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Читать книгу: «Il processo Bartelloni», страница 10

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XX

La sera convenuta Antonietta si recò alla festa, accompagnata da Roberto e dall’abate Pildani.

Aveva fatto un grande sforzo per lasciarsi abbigliare, per vincere un cupo presentimento, che l’angustiava.

Pure arrivò alla festa, più bella, più seducente, più poetica che mai non fosse stata, nel suo pallore, nel soave languore che traspariva da tutta la vaghissima persona.

La principessa, anch’essa giovanissima, e di una bellezza portentosa, l’aveva accolta come una sorella non vista da molto tempo.

Varii gentiluomini avevano fatto gruppo intorno alla celebre artista, staccandosi uno a uno dalle signore con cui avevano sino allora parlato. Molte fronti si imbrunivano, molte labbra femminili erano sfiorate da sorrisi di geloso disprezzo.

Quella donna, che trionfava in modo così splendido, con tanta grazia ed affabilità, irritava, aizzava contro di sè molti amor proprii.

Una feroce insidia le era preparata quella sera; doveva esser vittima di una trama infernale.

Ad un certo punto, Antonietta si sentì male, fu colta da una specie di deliquio.

Si sedette, o piuttosto cadde sopra un sofà.

Tutti le furono attorno, le furono fatti respirare dei sali.

Mostrò il desiderio di rimaner sola per alcuni minuti.

La principessa allora la condusse fino alla soglia della sua camera, le disse che vi restasse quanto voleva, e richiuse l’uscio.

Antonietta dieci minuti dopo tornava nelle sale, compiutamente rimessa.

Una signora armena, ricchissima, giunta tra le prime alla festa, si era, appena arrivata, tolta una collana di grosse perle nere di grandissimo prezzo.

La signora, nell’entrare, si era accorta che i fermagli della collana, allentatisi, alcune perle si sfilavano. Una delle più grosse perle nere era caduta anzi, mentre la signora traversava le sale, senza che essa se ne accorgesse.

La signora armena aveva consegnato la collana alla principessa, che l’aveva gettata nel cassetto di uno stipo nella sua camera, lasciando la piccola chiave d’argento nel cassetto.

Antonietta, dopo che ebbe cantato il suo pezzo, domandò di partire, allegando che aveva bisogno di riposo.

La principessa l’accompagnò sino all’anticamera e la baciò.

Dopo un istante anche la signora armena si accomiatava.

– Ti darò la tua collana! – disse la principessa.

E insieme andarono nella camera, e aprirono lo stipo.

La collana non c’era più!

Guardarono per tutto, frugarono i mobili, ma indarno.

Nessuno era entrato nella camera, fuorchè Antonietta.

Mentre le due signore erano dinanzi allo stipo, estatiche, senza sapere che dirsi, entrò nella camera con gran disinvoltura un’altra signora, magra come la fame, con una testa secca che pareva un teschio, con un corpo smilzo come un bastone, e ravvolta in un abito sfarzoso, coperto di ricche trine.

– Principessa – disse lo scheletro elegante con la sua disinvoltura – abbiamo trovato ora questa perla nera davanti al sofà su cui era seduta la signora Amieri!

La dama armena guardò la perla, poi la principessa.

– Ma questa – ella soggiunse tremando – è una perla della mia collana!…

Antonietta, giunta a mezza scala, si era volta all’abate che le dava il braccio, dicendogli:

– Mi sono dimenticata di prender la musica… e ho lasciato anche il velo che devo mettermi intorno al collo.

– Torniamo indietro! – rispose l’Abate.

E, mentre la cantante entrava di nuovo nelle sale, tutti parlavano della sparizione della collana.

L’abate sentì a un tratto tremare il braccio di Antonietta.

Un imprudente, che li aveva veduti, pronunziava ad alta voce il nome dell’artista, facendo un atto di sprezzo.

Ma, dati altri due passi, Antonietta impallidì, le si piegarono le ginocchia, l’abate potè a stento sorreggerla, e farla sedere sopra una poltrona.

Essa non rispondeva più alle domande, che le erano mosse. Gli occhi vitrei, immobili, le braccia penzoloni; le labbra bianche; sembrava più morta che viva.

Alcune parole pronunziate in un gruppo di persone che non si erano accorte della sua presenza, l’avevano avvertita della calunnia, ed essa ne aveva ricevuto un colpo tremendo.

– Che hai? che hai? – domandava l’abate, tutto premuroso, senza ricevere alcuna risposta.

Girò gli occhi intorno a sè, e con sua gran meraviglia vide che nessuno si accostava.

Le sofferenze della giovane non ispiravan alcuna pietà; tutti si erano discostati; i pochi che le passavano dinanzi, le gettavano occhiate che parve all’abate avessero una singolare espressione,

Roberto, con altri invitati, era sceso nel giardino e dal giardino saliva in quel momento un vecchio gentiluomo, il marito della signora strimizzita, che era andata a riferire di aver ritrovato la perla nera davanti al sofà, sul quale si era seduta Antonietta.

Il vecchio gentiluomo non sapeva nulla della sparizione della collana, delle ciarle, che volavano di bocca in bocca.

Veduto l’Abate solo, in un salotto, accanto ad Antonietta, subito si appressò.

– La ragazza sta male… molto male – gli disse in fretta l’abate – l’affido a voi per un istante… io vado a cercare la principessa.

Ma già la principessa, avvertita del ritorno di Antonietta, accompagnata dalla dama armena e da altre signore, veniva incontro all’abate, ed egli la raggiunse, quasi sull’uscio della camera.

– Principessa – disse l’abate, tutto affannato – sono tornato con la signorina Amieri perchè aveva lasciata qui la sua musica ed un velo… ma la signorina, appena ha rimesso il piede nelle sale, è stata presa da un nuovo deliquio… Principessa – soggiunse l’abate, sorpreso dal modo con cui la signora lo guardava, dai sorrisi maligni che vedeva su molte labbra – Principessa, che cosa è accaduto in questi pochi minuti?

– La ragazza – osservò una vedova di cinquant’anni, che si tingeva per parer giovane, e parlava continuamente di lumi di luna, di sentimenti incompresi, della rarità delle grandi passioni, – la ragazza mistifica il povero abate… È una commedia… a quest’ora la collana si è allontanata!…

Le parole furono accolte con molti segni di assentimento.

– La collana? – domandò l’abate Pildani, divenuto serio, e il cui carattere iroso e collerico già cominciava a ribollire. – Di che collana si tratta? Chi discorre di commedie, di mistificazioni?… Voglio sapere…

Si risovvenne però subito del luogo in cui si trovava, e abbassando la voce con umiltà, e inchinandosi in atto ossequioso:

– Principessa – riprese – io sono sui carboni ardenti: là ho lasciato la ragazza in preda ad un male improvviso, e che par grave, qui sento che qualcuno la morde nella reputazione… Però andiamo prima a soccorrerla.

L’abate tornò nel salotto, seguìto dalla padrona di casa. Essa era donna, e donna di sentire squisito; l’idea del trafugamento della collana l’aveva molto commossa; ma già dal suo bell’animo il sospetto si era dileguato, diceva a sè stessa che la ragazza non poteva esser colpevole… Una creatura così graziosa, di una bellezza così pura, a cui irraggiavano nel volto tutte le nobili alterezze di una natura generosa, tutte le affabilità di un cuore delicato, non poteva esser capace di un’azione così abietta… E poi essa soffriva… e doveva esser soccorsa.

La principessa si accostò alla ragazza insieme con l’abate.

Il vecchio gentiluomo le stava attorno con ogni cura, ma essa non aveva fatto più alcun movimento.

Teneva la sua testina seducente reclinata, quasi abbandonata sulla spalliera della poltrona; tutta la persona era irrigidita.

La signora, che aveva trovato la perla, lanciò al marito, vedendolo accanto alla giovane, una occhiata piena d’odio.

Pochi istanti dopo, Antonietta fu trasportata nella camera della principessa e adagiata sul sofà, ove essa si era seduta un’ora prima.

– È già la seconda volta, che stasera si fa venir male! – osservava inasprita la signora magra e stentata, col capo secco e schiacciato, divincolando fra le trine il suo corpo lungo e smilzo, di serpente.

La camera della principessa era piena di gente.

Vi si soffocava.

Fuori della porta, si accalcava altra gente.

I trenta o quaranta invitati erano tutti lì, salvo cinque o sei, che chiacchieravano e passeggiavano nel giardino.

In quel profondo silenzio spiccava la voce calda e robusta dell’abate.

Insieme con la principessa egli era in piedi dinanzi al sofà su cui giaceva Antonietta.

La vista di quel corpo inerte lo rendeva severo, implacabile.

– Ora – egli disse, dirigendosi alla principessa, mentre tutti tacevano – dobbiamo formar qui come un tribunale. Io domando, io supplico che mi sia raccontato il fatto di questa collana… a cui ho sentito alludere dianzi… Che cosa è la commedia, di cui si parlava?

Tutti tacevano, nessuno osava rispondere all’abate.

– Principessa, la scongiuro! – insistette il buon vecchio. – In nome della deferenza che ella mi ha sempre mostrato, per amore di questa ragazza, che soffre…

Antonietta si scuoteva sul canapè, punta da qualche spasimo. Si dichiarava in lei una crisi.

– Ebbene, – replicò la principessa, – ve lo dirò!

La principessa narrò come le fosse stata consegnata la collana, come si fosse accorta della sparizione… Nessuno era entrato nella camera, altro che la ragazza; non potevano esservi entrati i domestici.

– Ma la collana si ritroverà… ne sono certa-soggiungeva la principessa – non c’è che una falsa apparenza contro la ragazza, verso la quale vi giuro che avrei orrore di nutrire il menomo sospetto…

– Anch’io – riprese generosamente la dama armena, a cui apparteneva la collana… – Basta guardare quella ragazza, per escludere ogni accusa come un’infamia…

L’abate era livido nel volto, le tempie gli battevano, la sua ampia fronte era madida di sudore.

– È sicuro dunque che nessuno è entrato nella camera dopo la ragazza? – domandò l’abate in tuono solenne, volgendo attorno uno sguardo.

Alla signora secca crocchiaron le ossa.

– Questo è sicuro! – rispose la principessa,

– Ebbene, no! – esclamò con voce sempre più alta l’abate. – Un’altra persona è entrata in questa camera, dopo che la ragazza n’è uscita… e l’ho veduta entrare io… e se essa non lo confessa… se non domanda perdono a quella innocente, che ora soffre per causa sua… l’avverto che io debbo obbedire al mio dovere, alla mia coscienza di onest’uomo, e di sacerdote… e che io paleserò tutto.

Succedette un nuovo silenzio, che durò circa un minuto.

Tutti si guardavano, nessuno rifiatava.

– Parli! parli! – dissero alla fine alcuni signori, che si trovavano pigiati fra gli stipiti della porta.

– Parlerò… parlerò… – balbettava l’abate, e cavatosi di tasca un pezzolone di seta rosso a fiori gialli, si tergeva la fronte.

E rifletteva allo scandalo, che stava per accadere.

Alla fine, dirigendosi verso la signora impresciuttita, che agitava il suo capetto di vipera, l’abate, minaccioso, esaltato, stendendo un dito verso di lei:

– Voi, – disse, – voi siete entrata in questa camera, dopo Antonietta… e vi ho veduta io!

Tutti gettarono un grido di stupore.

La signora non seppe proferire una parola.

– E ora diteci – continuò l’abate – dove è la collana?

La signora si mosse di scatto, si accostò allo stipo, fece l’atto di aprire il cassetto, e lo trasse fuori tutto. Allora molte persone videro la collana, che era stata gettata dietro al cassetto, spinta verso la parete estrema del mobile.

L’abate allungò il braccio, prese la collana, e la porse alla principessa.

Essa era tutta accigliata, la sua nobile fisonomia rivelava l’interno sdegno, che la avvampava.

Esaminò la collana, e ad un tratto, accostandosela al volto, con voce vibrante di collera, disse alla proterva signora, che le aveva riportato la prima perla trovata:

– Ci avete lasciato anche il vostro profumo!

Un profumo acutissimo, penetrante, si era attaccato alle perle, il profumo di cui si serviva la calunniatrice.

Quella donna aveva conosciuto Roberto in Firenze, ne’ primi tempi in cui egli vi era arrivato, si era immaginata di avergli inspirato una passione, ora credeva, in quel modo atroce, con perversità raffinata, vendicarsi della sua rivale.

Uscì dalla casa della principessa sopraffatta dall’onta, impaurita dall’atto nefando che aveva commesso, nell’empito di un furore geloso.

Mezz’ora dopo, Antonietta si svegliava dal suo torpore.

Era sempre nella camera della principessa.

Roberto le stringeva una mano, e l’abate le carezzava l’altra.

E la principessa, inginocchiata dinanzi a lei, le prestava le più amorevoli cure.

XXI

Quella sera stessa arrivava in Pisa, tutto glorioso, tutto anfanato, il birro Lucertolo, e anch’egli ne aveva scampata una bella!

Subito se ne andava al Ponte a Mare dove era il Bagno centrale.

Presentatosi al direttore del Bagno, munito di tutte le necessarie autorizzazioni, domandò di vedere il galeotto Nello Bartelloni.

Il disgraziato dormiva.

Lucertolo si avvicinò al letto.

Nello era più pallido e più emaciato del solito.

Dormiva vestito della sua giacchetta di lana rossa, e tenendo in capo il berrettino rosso.

Aveva al piede sinistro l’anello in cui ogni mattina prima di andare al lavoro gli ribadivano la catena.

Lucertolo ripensò alla notte del 14 gennaio in cui tre anni prima egli si era accostato al lettuccio di Nello nel tugurio in piazza Luna, con ben altri pensieri.

Ah, se avesse allora potuto gridare, infondendo in tutti la sua convinzione: – non l’arrestiamo… riflettiamo… noi perseguitiamo un innocente!

Ma allora egli stesso era de’ più accaniti, forse il più accanito contro Nello: era stato così contento di entrare per il primo nella sua tana, di strapparlo dal letto, di scuoprire gli oggetti nascosti sotto il piccolo materasso!

– Su, alzati! – disse Lucertolo, scuotendolo.

Intorno al letto erano altri birri, i guardiani del Bagno, che tenevano i lumi, il direttore, un magistrato.

Nello non voleva alzarsi.

Pareva che non comprendesse le parole del birro, come nella sera in cui, tre anni prima, l’aveva arrestato.

Appena ebbe bene aperto gli occhi e ebbe visto Lucertolo, dette in un urlo di spavento.

Quell’uomo era il suo persecutore. Era il primo, che gli avesse rivolto la parola la sera del 14 gennaio; era egli che lo aveva tirato giù dal suo letticello, che in prigione e durante il processo lo aveva sempre subillato, aggirato.

Secondo Nello, Lucertolo era stato il principale strumento della sua condanna!

– È questo il detenuto che voi cercate? – domandò per formalità il magistrato a Lucertolo.

– Sì, signore! – rispose l’agente.

Lucertolo si chinò un’altra volta sul letto, guardò Nello di nuovo, e gli posò una mano sulla fronte.

Poco dopo, Lucertolo si trovava in una stanza insieme col magistrato e col direttore del Bagno centrale di Pisa.

Il magistrato, il direttore, erano seduti: il birro stava in piedi dinanzi a loro.

– Raccontateci – chiese il direttore all’agente – come è stata riconosciuta l’innocenza di questo condannato!

– Sono tre anni – cominciò Lucertolo – tre anni che io faccio quasi ogni giorno ricerche continue a questo scopo… Dopo essermi tanto adoperato la sera in cui fu scoperto il delitto a cercare ogni traccia, che ci potesse aiutare a metter la mano sul colpevole, dopo aver creduto di esser riuscito ad arrestarlo, mi cominciarono a nascere fortissimi dubbi… Non ero persuaso che quel giovinastro avesse commesso lui, e specialmente lui solo, l’assassinio… Prima del processo, durante e dopo il processo, più volte mi parve di esser vicino a scuoprire la verità… Ma, appunto quando credeva di averla colta, mi sfuggiva… Appena mi pareva aver edificato qualche cosa con molto stento e molta fatica… il mio edificio rovinava… Gl’indizii che avevo accumulati, a uno a uno, erano distrutti da nuove e più ingegnose ipotesi di persone gravissime con le quali io parlava delle mie indagini… Un uomo, che io tenevo, se non per il solo autore, di certo per l’autore principale dell’assassinio, è morto… o dirò meglio, ha cercato di sottrarsi con la morte alle conseguenze delle mie ricerche, che egli aveva già subodorate…

– E chi era costui? – chiese il magistrato, serio, e attirato da quel racconto, che lo appassionava.

– Qui posso parlar chiaro – riprese l’agente con tuono di circospezione -… Era un certo Bobi Carminati, stato già pompiere, poi famiglio sotto gli ordini del capitan Bargello di Brozzi.

I due impiegati non poterono rattenere un’esclamazione di sorpresa.

– È il famiglio – osservò il direttore – che cadde nell’Arno di notte, mentre vi era una grossa piena, e di cui fu ritrovato il cadavere sformato e quasi irriconoscibile a Signa?

– Precisamente.

– Seguitate il vostro racconto!

– Dopo la condanna di Nello, – riprese Lucertolo – esaminando il tappeto, che era stato tolto dalla stanza, dinanzi la quale fu commesso il delitto la sera del 14 gennaio 1831, e che fu trovata illuminata da una lampada… fra le varie traccie lasciatevi dagli ufficiali e dagli agenti di polizia, che vi entrarono in quella sera, e che erano costretti a metter i piedi sulla gora del sangue, sparso per tutto davanti la porta… vidi le orme di un piede scalzo. Tali orme erano ripetute tre volte, e, sebbene imperfette, da esse poteva ricavarsi l’esatta misura del piede, che le aveva fatte… Nessuno degli ufficiali, degli agenti, entrati nella stanza era scalzo… dunque… io pensai… quest’orma è stata lasciata da qualcuno che è entrato prima di tutti, appena consumato il delitto, dall’assassino o dal suo complice!

Il magistrato scuoteva la testa in segno di approvazione.

– Non era il piede di Nello, molto più sottile e affilato e non era neppure… bisogna che lo dica… il piede dell’altro, che io avevo sospettato autore principale del latrocinio.

– E di chi era? – interrogò il direttore.

– Ecco quello che mi occupava… che mi ha per tanti mesi occupato… Alla fine avevo rinunziato, lo confesso, alla speranza di riuscire a identificare l’orma di quel piede… Molto tempo dopo, riflettendo al delitto… non pensavo mai ad altro… mi rammentai che una notte del 1831, mentre ero di servizio, in uno degli androni del Ghetto, avevo udito certi insoliti rumori, i quali mi avevano insospettito… Ero entrato nell’androne… avevo visto gente a qualche distanza in una stanza aperta e illuminata… due uomini che gesticolavano, e un’ombra di donna, che appariva di tanto in tanto sulla parete… Inciampai in un ferro… subito il lume fu spento… Rimasi al buio nel lungo androne nel quale gettava qualche bagliore la mia lanterna…

Lucertolo tacque un istante, rabbrividendo al ricordo di quella scena.

– Domandai: – soggiunse – chi va là?… Nessuno rispose… ma mi parve udire lo scricchiolìo del cane di una pistola: qualcuno si preparava a tirare… Alzai subito la pistola e feci fuoco…

– E allora? – tornò a interrogare il direttore.

Lucertolo ripeteva la storia di quello che gli era capitato la notte della fuga di Antonietta dal Ghetto, dopo che nell’androne aveva esploso la pistola verso la stanza in cui si trovavano Antonietta, Carlo Tittoli e l’ebreo Isacco.

– Udii un grido soffocato… Poi mi fu scagliata una pietra, che mandò in frantumi la lanterna, e mi spezzò questo dito.... Cascai giù privo di sensi… La mattina mi ritrovai affranto dal dolore della mano, stecchito dal freddo, steso sul nudo pavimento di un androne, e ne uscii a fatica, strascicandomi… Mi accorsi che i furfanti mi avevano trasportato, mentre io ero fuori di me, all’entrata di un altro androne… In quel momento mi era impossibile di mettermi a verificare… Alcuni giorni dopo, quando vi tornai, non riuscivo a orientarmi… Mi ricordavo sì che ero entrato la notte dalle così dette Coriaccie, ma non mi ricordavo quante svolte avevo fatto, quanti passi avevo mosso, prima di fermarmi… Gli androni sono lunghi… tortuosi… uno dentro l’altro, con ramificazioni, ripostigli, terrazze aperte… un vero laberinto…

– Ma, sedetevi! – disse il direttore.

– Grazie! – rispose l’agente.

Egli gesticolava, si moveva ad ogni frase del suo racconto, invaso dall’orgoglio di mostrare tutta la sua sagacia, tutto il suo acume. Non avrebbe potuto in quei momenti star fermo sopra una sedia.

– Un giorno, – proseguì – come ho loro accennato, ripensavo tra me e me alla scena dell’androne… Mi venne un’idea, che non riuscii a scacciare… Secondo quell’idea la scena dell’androne doveva essere in qualche relazione col delitto del Vicolo della Luna… Avevo un bel dirmi che non poteva esservi relazione, poichè il Ghetto all’ora in cui il delitto era stato commesso doveva esser chiuso… Però quell’idea mi tornava sempre alla mente....

– E non bisognava trascurar questa idea, – interruppe il magistrato, smettendo il suo riserbo, e come trascinato, suo malgrado, dalla foga del racconto.

– Infatti non la trascurai! – ribattè l’agente della polizia. – Poniamo – così cominciai a ragionare, – che il delitto sia stato commesso fra le 10 e le 10 e mezzo della sera. A quell’ora le porte del Ghetto erano chiuse, ma appunto dalla Piazza del Mercato si suole aprire almeno fino all’undici, e anche più tardi, a coloro che si sono un po’ indugiati fuori… Al tempo in cui fu commesso il delitto del Vicolo della Luna aspettava quelli, che non fosser tornati al momento in cui si chiudevano le porte, un vecchio ebreo, poverissimo, di nome Isacco Spoleto… Costui faceva tal mestier per amore dei pochi soldi che così guadagnava… Era però come un fiduciario della polizia… impossibile dubitare di lui…

– Perchè? – interruppe di nuovo il magistrato.

– Il vecchio ebreo era onestissimo… illibato… e la polizia, alla quale aveva reso sempre tanti servizii, lo sapeva… Viveva con grande parsimonia e abitava un tugurietto, che rispondeva in uno degli androni del Ghetto, dove stava più a mo’ di bestia che d’uomo… pure contentissimo. Come supporlo capace di un delitto?… Ma pare fosse destino che nelle mie ricerche sull’assassinio del Vicolo della Luna io dovessi sempre abbattermi in qualcuno che appartenesse alla polizia… Bobi Carminati era famiglio, l’ebreo Spoleto era nostro alleato… Ormai la mia esperienza mi ha insegnato che un agente non deve mai cacciare un’idea, che gli è suggerita da varie contingenze di fatti… l’idea più strana bisogna accettarla… Se qualche indizio, sia pur lieve, viene a dirvi, per esempio: vostro padre è l’autore del delitto misterioso, di cui vi occupate: bisogna che la voce della natura taccia, bisogna con coraggio andar innanzi nella via del dovere… Un agente non deve mai rigettare un’idea come improbabile, anche se gli appaia inverosimile… Procedendo per eliminazioni, non si giunge mai alla verità…

– Al fatto!

– Sì, al fatto!… – replicarono il direttore del Bagno e il magistrato.

– L’ebreo, – così tornò a parlare Lucertolo – da un anno non serviva più… Da vari mesi non usciva più dalla sua catapecchia… Avevo saputo che era gravemente infermo, senza che mai mi venisse l’estro di andarlo a vedere, non ostante che ci fosse stata fra noi grande familiarità… Un giorno, non potendo più contenermi, così verso il tocco, entrai nel Ghetto e domandai della catapecchia di Isacco nella quale non avevo messo mai piede e che non sapevo precisamente dove fosse… Si figurino che la casa in cui stava ha otto piani, ad ogni piano vi sono le abitazioni di sette, otto, dieci famiglie, e poi comunica con altri casamenti, vi s’entra e vi s’esce per quattro o cinque sbocchi diversi, da una corte all’altra, da una strada all’altra… insomma un vero laberinto…

Il bastone, che Lucertolo aveva in mano gli cadde, mentre egli faceva un gran gesto, e il birro si chinò per raccoglierlo. Ma, prima di rialzarsi, aveva riappiccato il discorso.

– Entrai, – diceva col suo vocione pieno, sonoro, e colorito dall’enfasi, messo in ùzzolo dalla persona con cui parlava – entrai nella catapecchia… Se avessero veduto!… Il vecchio livido, con le labbra schiumanti, la barba e i capelli giallognoli, gli occhi stralunati, le mani scarne, tese come artigli sul lenzuolo più nero che bianco… era quasi in agonia… Appena mi vide, la sua fisonomia prese un’espressione spaventevole.... Mi sentii agghiacciare dal modo con cui mi guardava quel moribondo… E restai perplesso, immobile, come se i miei piedi non potessero più staccarsi dal pavimento… Nella stamberguccia si trovavano altre persone. Una vecchia cieca, che borbottava certe preghiere in una lingua indiavolata… un vecchio zoppo, che scattava qua e là sorreggendosi sulle gruccie, che battevano con gran rumore sull’ammattonato… e sotto la finestra un ragazzaccio, più lurido anche della cieca e dello zoppo, un ragazzaccio storpio, il quale non poteva camminare altro che seduto, appoggiandosi con le mani al pavimento e spingendo innanzi le gambe… Erano gli ultimi esseri rimasti fedeli al moribondo!… Era una prova della carità inspirata alla disperazione che i disgraziati hanno fra loro!…

Il magistrato agitò in aria la mano sinistra, come per accennare all’agente di polizia che non deviasse in digressioni.

Tra i birri non pochi avevano pretensioni a letterati; ripetevano nei loro discorsi gli squarci dei predicatori, o brani di libri, in generale di devozione, che leggevano; alcuni, come il ben noto caporale Monti, erano poeti, improvvisatori; anzi le poesie del brioso caporale, quasi tutte di giocondissima vena, circolano anche oggi manoscritte fra certi impiegati della polizia.

Dobbiamo dire che il cuore dell’uomo abbia davvero bisogno di poesia, se la cerca e la trova perfino tra gli orrori del delitto, fra i gemiti delle vittime, fra il sangue che gronda, fra le gesta dei ladri e degli assassini, tra le acute, perseveranti indagini, e fra il cigolìo delle catene!

– Mentre stavo, – disse Lucertolo – così esitante… e proprio sbalordito dallo spettacolo che vedevo, dal tanfo, dal cattivo odore che ammorbava quella stanzaccia… mi vennero fissati gli occhi dinanzi a me, sulla parete vicino alla finestra… Mio Dio! che cosa vidi!… M’accostai… Scorsi nel muro una grossa scalfittura… altre scalfitture… Era facile riconoscere le traccie lasciate dai proiettili di cui era carica la mia pistola la notte in cui sparai il colpo nell’androne… Avevo dunque fatto fuoco in quella notte nella direzione della camera d’Isacco?… Ormai i miei dubbi principiavano a cadere… Alzai il lenzuolo di sul letto, scuoprii i piedi del morente: riscontrai l’orma… L’orma sanguinosa, da me trovata sul tappeto, era stata lasciata dal piede destro dell’ebreo; corrispondeva con la massima esattezza: la stessa lunghezza delle dita, la stessa curiosa conformazione della pianta del piede… Lo ricuoprii, e senza dir verbo mi slanciai nell’androne; uscii, corsi alla Rota… Gridai a tutti la mia scoperta… tornai accompagnato da un sostituto dell’Avvocato fiscale, da un cancelliere, dallo Scrivano della Piazza, dal tenente… Si figurino, quando traversammo il Ghetto, così di pieno giorno!… In pochi istanti la folla si pigiava alla porta, e su su si accalcava per le scale e per gli androni…

«Entrammo nella stanzaccia… Avevo già raccontato tutto quello che m’era accaduto la notte in cui mi avevan spezzato il dito… indicai le traccie dei proiettili nel muro… Insieme con un altro agente, Zampa di Ferro, aprimmo il tappeto che egli aveva portato, alzammo il lenzuolo… verificammo le orme sanguinose… Posammo sopra tutte il piede del vecchio… Non ci era che dire!… era lui! Tutti eravamo meravigliati, commossi!

«La vecchia cieca tendeva l’orecchio come per cogliere ogni parola, che sentiva pronunziare intorno a sè; lo zoppo, e lo storpiato, suo figliuolo, ci guardavano attoniti.

«Il vecchio Isacco metteva un esile rantolo come se si dibattesse negli ultimi istanti dell’agonia.

«Non vi era da perder tempo!

«Il giovane sostituto dell’Avvocato fiscale si avvicinò al morente, e gli domandò ad alta voce:

– Commetteste voi tre anni or sono il delitto nel Vicolo della Luna?

«Non potrò mai dimenticare quello che accadde allora.

«Il vecchio fece un leggero movimento.

«Alzò il volto scarno, smunto, divenuto orrido.

«Il sole, che filtrava per i sucidi vetri della finestruola, ci illuminava tutti di una luce sinistra… In quella luce le miserie, le sozzure, lo squallore della cameraccia apparivano più brutte e più stomachevoli.

«Il sostituto rinnovò la sua domanda.

«Isacco tentò di sostenersi un poco, ma non vi riuscì.

«Allora io e Zampa di Ferro lo sorreggemmo e tutti lo udimmo proferire a stento, ma con molta chiarezza, nel modo più intelligibile, queste parole:

– Nello… è… innocente!…

«Ad altre interrogazioni potè rispondere soltanto:

– Nello… innocente!

«Poi la sua testa cadde sulla spalla di Zampa di Ferro.

«Era morto!

«Rammentai a’ miei compagni il grido di donna che avevo udito nel Ghetto la notte del delitto, prima che essi giungessero con l’Ispettore a cercare il ferito… Di sicuro la donna, che aveva gettato quel grido, era la stessa che aveva lasciato il suo velo nella misteriosa stanza del Vicolo, dalla quale era fuggita con Isacco dopo il delitto… Era la donna, che si trovava nella camera d’Isacco la notte in cui io aveva sparato la pistola…»

– E chi era?

A questa domanda del magistrato. Lucertolo rispose, facendo un atto di sdegno:

– Pur troppo non lo sappiamo!

– Ma l’asserzione dell’ebreo prova forse l’innocenza del galeotto che abbiamo nel nostro Bagno? – chiese il direttore al magistrato. – Come si spiega che egli sia stato trovato insanguinato e possessore degli oggetti preziosi rubati al ferito?

– Eh! – rispose il magistrato che era divenuto pensieroso, e che il fervore con cui esercitava la sua professione rendeva molto inclinato a studiare questo caso singolare. – L’asserzione del moribondo ha un gran peso… Se non prova assolutamente l’innocenza di questo Nello è tale da far nascere dubbii gravi, grandi perplessità nell’animo del giudice più severo… Qual magistrato sarebbe ora tranquillo di aver pronunziato una condanna dopo simili dichiarazioni?

– L’ebreo – ripigliò il magistrato – era entrato nella stanza dinanzi alla quale fu commesso il delitto… Vi era entrato come unico o principale autore di esso, come complice?… In ogni più rigida ipotesi, dunque, mancano ora i dati per chiarire in modo preciso la colpabilità del condannato…

– Notino – aggiunse Lucertolo – che il giovinastro è stato sempre mezzo idiota… che ha avuto, come si è rilevato da varii indizii, la manìa dei metalli… Io dubitai sempre che egli potesse aver commesso il delitto: prima per la sua gracilità, poi perchè un assassino non è naturale che si trascini il corpo dell’uomo, da lui ferito, davanti all’uscio della propria abitazione, e passi poi quell’uscio per andarsene a dormire, circondato da tutti gli oggetti derubati, e macchiato dal sangue della vittima… Di più: il giovinastro era stato udito cantare da un testimone all’incirca nell’ora in cui il delitto doveva esser consumato… Come si spiega un assassino che canta?… Invece l’interpretazione del fatto, che abbiamo trovata insieme con il celebre avvocato Arzellini, che fu il difensore dell’accusato, è la seguente: – L’idiota è uscito quella sera dalla sua tana, si è messo a cantare, appena ha sentito suonare un violino… ha inciampato nel corpo del ferito, lo ha tirato davanti alla sua porta, ha preso un lume, e lo ha spogliato della catena, dell’orologio, di uno spillo, insanguinandosi tutto… Lo ha spogliato di quegli oggetti che adescavano la sua manìa… gli ha lasciato però in tasca il portafogli…

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
230 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain
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