Il Killer Dell’orologio

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Из серии: Un Mistero di Riley Paige #4
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Il Killer Dell’orologio
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Il Killer Dell’orologio
Il Killer Dell’orologio
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Читает Caterina Bonanni
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CAPITOLO DUE

Riley sentì il suo morale sprofondare, mentre guardava le due immagini apparse sugli schermi, posizionati sopra il tavolo della sala conferenze del BAU. Una raffigurava una ragazza spensierata con occhi luminosi e un sorriso vincente. L’altra invece mostrava il suo cadavere, orribilmente emaciato, e con le braccia protese in strane posizioni. Visto che le era stato ordinato di partecipare a questo incontro, Riley sapeva che dovevano esserci altre vittime simili.

Sam Flores, un esperto tecnico di laboratorio con occhiali dalla montatura nera, stava gestendo lo schermo multimediale per gli altri quattro agenti seduti intorno al tavolo.

“In queste foto, vediamo Metta Lunoe, diciassette anni” disse Flores. “La sua famiglia vive a Collierville, New Jersey. I genitori ne hanno denunciato la scomparsa a marzo—era scappata di casa.”

Poi, fece apparire un’enorme cartina del Delaware sullo schermo, indicando una località con un puntatore.

Disse: “Il suo corpo è stato trovato in un campo fuori Mowbray, Delaware, il sedici maggio. Il collo è stato spezzato.”

Flores poi, mostrò un altro paio di immagini: una di un’altra vivace ragazzina, l’altra, invece, del suo corpo quasi irriconoscibile, scheletrico, con le braccia protese in un modo simile alla prima.

“Queste foto invece appartengono a Valerie Bruner, anche lei diciassettenne, scappata di casa da Norbury, Virginia. E’ scomparsa ad aprile.”

Flores indicò un’altra località sulla cartina.

“Il suo corpo è stato ritrovato disteso in una strada polverosa vicino a Redditch, Delaware, il dodici giugno. Ovviamente, si tratta dello stesso modus operandi dell'omicidio precedente. L’Agente Jeffreys è stato chiamato ad investigare.”

Riley era stupita. Come era possibile che Bill avesse lavorato ad un caso che non l’aveva coinvolta? Poi, ricordò. A giugno, era appena stata portata in ospedale, a riprendersi dall’orribile disavventura nella gabbia di Peterson. Nonostante ciò, Bill le aveva spesso fatto visita in ospedale. Non aveva mai menzionato che stava anche lavorando a quel caso.

Si voltò verso Bill.

“Perché non me ne hai parlato?” fu la sua domanda.

Il viso di Bill si fece serio.

“Non era un buon momento” disse. “Avevi già i tuoi problemi.”

“Chi era il tuo partner?” Riley domandò.

“L’Agente Remsen.”

Riley riconobbe quel nome. Bruce Remsen si era trasferito da Quantico, prima che lei fosse tornata a lavoro.

Poi, dopo una pausa, Bill aggiunse: “Non sono riuscito a risolvere il caso.”

Ora Riley poté leggere la sua espressione e il suo tono di voce. Dopo anni di amicizia e di lavoro insieme, capiva Bill meglio di chiunque altro. E sapeva quanto fosse profondamente deluso da se stesso.

Flores evidenziò, nelle foto del coroner, le schiene delle ragazze. I corpi erano così emaciati, che sembravano a malapena reali. Entrambe le schiene erano ricoperte di vecchie cicatrici e lividi freschi.

Riley si scoprì in preda allo sconforto e ne rimase sconvolta. Da quando era nauseata dalle foto dei cadaveri?

Flores aggiunse: “Erano entrambe quasi morte di fame, prima che i loro colli fossero spezzati. Erano state percosse con violenza, probabilmente per un lungo periodo di tempo. I loro corpi sono stati spostati nel luogo in qui sono state trovate postmortem. Non abbiamo idea di dove siano state uccise.”

Provando a non lasciare che il suo senso di malessere avesse la meglio su di lei, Riley rimuginò sulle somiglianze con casi risolti da lei e Bill, durante gli ultimi mesi. Il cosiddetto “killer delle bambole” aveva lasciato i corpi delle proprie vittime dove potevano essere facilmente trovati, in posa, nudi, in grottesche posizioni da bambole. Il “killer delle catene” appendeva i corpi delle sue vittime in alto, avvolgendoli brutalmente con pesanti catene.

Ora, Flores evidenziò la foto di un’altra giovane donna—dall’aspetto allegro e con capelli rossi. Nella foto si notava una Toyota malconcia e vuota.

“Quest’auto apparteneva alla ventiquattrenne, immigrata irlandese, di nome Meara Keagan” Flores disse. “Ne hanno denunciato la scomparsa ieri mattina. La sua auto è stata trovata abbandonata, proprio fuori da un condominio di Westree, Delaware. Lavorava lì per una famiglia, come governante e tata.”

A quel punto intervenne l'Agente Speciale Brent Meredith. Era un afroamericano capace di suscitare timore nel suo interlocutore, dalla corporatura robusta e le fattezze spigolose; aveva l'aspetto di un uomo pragmatico.

“Ha finito il turno alle undici in punto, la sera prima di sparire” disse Meredith. “L’auto è stata trovata le prime ore del mattino seguente.”

L’Agente Speciale Capo Carl Walder si spostò in avanti nella sua sedia. Era il superiore di Brent Meredith; aveva un viso infantile e lentigginoso, con capelli ricci e ramati. A Riley non piaceva. Non lo riteneva realmente competente. E il fatto che l’avesse licenziata, tempo addietro, non glielo rendeva più simpatico.

“Perché crediamo che questa sparizione sia collegata agli omicidi precedenti?” Walter chiese. “Meara Keagan è più vecchia delle altre vittime.”

Ora intervenne Lucy Vargas. Era una brillante giovane recluta con capelli, occhi e carnagione tutti scuri.

“Potete vederlo dalla cartina. La Keagan è scomparsa nella stessa zona, dove i due corpi sono stati trovati. Potrebbe essere una coincidenza, ma non sembra molto credibile. Non in un periodo di cinque mesi.”

Nonostante il crescente sconforto, Riley fu contenta nel vedere Walder sussultare leggermente. Senza esserne consapevole, Lucy lo aveva messo al suo posto. Riley temeva che l’uomo avrebbe trovato un modo per tornare ad affrontare Lucy in seguito. Walter sapeva essere meschino fino a quel punto.

“E’ corretto, Agente Vargas” Meredith intervenne. “Immaginiamo che le ragazze più giovani siano state rapite mentre facevano l’autostop. Molto probabilmente, lungo questa strada principale che attraversa la zona.” Indicò un punto specifico sulla cartina.

Lucy chiese: “Non è vietato fare l’autostop in Delaware?” Subito aggiunse: “Naturalmente, potrebbe essere una legge difficile da rispettare.”

“Ha ragione su questo” Meredith disse. “E questa non è un’intestatale e neppure la strada principale dello stato, perciò chi fa l’autostop probabilmente la usa. Apparentemente, lo fa anche il killer. Un corpo è stato trovato lungo questa strada, mentre gli altri due sono stati rinvenuti a meno di sedici chilometri. La Keagan è stata presa a circa novantasei chilometri a nord, lungo la stessa strada. Con lei, ha usato un diverso stratagemma. Se segue il solito metodo, la terrà in vita fino a farla quasi morire di fame. Poi, le spezzerà il collo e lascerà il suo corpo nello stesso modo riservato alle altre vittime.”

“Non permetteremo che accada” Bill disse con voce ferma.

Meredith disse: “Agenti Paige e Jeffreys, voglio che vi occupiate di questo caso immediatamente.” Spinse un fascicolo contenente foto e rapporti, dall’altra parte del tavolo, verso Riley. “Agente Paige, queste sono tutte le informazioni che le occorrono, in modo che possa iniziare velocemente ad occuparsene.”

Riley si protese verso il fascicolo e poi ritrasse la mano, colta da uno spasmo di orribile ansia.

Che cosa mi prende?

Le iniziò a girare la testa e immagini sfocate apparvero nella sua mente. Era la PTSD del caso Peterson? No, era diverso. Era proprio un’altra cosa.

Riley si alzò dalla sedia e fuggì dalla sala conferenze. Mentre si precipitava lungo il corridoio diretta al proprio ufficio, le immagini nella sua testa a poco a poco divennero più visibili.

Erano volti, volti di donne e ragazze.

Vide Mitzi, Koreen e Tantra—giovani squillo, i cui abiti rispettabili mascheravano la loro degradazione, persino in loro stesse.

Vide Justine, una prostituta avanti con l’età, impegnata a bere in un bar, stanca e amareggiata, e ormai preparata ad affrontare una brutta morte.

Vide Chrissy, imprigionata virtualmente in un bordello, ad opera del suo violento marito protettore.

E infine, come immagine peggiore di tutte, vide Trinda, una quindicenne che aveva già vissuto l’incubo dello sfruttamento sessuale, e che non riusciva ad immaginare un’altra tipologia di vita.

Riley arrivò nel suo ufficio e crollò nella sedia. Ora comprendeva la sua scarica di repulsione. Le immagini che aveva appena visto erano state la causa scatenante. Avevano portato in superficie i suoi timori più oscuri relativi al caso di Phoenix.

Aveva fermato un brutale assassino, ma non aveva fatto giustizia per le donne e le ragazze che aveva incontrato. Restava un intero mondo di sfruttamento. Non aveva nemmeno grattato la superficie delle ingiustizie che subivano.

E adesso, era perseguitata e scossa in un modo che non aveva mai sperimentato prima d’ora. Le sembrava peggio della PTSD. Dopotutto, poteva dare sfogo alla sua rabbia privata e all’orrore in una palestra, allenandosi. Ma non riusciva affatto a liberarsi di queste nuove sensazioni.

E come poteva lavorare ad un altro caso come quello di Phoenix?

Sentì la voce di Bill alla porta.

“Riley.”

La donna sollevò lo sguardo e vide il partner guardarla con un’espressione triste. Aveva in mano il fascicolo che Meredith aveva provato a darle.

“Ho bisogno di te per questo caso” le disse. “Per me, è una questione personale. Mi fa diventare matto il fatto di non riuscire a risolverlo. E non posso fare a meno di chiedermi se il mio insuccesso sia dovuto al fallimento del mio matrimonio. Ho conosciuto la famiglia di Valerie Bruner. Sono delle brave persone. Ma non sono rimasto in contatto con loro, perché … ecco, li ho abbandonati. Devo rimettere le cose al proprio posto con loro.”

 

L’uomo appoggiò il fascicolo sulla scrivania di Riley.

“Dai soltanto un’occhiata. Per favore.”

Non aggiunse altro e lasciò l’ufficio di Riley, che restò seduta a guardare il fascicolo, colta da uno stato d’indecisione.

Questo non era affatto da lei. Sapeva di doverne uscire fuori.

Mentre rimuginava sul da farsi, ricordò qualcosa dei giorni che aveva passato a Phoenix. Era stata in grado di salvare una ragazza di nome Jilly. O almeno ci aveva provato.

Tirò fuori il cellulare e digitò il numero di un ricovero per adolescenti di Phoenix, Arizona. Una voce familiare giunse in linea.

“Brenda Fitch.”

Riley fu contenta che avesse risposto proprio lei. Aveva imparato a conoscere l’assistente sociale durante il suo caso precedente.

“Salve Brenda” le disse. “Sono Riley. Ho soltanto pensato di chiamare per sapere di Jilly.”

Jilly era una ragazza che Riley aveva salvato dal traffico sessuale: una tredicenne magrissima e dai capelli scuri, senza una famiglia, ad eccezione di un padre violento. Riley aveva chiamato spesso, per accertarsi dello stato di Jilly.

Riley sentì Brenda sospirare.

“Ha fatto bene a chiamare” Brenda disse. “Avrei voluto che più persone avessero mostrato un po’ di interesse. Jolly è ancora con noi.”

Il cuore di Riley sprofondò. Continuava a sperare che un giorno, alla sua domanda, le venisse risposto che Jilly aveva trovato un’amorevole famiglia adottiva. Ma non era quello il giorno. Adesso Riley era preoccupata.

Disse: “L’ultima volta che abbiamo parlato, temeva di doverla rimandare di nuovo dal padre.”

“Oh, no, siamo giunti ad una soluzione legale per questo. Abbiamo ottenuto un ordine restrittivo per tenerlo lontano da lei.”

Riley emise un sospiro di sollievo.

“Jilly chiede continuamente di lei” disse Brenda. “Le piacerebbe parlarle?”

“Sì. La prego.”

Brenda mise Riley in attesa. Quest’ultima si chiese improvvisamente se fosse o meno una buona idea. Ogni volta che parlava con Jilly, finiva per sentirsi in colpa. Non riusciva a comprenderne il motivo però. Dopotutto, aveva salvato Jilly da una vita di sfruttamento e abusi.

Ma salvata per cosa? si chiese. Che tipo di vita doveva attendersi Jilly?

Sentì la voce di Jilly.

“Ehi, Agente Paige.”

“Quante volte devo dirti di non chiamarmi in quel modo?”

“Scusa. Ehi, Riley.”

Riley rise sommessamente.

“Ehi tu. Come stai?”

“Bene, credo.”

Cadde il silenzio.

Una tipica adolescente, Riley pensò. Era sempre difficile far parlare Jilly.

“Allora, che cosa stai facendo?” le chiese Riley.

“Mi sono appena svegliata” la ragazza rispose, sembrando un po’ stordita. “Sto per fare colazione.”

Riley poi si rese conto che erano ben tre ore indietro rispetto a lei a Phoenix.

“Scusami se ho chiamato così presto” Riley disse. “Continuo a dimenticarmi della differenza d’orario.”

“Non fa niente. E’ carino che tu chiami.”

Riley sentì uno sbadiglio.

“Allora, andrai a scuola oggi?” le chiese ancora Riley.

“Sì. Ci fanno uscire ogni giorno dalla gabbia per farlo.”

Era la piccola battuta ricorrente di Jilly, definire il ricovero, “gabbia”, proprio come se fosse una prigione. Riley non trovava la cosa molto divertente.

Riley disse: “Allora ti lascio fare colazione e prepararti.”

“No, aspetta un attimo” la ragazza rispose.

Cadde di nuovo il silenzio e a Riley sembrò di aver sentito Jilly inghiottire un singhiozzo.

“Nessuno mi vuole, Riley” Jilly aggiunse. Ora stava piangendo. “Le famiglie adottive continuano ad evitarmi. Non amano il mio passato.”

Riley era stupita.

Il suo “passato”? pensò. Gesù, come poteva una tredicenne avere un “passato”? Che cosa prende alla gente?

“Mi dispiace” disse Riley.

Jilly parlava a scatti, tra le lacrime.

“E’ come … ecco, sai, è … voglio dire, Riley, sembra che tu sia la sola a cui importi di me.”

La gola doleva alla donna e gli occhi le bruciavano. Non riusciva a rispondere.

Jilly esclamò: “Non potrei venire a vivere con te? Non darei troppo fastidio. Hai una figlia, giusto? Lei potrebbe essere come mia sorella. Potremmo prenderci cura l’una dell’altra. Mi manchi.”

Riley si sforzò di parlare.

“Io … non penso che sia possibile, Jilly.”

“Perché no?”

Riley si sentì devastata. Quella domanda l’aveva colpita come un proiettile.

“Proprio… non è possibile” le disse.

Poteva ancora sentire Jilly piangere.

“Va bene” la ragazza disse. “Devo andare a fare colazione. Ciao.”

“Ciao” rispose Riley. “Ti richiamo presto.”

Sentì un clic, mentre Jilly metteva fine alla telefonata. Riley si curvò sulla scrivania, le lacrime le rigavano il volto. La domanda di Jilly continuava a ripetersi nella sua testa …

“Perché no?”

C’erano mille ragioni. Era già completamente occupata con April, così com’era. Era troppo assorbita dal lavoro, che le consumava tempo ed energia. Ed era in qualche modo qualificata o preparata a gestire le cicatrici psicologiche di Jilly? Naturalmente no.

Riley si asciugò le lacrime e si mise eretta sulla sedia. Concedersi di autocommiserarsi non avrebbe aiutato nessuno. Era il momento di tornare all’opera. C’erano ragazze che stavano morendo là fuori, e avevano bisogno di lei.

Prese il fascicolo e lo aprì. Era tempo, si chiese, di tornare nell’arena?

CAPITOLO TRE

Scratch era seduto sul dondolo del portico, intento ad osservare i bambini andare e venire nei loro costumi di Halloween. In genere, gli piaceva averli intorno, mentre andavano in giro a chiedere “Dolcetto o scherzetto?”. Ma, in quell'anno, sembrava un’occasione agrodolce.

Quanti tra questi bambini saranno vivi tra poche settimane? si chiese.

Sospirò. Probabilmente nessuno di loro. La scadenza era vicina e nessuno stava prestando attenzione ai suoi messaggi.

Le catene del dondolo stavano cigolando. Cera una leggera pioggia calda che stava cadendo, e Scratch sperava che i bambini non prendessero il raffreddore. Aveva una cesta di dolci sulle ginocchia, e si stava dimostrando abbastanza generoso. Si stava facendo tardi, e presto non ci sarebbero più stati bambini.

Nella mente di Scratch, il nonno si stava ancora lamentando, sebbene l’anziano uomo irritabile fosse morto anni fa. E non importava che Scratch fosse un adulto ora, non si sarebbe mai liberato dai consigli del nonno.

“Guarda quello con il mantello e la maschera nera di plastica” disse il nonno. “Lo chiami costume quello?”

Scratch sperava che lui e il nonno non avessero un’altra discussione.

“E’ vestito da Darth Vader, nonno” disse.

“Non m’importa chi diavolo dovrebbe essere. E’ un costume scadente e comprato in un negozio. Quando ti portavo in giro a fare “dolcetto o scherzetto?”, noi facevamo sempre i costumi per te.”

Scratch ricordò quei costumi. Per trasformarlo in una mummia, il nonno lo aveva avvolto in delle lenzuola stracciate. Per farlo apparire come un cavaliere dall’armatura splendente, il nonno l’aveva agghindato con un poster enorme coperto con un foglio d’alluminio, e gli aveva dato una lancia fatta con un manico di scopa. I costumi del nonno erano sempre creativi.

Tuttavia, Scratch non ricordava con affetto quegli Halloween. Il nonno si arrabbiava e si lamentava sempre, mentre gli faceva indossare quei costumi. E quando Scratch tornava a casa dal suo giro di “dolcetto o scherzetto?” … per un momento, si sentì di nuovo come un ragazzino. Sapeva che il nonno aveva sempre ragione. Non comprendeva sempre il perché, ma non importava. Il nonno aveva ragione, e lui invece aveva torto. Era proprio così che stavano le cose. Era così che erano sempre andate.

Scratch si era sentito sollevato, quando era diventato troppo vecchio per andare a chiedere dolci ad Halloween. Sin da allora, era stato libero di sedersi sul portico, distribuendo dolci ai bambini. Era felice per loro. Era contento che si stessero godendo l’infanzia, anche se per lui non era stato così.

Tre bambini salirono sul portico. Un ragazzino era vestito come Spiderman, una ragazzina come Catwoman. Sembrava avessero circa nove anni. Il costume del terzo bambino fece sorridere Scratch. Una bambina, di circa sette anni, indossava un costume da calabrone.

“Dolcetto o scherzetto?” tutti gridarono, mettendosi di fronte a Scratch.

Scratch sorrise e frugò nel cestino, in cerca di caramelle. Ne diede alcune ai bambini, che lo ringraziano o e se ne andarono.

“Smetti di dar loro caramelle!” il nonno brontolò. “Quando smetterai di incoraggiare quei piccoli bastardi?”

Scratch stava resistendo al nonno ormai da un paio di ore. Avrebbe pagato dopo per il suo gesto.

Nel frattempo, il nonno stava ancora brontolando: “Non dimenticare che abbiamo del lavoro da fare domani sera.”

Scratch non rispose, si limitò ad ascoltare il cigolio del dondolo. No, non avrebbe dimenticato che cosa doveva fare l’indomani sera. Era un lavoro sporco, ma doveva essere fatto.

*

Libby Clark seguì il fratello maggiore e sua cugina nel bosco buio, che si estendeva dietro tutti i cortili del quartiere. Non voleva essere lì. Voleva stare a casa, nel suo letto.

Suo fratello Gary stava guidando il gruppo, dotato di torcia. Appariva piuttosto strano nel suo costume da Spiderman. La cugina Denise seguiva Gary, indossando il costume da Catwoman. Libby chiudeva il piccolo gruppo.

“Muovetevi, voi due” Gary disse, inoltrandosi.

S’intrufolò tra due cespugli senza difficoltà, imitato da Denise, ma il costume di Libby era troppo ingombrante e s’impigliò tra i rami. Ora aveva qualcosa di nuovo di cui aver paura. Se avesse rovinato il costume da calabrone, la mamma sarebbe andata su tutte le furie. Libby riuscì a districarsi e si affrettò dietro di loro.

“Voglio andare a casa” Libby disse.

“Torna pure indietro” rispose Gary, proseguendo.

Ma, naturalmente, Libby era troppo spaventata per farlo. Si erano già allontanati tanto. Non osava tornare a casa.

“Forse dovremmo tornare tutti indietro” disse Denise. “Libby ha paura.”

Gary si fermò e si voltò. Libby avrebbe voluto vedere il suo viso dietro quella maschera.

“Che cosa c’è, Denise?” chiese. “Anche tu hai paura?”

Denise rise nervosamente.

“No” l’altra rispose. Libby percepì chiaramente la menzogna.

“Allora, forza, voi due” aggiunse Gary.

Il gruppetto continuò ad andare avanti. Il terreno era molle e melmoso, e Libby aveva l’erbaccia bagnata fino alle ginocchia. Almeno, aveva smesso di piovere. La luna iniziava a mostrarsi tra le nuvole. Ma stava anche facendo più freddo, e Libby era bagnata ovunque; stava tremando, ed aveva molta, molta paura.

Finalmente, gli alberi ed i cespugli si aprirono, lasciando spazio ad una grande radura. Il vapore si alzava dal terreno bagnato. Gary si fermò proprio sul bordo dello spazio, e così fecero Denise e Libby.

“Eccolo” sussurrò Gary, indicando. “Guardate—è quadrato, come se ci fosse stata una casa o una cosa simile qui. Ma non c’è una casa. Non c’è niente. Alberi e cespugli non ci possono nemmeno crescere. Solo erbacce. Ecco perché è una terra maledetta. Ci vivono i fantasmi.”

Libby ricordò le parole del padre.

“I fantasmi non esistono.”

Nonostante questo, le ginocchia le tremavano. Temeva che si sarebbe fatta la pipì addosso. Senz’altro alla mamma non sarebbe piaciuta la cosa.

“Che cosa sono quelli?” Denise chiese.

Indicò due sagome che si innalzavano dal suolo. A Libby, sembravano grossi tubi che si innalzavano in alto, ed erano quasi completamente coperti di edera.

“Non lo so” rispose Gary. “Mi ricordano dei periscopi di un sottomarino. Forse i fantasmi ci stanno osservando. Vai a dare un’occhiata, Denise.”

Denise esplose in una risata che esprimeva paura.

“Fallo tu!” replicò.

“D’accordo, ci vado” fu la laconica risposta.

Gary avanzò, con una certa cautela, fino al punto indicato e si diresse verso una delle sagome. Si bloccò a circa quattro metri da essa. Poi, si voltò e tornò ad unirsi a sua cugina e sua sorella.

 

“Non so dire che cosa sia” disse.

Denise scoppiò di nuovo a ridere. “Perché non hai nemmeno guardato!” lo stuzzicò.

“L’ho fatto” esclamò Gary.

“Non é vero! Non ti sei nemmeno avvicinato!”

“Mi sono avvicinato. Se sei così curiosa, vai a vedere tu stessa.”

Denise non rispose per un momento. Poi, si diresse verso il punto indicato. Si avvicinò un po’ di più di Gary alla sagoma, per poi tornare velocemente indietro, senza nemmeno fermarsi.

“Neanch’io so che cosa sia” esclamò.

“Adesso è il tuo turno di guardare, Libby” disse Gary.

La paura di Libby stava esplodendo nella sua gola, proprio come quell’edera.

“Non farla andare, Gary” Denise intervenne. “E’ troppo piccola.”

“Non è troppo piccola. Sta crescendo. E’ il momento che si comporti da grande.”

Gary diede a Libby una brutta spinta. La bimba si ritrovò a tre metri dal punto. Si voltò e provò a tornare indietro, ma Gary allungò la mano per fermarla.

“Huh-uh” fu l’intervento del bambino. “Io e Denise ci siamo andati. Ora tocca anche a te.”

Libby deglutì forte e si voltò, per affrontare lo spazio vuoto con i suoi due oggetti piegati. Aveva l’orrenda sensazione che potessero stare a guardarla.

Ricordò di nuovo le parole del papà …

“I fantasmi non esistono.”

Il papà non avrebbe mentito su una cosa del genere. Allora, di che cosa aveva paura?

Inoltre, si stava arrabbiando per via della prepotenza di Gary. Era quasi tanto arrabbiata quanto spaventata.

Gliela farò vedere, pensò.

Con le gambe ancora tremanti, fece un passo dopo l’altro, finché non giunse all’interno del grosso spazio quadrato. Mentre si dirigeva verso l’oggetto metallico, Libby si sentì infine più coraggiosa.

Nell'istante in cui si avvicinò all’oggetto — più vicino di quanto Gary o Denise fossero andati — si sentì molto fiera di se stessa. Ma ancora non riusciva a stabilire che cosa fosse.

Con più coraggio di quanto pensasse di possedere, allungò la mano verso l’oggetto. Spinse le dita tra le foglie d’edera, sperando che la mano non finisse afferrata o mangiata, o forse persino peggio. Le dita finirono per toccare il freddo tubo di metallo.

Che cos’è? la bambina si chiese.

Ora percepì una lieve vibrazione nel tubo. E sentì qualcosa. Sembrava provenire proprio dall’interno del tubo.

Si abbassò molto vicino all’oggetto. Il suono era lieve, ma sapeva che non era frutto della propria immaginazione. Il suono era vero, ed era come se fosse una donna che piangeva e gemeva.

Libby ritrasse la mano dal tubo. Era troppo spaventata per muoversi, parlare, urlare o fare altro. Non riusciva nemmeno a respirare. Era come quella volta che era caduta da un albero sulla schiena, e le era mancato il fiato.

Sapeva di doversi allontanare. Ma restò immobile. Era come se dovesse dire al corpo come fare a muoversi.

Voltati e corri, pensò.

Ma per pochi terrificanti secondi, non riuscì a farlo.

Poi, le gambe sembrarono cominciare a correre da sole, con tutta la forza che avevano, e la bambina si trovò in corsa verso il margine dello spiazzo. Era terrorizzata, al pensiero che qualcosa di molto brutto potesse raggiungerla e trascinarla con sé.

Quando arrivò al margine del bosco, si piegò dal dolore, annaspando per respirare. Ora, si rese conto che non aveva nemmeno respirato per tutto il tempo.

“Che cosa c’è?” Denise chiese.

“Un fantasma!” Libby sussultò. “Ho sentito un fantasma!”

Non attese una risposta. Si staccò dal gruppo, e corse via quanto più velocemente possibile, tornando da dove erano venuti. Sentì il fratello e la cugina correre dietro di lei.

“Ehi Libby, fermati!” il fratello le gridò. “Aspetta!”

Ma non si sarebbe fermata per nessuna ragione, finché non fosse arrivata al sicuro a casa.

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