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IV
Al dormitorio di via delle Mole si pagavano cinque soldi per notte; spesa non grande chi pensi che in ogni giaciglio c'eran cuscino e coperta di lana – sebbene il cuscino, il quale avrebbe dovuto esser bianco, al lume della lampada a petrolio apparisse del color della coperta; la quale avrebbe dovuto essere bigia – , ma spesa non piccola, cinque soldi, per i frequentatori non forniti di paga costante o guadagno sicuro.
E il signor Giulione e la signora Tecla, proprietari e ministri dell'azienda, non facevan credito a nessuno.
Così, quando nell'avanzar dell'inverno gli mancasse o tardasse il soccorso della figlia, il vecchio Granari poteva trovarsi a questo dilemma: o morir d'inedia o morir di freddo. Poteva anche, però, morir d'inedia e di freddo contemporaneamente.
E una mattina, a gennaio, il signor Giulione e la signora Tecla entrando nella stamberga per la pulizia – e che pulizia! – ebbero una sorpresa: s'accorsero di una trasgressione al regolamento non avvertita la mattina prima d'andar a riposare. L'ultimo letto di destra era ancor occupato.
Scossero quel corpo inerte nella buca del pagliericcio.
– È morto? – il marito dimandò confuso.
– No – rispose la moglie. – Va a prendere l'aceto.
Per l'aceto il giacente rinvenne; cercò con lo sguardo, senza riconoscere dove fosse. Pronunciò qualche parola.
– Muoio – di – fame.
– Corri! Dammi il latte che m'è rimasto nella teglia – ordinò, ansiosa adesso, la signora Tecla.
Ma il latte, deglutito a pena, non rimase in quello stomaco, tanto era debole. E allora la signora Tecla riempì la mente del marito con commissioni successive, di cui, nella sua intenzione, una sostituiva l'altra e che il signor Giulione credè invece fossero da adempier tutte quante.
– Va alla farmacia a prendere un cordiale. – (Il grosso uomo s'incamminò). – Va a chiamare il medico all'ambulatorio. – (Due passi). – Va in Municipio a dir che vengano i pompieri con la lettiga. – (Due passi). – Va all'Ospedal Maggiore: caso d'urgenza. Di' così: caso d'urgenza. – (Partì di trotto).
Poi la signora Tecla, indossata la mantella, scese per consiglio all'osteria di fronte: un basso fondo.
L'ostessa esclamò: – Latte freddo gli ha messo in gola? Brodo caldo vuol essere!
Súbito attinse alla pentola, che borbottava al fuoco, e con una scodella del liquido fumante seguì l'amica. Intanto la serva annunciava a chi passava:
– Sapete? Al dormitorio c'è uno che muore di fame. Proprio moribondo!
La voce si sparse in un attimo per la contrada.
E la carbonaia – la famosa manutengola detta la Strazzarola – accorse con una tazza di caffè; e la fruttivendola guercia recava un ovo fresco. Anche, dal postribolo, in vestaglia di lana rossa, uno scialle bianco su le spalle, i capelli sciolti e una guancia imbellettata e l'altra no, la Romana si precipitò gridando:
– Io, la salvo io questa creatura! Assassini! Vigliacchi!
Chi fossero gli assassini e i vigliacchi sapeva lei, portando una bottiglia di cognac e un bicchierino.
Alle grida, lo spazzaturaio avvicinò l'asino e la biroccia a una colonna; salì, armato della lunga scopa. E salì al dormitorio anche Figuretta. Senza cappello, in pelliccia, si calzava i guanti. Figuretta il borsaiuolo, uscito il giorno innanzi di collegio. – In vacanza – spiegava lui.
– Io! io! – ripetè la Romana facendosi largo fra le donne, disperate che il vecchio non ritenesse nè brodo, nè caffè, nè ovo. – Lo salvo io!
Gli versò, per la fessura della bocca, un bicchierino pieno di cognac.
E Procolo Granari riaprì gli occhi; ricompose la faccia. Sorrise.
La prostituta era contenta come d'un miracolo compiuto da lei.
– Non avete parenti al mondo? – chiese la carbonaia. E la fruttivendola:
– Non avete nessuno?
Procolo rispose, con abbastanza voce:
– Una figlia – suora – a Lugo.
– Bene! – notò, in disparte, Figuretta.
– Un'altra – ne ho – a Firenze – moglie d'un avvocato.
– Meglio! – Figuretta disse più forte.
Pausa. Ora il vecchio, affannato, agitava una mano; che gli ricadde, di peso.
– Non c'è niente da fare – sentenziò la fruttivendola. Se ne andava con lo spazzaturaio.
– Un gocciolo solo! – insisteva frattanto la Romana. – Un gocciolo solo, poveraccio!
– Se l'ubbriachi, San Pietro non gli apre la porta! – ammonì, di lì dov'era, Figuretta.
Ma Procolo voleva parlare. Gemè:
– Anche Reno – il mio cane – mi ha – abbandonato.
E il borsaiuolo:
– Si sarà messo con una cagna borghese.
– La contessa…
Una risata delle astanti, meno la Romana.
– … la contessa… – di via Goito…
E il borsaiuolo, serio, accostandosi:
– La contessa Torselli? La conosco. Quando usavano gli abiti «tailleur» col taschino sotto il petto – una comodità – mi regalò il suo orologino d'oro.
Nuova risata.
– Il conte… – ripigliava Procolo – il conte… – (non ricordava neppure questo nome, il nome del suo padrone!) – Dalla fattoria – vecchia – mi passò – alla – nuova. – Ero sempre stato – un galantuomo. – Le ragazze – le avevo messe – in educazione…
– Bella educazione! – Figuretta seguitava a commentare.
– Vennero a casa. – Senza la madre – spendi e spendi. – Speravo. – Il conte si ammalò…
– Ma non crepò. – Figuretta affrettava alla conclusione.
Concludeva anche Procolo.
– Quando fummo – ai conti – mi mandò via. – Ladro.
– No! Imbecille! – corresse a bassa voce il borsaiuolo. – Un fattore che si fa cacciar via per ladro prima d'essere arricchito, che imbecille!
Entrò un'altra della casa di tolleranza. Bionda; sentimentale. E Figuretta le diè luogo con una mossa da gentiluomo. Ma la ragazza inorridì. Fuggì dicendo:
– Mi par di vedere il mio babbo!
– Tutto lui! Unica differenza, che la figlia di questo babbo qui fa la suora a Lugo.
Non sorrisero al borsaiuolo che la carbonaia e l'ostessa, mentre se ne andavano anche loro. Non c'era, infatti, più speranza di giovar a quel disgraziato. Moriva.
Quando arrivò, finalmente, il signor Giulione. Non glien'era riuscita bene una. Per il cordiale bisognava una bottiglietta o una tazza. Il medico era impegnato. Aveva detto: – Se ha fame, dategli da mangiare. – I pompieri non si muovevano che per un infortunio. All'Ospedale pretendevano, com'è giusto, carte in regola.
– Tanto, è inutile – mormorò la Romana, sempre china su l'agonizzante; alle cui labbra, di tratto in tratto, appressava il bicchierino.
Ecco: – Il prete – il morente potè dire con l'ultima voce.
– Non importa. Vi assolvo io – assicurò Figuretta.
Ma questa volta la Romana gettò all'amico una truce occhiata.
– Finiscila, per li mortacci tuoi! – E alla padrona di casa: – Accendete una candela!
—
… Rimasero soli lor due, la prostituta e Figuretta.
Lei si inginocchiò. Pregava sommessamente. Lui attese un poco; indi le si accostò, a dirle all'orecchio:
– Romana, prestami dieci lire per andar all'Eden. Prima di sera te ne porto cinquanta.
Seguitando a pregare, la Romana tolse dalla tasca della vestaglia la chiave del comò; gliela diede.
Allora il giovine si chinò su Procolo Granari e piano, ma spiccando le sillabe come per farsi udire da un sordo:
– Diteglielo a Dio, se lo vedete, che la buona gente siamo noi!
IL TESTAMENTO
I
Instaurato che sia il Comunismo non si udrà più ripetere quel che nel paese di San Giorgio al Piano fu ripetuto nei caffè, in ogni bottega, in ogni casa, in ogni canto alla morte repentina del sindaco comm. Ceredoli: – Ha fatto testamento? – Non l'ha fatto? – Eredi i figli e le figlie in parti uguali? E la vedova? La legittima alla moglie? l'usufrutto? Di quanto? – Quanto avrà lasciato? Un milioncino? Meno? Più?
Ah sì! beati i tempi in cui le eredità saranno di soli affetti! Lásciti di tal sorta non muoveranno torbide invidie, e s'immagina come ne godranno i figli amanti del dolce far nulla e le figlie amanti del dolce far qualche cosa, ma con eleganza, con lusso, e coi necessari dispendi. In quel paese, però, prevaleva allora alla curiosità bassa e oziosa un desiderio discreto: sapere in che modo il commendatore Ceredoli – sindaco benvoluto da quasi tutti – si era comportato davanti alla morte: se aveva pensato al caso di spirare all'improvviso tra le braccia di Sant'Andrea d'Avellino. E possibile non si fosse proposto di serbar defunto la stima che vivo aveva meritata da quasi tutti: giudizioso, giusto, onesto, modesto, caritatevole? Non era forse stato uno di quei borghesi (di una volta) che seguendo le vecchie tradizioni domestiche civili e religiose sapevan conciliare la borghesia alla virtù?
II
Solenni i funerali; con lungo séguito, al trasporto, di gente concorsa anche dalla città e dalle campagne. C'era una carrozza carica di ghirlande e sul feretro una di puro lauro e una di fiori candidi: significato chiaro in questa se non in quella pur alla scarsa intelligenza del popolo. E i preti e i frati recitavan le preci con voce così cordiale che si sarebbero detti del tutto contenti. I discorsi alla Porta, prima che il carro svoltasse per l'ultimo tragitto, non finivan più; e i saluti alla salma parevan auguri d'un viaggio che nessuno degli oratori credesse dover compiere anche lui, un giorno o l'altro. Poi, al ritorno, l'assessore anziano interrogò i colleghi se non trovassero opportuna l'idea di dedicare all'illustre estinto un busto di marmo, nel giardino pubblico.
– Purchè non si oppongano le disposizioni testamentarie – osservò il segretario del Comune.
III
Sempre allegro, Agosti, il segretario del Comune, sudava a non ridere nelle gravi circostanze perchè ne rilevava, a sè stesso e agli altri, i contrasti comici. Così ammoniva: – Siamo seri – appunto quando più presentiva il pericolo di scoppiare in una risata aperta o in singhiozzi di riso irrefrenabile. – Siamo seri – susurrò all'orecchio dell'amico assessore dell'Igiene entrando nel salotto di casa Ceredoli. L'intera Giunta ci era venuta per la visita di condoglianza alla vedova e per informarsi intorno al testamento.
Ed ecco aprirsi l'uscio e presentarsi la vedova accompagnata dalla luce della gran vetrata di contro. Agosti, che teneva gli occhi bassi ( – siamo seri! – ), ebbe da quella luce una rivelazione, uno spettacolo strano e inatteso. La signora aveva indossato in fretta la veste nera senza pensare che la tenuità del tessuto la rendeva trasparente. E mostrava come velate impudicamente le gambe. E che gambe! due colonne calzate d'un colore dubbio e basate su due piedini in scarpine lucide.
Bastò. Sentendo che gli sarebbe vano ogni ritegno il segretario si volse, e col fazzoletto al viso andò a scoppiare presso l'altra finestra. I suoi singhiozzi ruppero il silenzio di quegli istanti, e l'assessore anziano, mentre egli e i colleghi s'inchinavano, ne approfittò a proferir belle parole d'occasione.
– La commozione così sincera del nostro segretario le dimostra, signora, quanto il suo signor marito era amato dai dipendenti e come grande debba essere il cordoglio dei suoi colleghi del Consiglio comunale che noi, qui, abbiamo l'onore di rappresentare.
– Grazie… s'accomodino… – balbettava la vedova col fazzoletto in mano.
E tutti sedettero, tranne Agosti che le commoventi parole dell'assessore anziano indussero a singhiozzare più forte.
– La Giunta anzi – seguitò il capo della Giunta – ha in animo di proporre al Consiglio che le virtù dell'illustre estinto e il compianto della cittadinanza siano ricordati in un monumento, in un busto…: se pure le disposizioni testamentarie di un uomo tanto modesto non vi si oppongano e non dimostrino preferenza per le opere di pietà. Nel qual caso…
– Ma il testamento non si è ancora trovato – interruppe la vedova asciugandosi gli occhi. – Non sappiamo se l'abbia fatto…
Meraviglia in silenzio. Possibile? E l'uscio dell'altra camera si riaperse e ad uno ad uno, con successivi inchini, entrarono il figlio del defunto e i tre generi. Il segretario che si era quietato, cercò di far largo scostando sedie e poltrone. E si mordeva ferocemente la lingua.
Strette di mano, in silenzio.
– Possibile? – disse l'assessore anziano rivolto alla vedova.
Essa riferì ai venuti l'argomento del discorso.
– Impossibile che non l'abbia fatto! – rispose il figlio. – Un uomo come mio padre…
– La previdenza, la prudenza in persona…
– Ma – obiettò il più lungo dei generi – se avesse avuta l'intenzione di testare il povero commendatore non ne avrebbe avvertita la sua signora, per cui non aveva segreti?
– Ah! questo è vero! – la signora disse asciugandosi gli occhi.
– Ma – obiettò il più piccolo dei generi col tenue sorriso di chi si lascia scappare una castroneria – : a far testamento ci si tira, dicono, la morte addosso.
Oh! Protestarono. – Il povero commendatore non aveva di questi pregiudizi!
– Ma – obiettò il genero di mezzo per accomodar la topica dell'altro – : il povero commendatore forse dubitò di spiacere alla signora. – Già: come a dire che la superstiziosa era lei! Altre proteste. Il segretario sgattaiolò a prender aria.
– Mi viene il dubbio – intervenne a questo punto l'assessore anziano – che se non è presso il notaio Tibaldi, il testamento sia nel gabinetto del sindaco.
– Questo sì! – Ipotesi verosimile.
E subito si deliberò di mandare una commissione in municipio.
– Segretario! segretario!
Agosti rientrò con faccia dolente. Egli e il figlio Ceredoli, un genero e due degli assessori se ne andarono alla ricerca in municipio.
Tra i rimasti c'era l'assessore dell'Igiene, che sino allora non aveva aperto bocca. Qualche cosa bisognava pur dire! Disse avanzando una nuova ipotesi:
– E non hanno interrogato il canonico Bonerba? Era così amico del povero commendatore! Forse lui ne conosce le intenzioni.
– Perbacco! – fecero i due generi ch'eran rimasti lì seduti.
Come mai non ci avevan pensato?
E lor due con quello dell'Igiene se ne andarono subito subito in cerca del canonico Bonerba, alla cattedrale.
IV
Dal municipio tornarono con un fascio di carte inutili: fatica particolare, a portarlo, del segretario Agosti, il quale si tenne punito così della sua ilarità intempestiva, e rideva ripensandoci. Ma dalla cattedrale gli altri messi recarono di meglio.
Quel sant'uomo del canonico Bonerba arrivò rosso e sbuffante (non è legge che tutti i santi debbano avere il ventre smilzo) e chiese di parlare da solo a sola con la vedova. Allora gli estranei alla famiglia si mossero a salutare, per assentarsi.
– No no – esclamò il canonico – : la loro presenza, quali rappresentanti del Comune, è forse più che conveniente, necessaria tra poco.
E quindi tutti, fuorchè i due – il sacerdote e la signora – passarono nella camera da desinare. Ivi erano in perfetto lutto le figlie e la nuora del defunto.
– Desideravo d'essere chiamato per uscire di perplessità – continuò il sacerdote. – Non che io sappia se il mio povero amico abbia o no testato, ma so quali erano le sue intenzioni testamentarie e rispetto alla chiesa e rispetto alla beneficenza, alle opere pie.
– Ah – sospirò la vedova – se l'ha fatto, il testamento, dove l'avrà dunque depositato?
– Ecco…; appunto… Il mio povero amico aveva una preoccupazione sola: non turbare l'armonia della sua famiglia veramente esemplare. Si sa…; i beni di questo mondo generano dissidi, alle volte, fin tra le persone più affezionate. E Ceredoli era così delicato, così sensibile, che aveva quasi il pudore della sua saggezza, della sua giustizia, della sua prudenza. Mi spiego?
– Ah! – sospirò la vedova asciugandosi gli occhi.
– Voglio dire che se fece testamento forse lo nascose perchè il figlio e le figlie non sapessero che l'aveva fatto e non ne pensassero male (pur troppo la fragilità umana…). E il Signore nel chiamarlo a sè non gli lasciò tempo di avvisare lei o me o altri del luogo ove aveva riposto il documento.
«Riposto»? Potere di una parola! La vedova a udirla ebbe un lampo di chiaroveggenza in un istantaneo risveglio della memoria. Ricordò la cassapanca secentesca ai piedi del letto nuziale e la cassettina che v'era dentro, antica anch'essa, in forma di bauletto o di cofano.
Balzò in piedi esclamando:
– È nel cofano dentro la cassapanca del seicento!
Il sacerdote la trattenne con dolcezza nell'atto e nella voce.
– Aspetti, signora. O il testamento si trova dove lei dice, o non vi si trova. Se non si trova neppur lì io mi credo in obbligo di dichiarare oggi stesso, con le cautele consigliate, anzi imposte dalla legge, quali erano le intenzioni del mio amico. Per questo ho pregato i membri della Giunta di rimanere. E se il testamento si trova, non le par bene che sia aperto da mano di notaio? Non le par conveniente mandare prima di tutto per il dottor Tibaldi?
La signora annuì. Un servo fu mandato per il dottor Tibaldi. Quindi essa, la vedova, portò nella camera da desinare e vi depose su la tavola il cofano avito. Era chiuso. Ne mancava la piccola chiave.
V
Il canonico, la vedova, il figlio, le tre figlie, i tre generi, la nuora, i quattro assessori e il segretario…: 15. In quindici, nella camera da desinare, aspettavano il notaio.
Che venne, finalmente.
– Siamo seri – mormorò Agosti all'orecchio dell'assessore d'Igiene; e col coltello in mano si pose, ritto in piedi, dietro la seggiola in cui, a capo della tavola, siederebbe l'uomo del Diritto. Davanti, aspettava il cofano. E gli porse – il segretario al notaio, appena questo fu al posto – il suo coltello da caccia, per forzare la debole serratura. Di qua e di là della tavola, stavano, in piedi il figlio e i generi; di fronte, le signore e il canonico, e più indietro, in piedi, i rappresentanti del Comune.
Momenti di aspettazione ansiosa, dissimulata da facce serie e sguardi severi.
– Constatato che nel cofano che si presume contenga il testamento del fu comm. Antonio Cerédoli manca la chiave idonea ad aprirlo – il notaio chiese – tutti gli aventi diritto, senza eccezione, consentono che si sforzi la serratura?
– Sì! sì! – tutti risposero.
E cric fece al passar della lama il concavo coperchio. Aperto subito; senza sforzo. E…
– Eh? cosa? – disse il dottor Tibaldi voltandosi indietro quasi il segretario avesse parlato. Rossi erano; congestionati, sembravano, tutti e due. Ma Agosti non aveva parlato; aveva veduto quel che il notaio aveva veduto.
– Eh? cosa? – Scappò via, Agosti, fuori della stanza, come se ci avesse veduto un leone a bocca spalancata o una leonessa, dentro il cofano. Per dir meglio, più semplicemente – con scandalo dell'assemblea – scappò via come uno che non può più resistere.
– Cosa? cos'è stato? Cosa c'è? – adesso significavan nello stupore enorme tutte le facce, mentre il notaio rialzava appena appena il coperchio e si accertava che le carte lì dentro erano tutte della stessa sorte.
Sì, tutte della stessa, sorte! della stessa natura!
Il povero uomo del Diritto cercò il modo e le parole per trarsi d'imbroglio. Trovò. Parlò con voce tremula:
– Quanto è contenuto qui dentro non è ostensibile. – Non è ostensibile – ripetè – ; non ammette alcun atto legale, e solo a un amico intimo della famiglia spetta consigliar il da farne.
Così dicendo il dottor Tibaldi venne col cofano dal canonico, lo depose sull'ampio seno di lui; e susurrate che ebbe due paroline all'orecchio del sant'uomo, scappò via lui pure quale uno che non ne può più.
VI
Che cosa conteneva il cofano?
Conteneva…
( – Dentro la mia casa e dentro la mia coscienza ci si può guardare come se avessero le pareti di vetro puro – soleva ripetere il povero comm. Cerédoli. Questa l'arma che l'aveva difeso da ogni più feroce attacco partigiano, da ogni più forte avversione, da ogni più recondita insidia).
Il cofano conteneva…
( – Il bene sociale riposa sul bene della famiglia – spesso ammoniva il canonico Bonerba – ; e il bene della famiglia riposa su la virtù e sul buon costume, su la rettitudine e sul buon esempio: guardate la famiglia del comm. Cerédoli).
Conteneva…
(E il figlio Cerédoli diceva spesso: – In fatto di moralità con mio padre non si scherza; è fin eccessivo. – )
Conteneva…
(E la madre Cerédoli raccomandava, di quando in quando, ai generi: – Specchiatevi nel commendatore, e renderete felici le mie figliuole. – ).
Conteneva…
( – Ah il babbo! – esclamavan le figliuole alzando gli occhi al cielo).
Conteneva, insomma, dei ritratti…
Eh? cosa?
… ritratti di donne…
( – Ah il nostro sindaco! – esclamavano i cittadini di San Giorgio al Piano, alzando gli occhi alle finestre di lui – . La sua casa è come se fosse tutta di vetro puro – ).
… ritratti i quali, sebbene non avessero vesti a determinarne l'epoca, si vedeva che erano modernissimi.
Eh? cosa?
Appunto: nella cassapanca del seicento, ai piedi del letto nuziale, dentro il cofano che aveva forse accolti i mistici o verginei segreti di qualche avola, il povero comm. Cerédoli ci teneva delle fotografie – concludendo con le due paroline dal dottore Tibaldi mormorate all'orecchio del santo uomo – … fotografie oscene.