disciplina, né per sollecitudine, né per utili esempli non si può destare né inducere da alcuni stimoli a volere la fatica, la solerzia, il discreto esempio del piccolo animale, non che imitare ma pur riguardare; avviene spesso che questi cotali in questa vita vengono in estrema miseria, e nellʼaltra tuffati bollono nella palude di Stige, come nel presente canto ne discrive lʼautore.

E accioché piú chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per conseguente meglio ce ne sappiamo guardare, ed, oltre a ciò, piú leggermente vedere quello che voglia lʼautor sentire per la pena loro attribuita dalla divina giustizia; dico [che lʼaccidia], secondo che nel quarto dellʼEtica mostra ad Aristotile di piacere, colui essere accidioso, il quale dove bisogna non sʼadira, dicendo essere atto di stolto il non adirarsi, dove e quanto e in quel che bisogna; percioché pare che questo cotale non abbia sentimento dʼuomo, e però di nulla cosa sʼattristi, e cosí non essere vendicativo: e aggiugne che sostenere lo ʼngiuriante e il non aver gli amici in prezzo sia atto servile. Della qual sentenza considerata bene la cagione, credo nʼapparirá ogni altra cosa che allʼaccidioso sʼattribuisce dover nascere e venire. Che dobbiam noi credere altro di questa rimession dʼanimo dellʼaccidioso, se non quella procedere da un torpore, da una viltá, da una oziositá di mente, per le quali esso senza turbarsi sostiene le ʼngiurie? Se ciò avvenisse per umiltá, o per essere obbediente aʼ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno giá fatto, non potrebbe però senza alcuna perturbazion dʼanimo essere avvenuto; percioché non può vittoria seguire, dove il nemico non è comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi uomini essere stati vittoriosi nelle passioni. Turbasi adunque il santo e savio uomo, quante volte vede o ode in sé o in altrui dire o operare quello, che né dire né operare si convenga; ma prima chʼegli lasci tanto avanti la perturbazion procedere, che ad atto di peccato potesse pervenire, con umiltá e con buona pazienza vince la turbazione, e di questa vittoria merita. Ma lʼaccidioso non è cosí; percioché non per virtú, ma per cattivitá è paziente, e tutto dimessosi per la viltá dellʼanimo suo allʼozio, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue meditazioni sʼattrista, ognora divenendo piú vile, intanto che la sua vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e in essa dolorosa non è cosa alcuna, quantunque menoma, la quale esso sʼattenti di cominciare; e, se pur tanto lo ʼnfesta la necessitá che egli alcuna ne cominci, nel cominciamento medesimo invilisce, sí che, le piú volte intralasciatala, non la conduce alla fine. Il tempo freddo il rattrappa, il caldo il dissolve, il giorno gli è noioso e la notte grave; ciascheduna ora, e in qualunque stagione, ha in sé, al giudicio del pigro, alcuno impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosí il tempo nuvolo e ʼl sereno. La cura familiare sempre gli peggiora tra le mani; non visita, non sollecita le possession sue, non i lavorator di quelle, non i servi, e lʼessergli di quelle i frutti diminuiti non se ne cura per tracutanza. Alle publiche cose non ardirebbe di salire, alle quali se pur sospinto fosse per li meriti dʼalcun suo, come uno addormentato si starebbe in quelle; il letto, le notti lunghissime e i sonni, non piú corti che quelle, gli sono graziosissimo e disiderabile bene; la solitudine, le tenebre e il silenzio prepone ad ogni dilettevole compagnia.

[Ma, posponendo gli atti morali e alquanto parlando degli spirituali, non visita glʼinfermi, non visita glʼincarcerati, non sovviene di consiglio aʼ bisognosi, non visita la chiesa, non onora il corpo di Cristo per non trarsi il cappuccio, allʼusanza di Fiandra, non si confessa aʼ tempi, non prende i sacramenti, non dispone né i fatti dellʼanima né quegli del corpo.]

Ma a che molte parole? Lʼuomo si potrebbe stendere assai, volendo pienamente raccontare ogni parte di questa miseria; ma, percioché disutile è la materia, in poche conchiudendo le molte parole, dico che la vita dellʼaccidioso è, quanto piú può, simigliante alla morte.

È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui nasce non solamente povertá, ma indigenzia e miseria, nella quale rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene; nasce ancor da costui afflizion dʼanimo, odio di se medesimo e rincrescimento di vita; nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtú, perdimento di fama e moltitudine di pensier vani; tiepidezza di spirito, prolungazion dʼopere e fastidio general dʼogni bene; e ultimamente, dopo la trista vita, eterna perdizion dellʼanima.

E percioché tutti gli atti di coloro, li quali sono da questo vizio occupati, sono freddi, torpenti e rimessi, e, in quanto possono, nascosi e occulti, gli fa assai convenientemente lʼautore stare nascosi e riposti, senza potere esser veduti, nel fangoso fondo della misera palude bogliente, nera e nebolosa; e in quella gorgogliare con la gola piena del fastidio di quella, e piagnere e senza pro dolersi della vita trista e nigligente, la qual menarono. Volendo per questo sʼintenda primieramente, per lo calor della padule, il calor della divina ira, il quale, sí come contrario alla freddezza del lor peccato, gli tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore. E per lʼessere la palude nera, vuol sʼintenda la tenebrosa lor vita, e la oscuritá delle loro opere, delle quali mai luce alcuna non apparve. E per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti sotto lʼonde, accioché si comprenda loro nella presente vita non essere per alcuna loro operazione stati conosciuti. Lʼessere la padule nebulosa, o fumosa che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza, della quale furono offuscati gli occhi dello ʼntelletto loro, li quali mai riguardar non vollono sé essere uomini nati ad esercizio laudevole e non a detestabile ozio. Lʼavere la strozza piena di fango, e gorgogliare, in quali cose il lor misero adoperare si faticasse, il quale in alcuna altra cosa non si distese, se non in pensieri e in meditazion malinconiche, le quali son di natura terree, e, sí come grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i meati della chiarezza del suono della laudevole fama, della quale niente curano gli accidiosi.

 
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