Gloria Primaria

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Из серии: Le Origini di Luke Stone #4
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Don fu gettato in avanti e di lato, la sua faccia colpì il vetro tra gli scomparti. Poi finì addosso all'agente dei servizi segreti.

Tutto divenne buio.

Gli sembrò di fluttuare nello spazio.

Poco tempo dopo, aprì gli occhi. L'auto era capovolta. Don era sdraiato sul soffitto. Si portò una mano al viso insanguinato. Sia Montcalvo che l'uomo dei servizi segreti erano a testa in giù, ancora legati ai sedili, con le braccia penzoloni.

Gli occhi di Montcalvo erano chiusi.

Le orecchie di Don fischiavano. Aveva le vertigini.

Si frugò in tasca e prese il cellulare. Il numero di Margaret era il primo in rubrica. Lo trovò e premette il pulsante verde. Il numero squillò e sembrò che qualcuno raccogliesse la chiamata dall'altra parte del telefono.

“Tesoro?”, disse. “Tesoro?”,

Nessuno rispose.

Fuori dai finestrini la gente correva. Riusciva a vedere solo i loro piedi. Una macchina nera passò sulla strada correndo, poi un'altra: erano i membri del corteo presidenziale che si precipitavano verso l'aeroporto.

Don strisciò verso la porta, pensando di aprirla e chiedere aiuto. Ma… accadde qualcosa. Passarono istanti che sembravano interminabili. Aprì gli occhi e si ritrovò di nuovo sdraiato sul soffitto.

Arriverà qualcuno.  L'autista deve aver chiamato i soccorsi. Don guardò attraverso il tramezzo e l'autista era appeso a testa in giù, proprio come gli altri uomini che si trovavano con lui nell'abitacolo.

"Qualcun altro oltre a me è cosciente?"

CAPITOLO SETTE

Ore 11:15 fuso orario dell’Atlantico (ore 11:45 fuso orario della Costa Orientale)

Air Force One

Aeroporto internazionale Luis Muñoz Marín

San Juan, Puerto Rico

"Piano, piano", disse Clement Dixon.

Nessuno gli dava ascolto. Lo avevano portato fuori dalla macchina con tutte le precauzioni. Dixon era alto, ma una mano forte lo costringeva a rimanere abbassato fino a farlo quasi accovacciare. Un muro di uomini molto alti in giubbotti balistici lo circondava completamente. Si mossero in gruppo verso l'aereo.

Al di là dei corpi che lo circondavano, riusciva a malapena a vedere l'aereo blu e bianco sull'asfalto, la bandiera americana sulla coda, e la scritta STATI UNITI D'AMERICA lungo la fusoliera.

Dixon riuscì a intravedere l'auto mentre si allontanava, era circondata da veicoli blindati. Vide anche Tracey Reynolds e Margaret Morris seguirlo scortate da due donne in giubbotti balistici. Non erano circondate e non erano costrette a stare chine: non importava al mondo della vita di una giovane assistente e della moglie di un agente dei servizi segreti.

La scala dell'aereo era abbassata. I motori stavano già girando. Faceva caldo sull'asfalto. Dixon poteva sentire il sole picchiare sulla schiena.

"Cosa sta succedendo?" disse.

Quando raggiunsero le scale, si rese conto di essere senza fiato. Sentiva una punta di dolore al petto.

Non ora. Non un attacco di cuore adesso.

Sarebbe stato troppo banale, troppo. Era quello che i suoi figli avrebbero chiamato meme. Un vecchio vive per decenni facendo lavori stressanti, poi sopravvive a una sorta di aggressione violenta, solo per morire di insufficienza cardiaca pochi istanti dopo.

"C'è stato un attacco, signore", disse un uomo. “Non siamo sicuri della sua natura. È tutto tranquillo e ora stiamo evacuando".

"E il resto del gruppo?"

"Troveranno un modo per tornare".

"Quanti sono morti?" chiese Dixon. Ci devono essere stati dei morti. Aveva visto la gente esplodere con i suoi occhi.

"Non dei nostri, signore. Faremo in modo di farle avere queste informazioni non appena saremo decollati. Pronto a salire le scale?"

La scaletta si stagliava sopra di lui. Erano solo una dozzina di scalini. Li aveva contati la prima volta che ci era salito. Normalmente saliva le scale quasi correndo, per dimostrare a tutti i media o alle persone vicine quanto fosse in forma per la sua età.

Ma non quel giorno. Tutto, il mondo intero, sembrava muoversi intorno a lui. Sentì dei conati di vomito. Inciampò e per una frazione di secondo vide due aerei. Poi le loro immagini si unirono improvvisamente.

Un aereo, due aerei, aereo bianco, aereo blu.

"Mi sento un po' stordito", disse.

Lo presero per le braccia e lo trascinarono su per le scale. Per fortuna, le gambe non gli cedettero. Sarebbe stato imbarazzante. Sembrava che i suoi piedi non toccassero il suolo mentre gli uomini lo aiutavano a salire per le scale in fretta e furia.

In pochi secondi erano all'interno dell'aereo. Nessuno gli chiese dove volesse andare. Si spostarono invece in gruppo lungo il corridoio fino all'angusto annesso medico, camminando velocemente, quasi trascinando Dixon di peso.

Passarono attraverso la porta stretta e due agenti lo fecero sedere sul sedile di pelle vicino al lettino. Era uno spazio minuscolo, con apparecchiature mediche allineate alle pareti. Dixon sapeva che più in profondità all'interno della dependance avrebbe potuto aprirsi un tavolo operatorio se si fosse rivelato necessario. Sperava molto di non arrivare mai a tanto.

C'era Travis Pender, il medico dell'Air Force One. Al suo fianco c'era un'infermiera, una donna di mezza età. Il suo viso era sempre serio. Dixon la conosceva, ma al momento la sua mente sembrava…

"Buon giorno, Signor Presidente", disse.

"Ciao", disse Dixon. Non provò nemmeno a chiamarla per nome.

Pender era texano, Dixon lo ricordava. Era stato nell'Air Force. Lui sorrise. Era biondo, molto abbronzato, la sua carnagione era quasi aranciata. Aveva una grande mascella sporgente, come un uomo di Cro-Magnon. Dixon, per lunga esperienza, considerava quella mascella un tratto distintivo di sicurezza. Gli uomini con un tocco di Neanderthal sembravano avere più sicurezza in sé stessi rispetto agli altri uomini, a ragione o meno.

Da parte sua, Pender sorrideva sempre, sembrava sempre divertirsi. La mascella poteva essere una delle ragioni, ma certamente non era la sola. Gli uomini sicuri di sé potevano essere scontrosi come chiunque altro. Pender non lo era. Dixon non capiva quell'uomo.

"Come ti senti, Clem?" disse il dottore. “È una giornata turbolenta, eh? Mi hanno detto che forse hai avuto un po' di vertigini. Hai perso conoscenza? Ti ricordi?

A Dixon balenò un pensiero, non certo per la prima volta. Ma questa volta lo espresse ad alta voce.

“Hai sempre chiamato i presidenti per nome? O lo fai solo me?"

Il sorriso di Pender si fece ancora più ampio. “Chiamo tutti per nome. Siamo tutti uguali agli occhi di Dio". Guardò uno degli uomini dei servizi segreti.

"Puoi aiutarmi a togliergli giacca e camicia?"

L'uomo dei servizi segreti raggiunse Dixon.

"Ce la faccio, grazie!" disse Dixon. "Non sono un invalido!"

Si tolse la giacca e iniziò a sbottonare la camicia. Non aveva senso opporre resistenza. Era successo qualcosa poco prima e lo avrebbero visitato, che gli piacesse o meno.

Travis Pender sorrise ancora di più. Era un sorriso delle dimensioni del Texas.

“Questo è lo spirito giusto. Mi piace".

Dixon scosse la testa.

"Zitto, Travis. Dimmi solo se sono vivo o morto".

Alzò lo sguardo e Tracey Reynolds era lì sulla soglia. Dixon si sentì un po' sollevato alla sua vista. Tracey stava rapidamente diventando la sua guardia del corpo, la persona più fidata del suo entourage. Allo stesso tempo, avrebbe preferito che non lo vedesse senza camicia. Il tono muscolare non era uno dei suoi punti di forza.

"Ti hanno lasciato entrare?" disse.

Lei sorrise. I suoi denti erano bianchi e perfetti, come ogni suo lineamento.

"Mi hanno detto che potresti aver bisogno di qualcuno che ti tenga la mano in caso dovessero prelevare del sangue".

"Sei assunta", disse il dottor Pender. "Chiunque riesca a tener testa al sarcasmo di questo presidente merita un lavoro per la vita".

Clement Dixon si rese conto di quanto fosse vera quella dichiarazione.

* * *

Nel frattempo, nella completa oscurità, proprio al di sotto di Clement Dixon, l'uomo sentì l'aereo iniziare a muoversi. Aveva passato mesi ad allenarsi per riconoscere la sensazione del movimento.

Pochi istanti dopo, l'aereo accelerò. Infine si staccò dal suolo. Sentì lo sbalzo dell'aereo che saliva verso la sua quota di crociera. Ci fu qualche istante di turbolenza.

L'uomo aprì gli occhi, ma nulla cambiò. Tutto intorno a lui era nero come la notte più profonda. Era vivo. L'uomo trasalì. Il suo nome era… il suo vero nome non aveva importanza. Rispondeva al nom de guerre Abu Omar.

Il suo corpo era terribilmente freddo, ma si era anche allenato a resistere, dormendo ripetutamente a temperature gelide. Riusciva a malapena a sentire i suoi arti. Dopotutto, era chiuso in una cella frigorifera. Era un trucco perfetto per ingannare i cani da fiuto. C'erano uomini dentro tutte quelle celle frigo, nascosti tra le bistecche, il pesce e il gelato.

Rabbrividì. Fece un respiro profondo che suonò più come un rantolo. Non era rimasto molto ossigeno.

Aveva funzionato! L'aereo era in aria e lui, se non altro, era dentro l'aereo.

Non era morto, non ancora. Ovviamente era un mujahid, un guerriero santo. Era pronto a morire in qualsiasi momento. Ma in quel momento, Allah aveva ritenuto opportuno che fosse ancora vivo e ancora in grado di lavorare per l'obiettivo prefissato.

Molti probabilmente erano morti per condurlo in quella situazione, ed era consapevole di quei sacrifici. Ma era anche consapevole che da un grande sacrificio derivano grandi responsabilità e forse grandi ricompense.

Cercò la cerniera vicino alla sua vita. Trovò il piccolo cursore e lo tirò lentamente su per il petto e oltre il viso. Una debole luce entrò. Lui sbatté le palpebre. Era chiuso con la cerniera lampo in una spessa borsa di vinile nero, all'interno di una pesante scatola di cartone, che a sua volta era chiusa dentro una cassa della cella frigorifera.

 

Ci sarebbe voluto un po' di lavoro e molto tempo per uscire di lì. Dopo di che, se Allah lo avesse concesso, avrebbe liberato i suoi compatrioti dalle loro tombe congelate.

Il tempo era essenziale, ovviamente, ma sapeva che avrebbero incontrato qualche difficoltà. Le sue mani erano blocchi di ghiaccio congelati. Ma non importava. Il lavoro difficile non lo aveva mai infastidito.

Passo dopo passo, diligentemente, iniziò.

Quaranta minuti dopo, sette uomini (Omar e altri sei) si radunavano nel ventre oscuro del grande aeroplano. Erano tutti usciti da scompartimenti per la carne e alimenti di vario genere. Ogni scompartimento era stato progettato per eludere i cani da ricerca e i rilevatori di metalli ed esplosivi.

Degli otto uomini all'interno dell'aereo, sette erano sopravvissuti. Uno era morto: la morte per esposizione al freddo e mancanza di ossigeno erano state considerate come possibilità reali durante le fasi di pianificazione. Non si sapeva cosa lo avesse ucciso, ma Omar sospettava fosse il freddo. Il suo congelatore sembrava più freddo degli altri e il cadavere era congelato.

Omar conosceva bene gli uomini che erano ancora vivi. Erano per lo più brave persone. Tutti erano coraggiosi. Ed erano molto abili. Con ogni probabilità, sarebbero morti tutti durante quella missione.

Tre uomini indossavano cinture suicide in quel momento, le cinture di pelle rivestite con esplosivo C-4. Gli esplosivi si sarebbero attivati facilmente in risposta a un colpo, a una caduta o all'esposizione al calore. Ciascuno dei tre uomini aveva un accendisigari di plastica per accendere i detonatori, che a loro volta avrebbero fatto esplodere il C-4. Ognuno di loro non avrebbe esitato a farlo.

Questi uomini avevano anche posizionato grosse cariche C-4 contro il portello di carico dell'aereo stesso e contro le pareti appena sotto le ali. Se gli americani non avessero creduto alle loro parole, se avessero pensato a un bluff allora il C-4 sarebbe stato fatto esplodere, facendo esplodere e saltare il portellone, se Allah avesse voluto.

Omar sapeva che al piano di sopra c'erano agenti dei servizi segreti. In una rissa, questi fratelli non avevano speranza di sopraffare quegli agenti altamente addestrati e pesantemente armati. Ma sarebbero riusciti a indurli ad arrendersi senza sparare un colpo?

Sì, una cosa del genere era possibile.

Guardò gli uomini. Tutti lo fissarono.

"Siete pronti a morire?" disse.

"Se è il volere di Allah", disse un uomo.

"È il mio destino".

"Sì", disse semplicemente un altro uomo.

Omar annuì. Sapeva che l'aereo doveva essere vicino ad Haiti ormai. Era il momento.

“Anch'io sono pronto. Auguro la pace di Allah a tutti voi. Prego Allah di accettare i vostri sacrifici come jihad e di aprirvi le porte del paradiso quando il vostro compito in questo regno fisico sarà giunto al termine".

Guardò l'uomo chiamato Siddiq. Siddiq era alto, robusto e forte, ma con una barba rada. I suoi occhi erano spenti e non era l'uomo più brillante del gruppo. Poteva essere impulsivo, vizioso e indisciplinato, come un animale selvatico. Aveva la tendenza ad abusare dei prigionieri lasciati in sua custodia, specialmente delle donne. Poteva infliggere dolore e sofferenza agli altri e credere non che fosse necessario, ma che fosse divertente. Non gli importava se fosse necessario o no.

Siddiq aveva bisogno di una mano ferma per guidarlo. Aveva bisogno di un leader forte per mantenerlo concentrato. Omar sapeva essere quella mano ferma e quel leader forte. Aveva già lavorato con Siddiq. Siddiq con un guinzaglio stretto al collo era un dono di Allah.

Ma senza briglie? Era un problema.

Era meglio tenerlo sotto controllo.

"Invia il segnale radio", gli disse Omar. "Siamo pronti per il contatto con il nemico".

CAPITOLO OTTO

Ore 12:20 fuso orario della Costa Orientale.

Sede della Squadra Speciale

MCLEAN, VIRGINIA

"Guarda un po' chi c'è", disse Ed Newsam.

Luke Stone entrò nella stanza. La riunione era già in corso.

La sala conferenze, quella che Don Morris chiamava il Centro di Comando, consisteva fondamentalmente in un tavolo oblungo di tre metri con un dispositivo vivavoce montato al centro. Ogni pochi metri erano disposte delle porte dati a cui le persone potevano collegare i loro laptop. C'erano due grandi monitor video sul muro.

Trudy Wellington alzò lo sguardo quando Luke entrò.

Indossava una camicetta e pantaloni eleganti, come se il giorno prima non fosse mai tornata a casa dopo il lavoro. Era quasi come se vivesse lì. Indossava degli occhiali dalla montatura rossa. Stava digitando delle informazioni sul laptop di fronte a lei.

"Come facevi a saperlo?" rispose lei.

Luke scosse la testa. “Non lo sapevo. Ho sentito qualcosa, tutto qui, ma c'erano pochissimi dettagli. Doveva essere qualcosa di completamente diverso: un rapimento, non un attacco. Non avrei mai immaginato niente di tutto questo".

Luke pensò alla telefonata che aveva ricevuto. Murphy sapeva qualcosa. Ma si era sbagliato. A meno che questo attacco non fosse in realtà un tentativo di rapimento fallito, le informazioni erano semplicemente sbagliate. Forse Murphy aveva sentito male, o gli era stato tradotto in modo errato. O forse Aahad pensava di sapere cosa stava succedendo, ma quello che sapeva era sbagliato. Impossibile dirlo in quel momento.

Si guardò intorno alla stanza. Il grande Ed Newsam, in blue jeans e una semplice maglietta nera a maniche lunghe che gli abbracciava la parte superiore del corpo, sedeva accasciato in un angolo. Anche Mark Swann si trovava lì, anche lui al computer, e indossava degli auricolari.

Swann era rivolto a Luke in un angolo, probabilmente quel tanto che bastava per individuarlo con la coda dell'occhio. Indossava occhiali da aviatore gialli e una lunga coda di cavallo. La sua maglietta larga recitava L'Ostacolo È La Via. Alzò una mano in segno di saluto, ma non si voltò.

C'erano poche altre persone della Squadra Speciale, chiamate da Trudy non appena ebbe luogo l'attacco.

"Come sta Don?" Disse Luke.

Trudy si strinse nelle spalle. "Chiediglielo tu".

Indicò il congegno vivavoce al centro del tavolo da conferenza. Sembrava un grande polpo nero o una tarantola.

Luke lo guardò. "Don?"

"Come stai, figliolo?" dal ragno uscì una voce metallica. Era distorta e lontana, ma era certamente la voce di Don, con il suo leggero accento del Sud.

"Sto bene. Tu?"

"Va tutto bene! Sono qui con Luis Montcalvo, il governatore del Porto Rico. È svenuto nell'incidente, ma sembra stare bene. Sono all'ospedale di San Juan. In questo momento sono nel corridoio fuori dalla stanza di Montcalvo. Sto per partecipare a una teleconferenza con la Casa Bianca".

"Come sta Margaret?" Disse Luke, un po' sorpreso che Don non l'avesse menzionata.

“Sta bene, grazie a Dio. Un po' scossa emotivamente a quanto mi hanno detto, ma non ferita. Non sono ancora riuscito a parlare con lei. Era in macchina con il presidente. È sull'Air Force One, circondata dai servizi segreti, e l'aereo è già in volo e sta tornando a Washington. Questo mi rassicura. Immagino che prenderò il prossimo People's Express e la raggiungerò non appena riuscirò ad uscire di qui".

"Don non si scuote emotivamente", disse Trudy.

Luke sorrise a metà. "Lo sapevo già".

"Ha un polso rotto e una commozione cerebrale", disse Trudy. “È stato anche messo KO, cosa che ha trascurato di menzionare. Ha rifiutato qualsiasi cura medica, si è soltanto fatto risistemare le ossa del polso".

"Sto bene" disse Don. "Ho già avuto il cranio incrinato, mi hanno sparato ripetutamente e in qualche modo sono ancora qui".

"Penso che fossi un po' più giovane allora", disse Trudy.

Luke sorrise, ma tornò subito serio. Quasi non riusciva a credere a ciò che stava dicendo a Don Morris. Don Morris. Era il suo capo, eppure sembrava sua madre. O la sua amante.

Luke cercò di cambiare argomento. "Quante vittime?"

"Quindici morti secondo l’ultimo conteggio", disse, "decine di feriti, tra cui alcuni feriti in maniera raccapricciante, arti sminuzzati e simili, tipici delle esplosioni in luoghi affollati".

"E' stato uno spettacolo infernale", disse Don. "Un ragazzo si è fatto saltare in aria proprio fuori dalla nostra finestra. Penso che la sua faccia sia rimbalzata sul vetro. Sembrava una faccia. Le auto del corteo presidenziale sono inespugnabili, questo è certo".

Luke scosse la testa. "Hanno catturato qualcuno degli aggressori?"

"Finora", disse Ed Newsam, "sembra che tutti si siano fatti saltare in aria o siano caduti in una pioggia di proiettili. Ma non è sicuro. Potrebbero essercene ancora in libertà. Nessuno sembra sapere nulla".

Luke era entrato di corsa quando Trudy aveva chiamato, ma non vedeva davvero cosa potesse fare l'SRT. L'attacco era avvenuto a cinque ore di distanza in aereo. L'intera faccenda era finita, i terroristi erano morti o in fuga e il presidente, con Margaret al seguito, era al sicuro a bordo dell'Air Force One diretto a casa.

Don e Margaret erano rimasti coinvolti nel fuoco incrociato, e questo era sorprendente, ma sembrava che anche loro stessero bene.

Luke combatté l'impulso di dire: "Perché siamo qui?"

Disse invece: "Don? Cosa ne pensi?"

Don non esitò. “Qualunque cosa sia successa qui oggi, voglio capirci di più. Non mi piace essere fatto saltare in aria, essere l’oggetto di spari e finire ribaltato in una strada. Non accetto che persone innocenti muoiano perché dei fanatici devono dimostrare qualcosa. Non mi piace che il presidente degli Stati Uniti sia un bersaglio di fanatici, soprattutto non quando Margaret è con lui, anche se quel presidente e io non siamo d'accordo su tutte le questioni. Se ci sarà un'azione di risposta, e penso che ci sarà, allora voglio farne parte".

Fece una pausa. "Siete d'accordo?"

Ed Newsam annuì. "Mi sembra giusto".

"Luke?"

Luke annuì. “Certo. Naturalmente".

"Aggressione incontrollata", disse Don. “Non resisteranno. E noi daremo una mano a reprimerla".

Luke aveva le sue ragioni per voler essere coinvolto. Gli era stato dato un indizio di ciò che stava per accadere e non aveva agito di conseguenza. Murph aveva considerato quelle informazioni sufficienti per sacrificare la copertura della sua morte, probabilmente un grande passo per uno come lui, e ancora Luke non aveva agito.

Forse non c'era niente che avrebbe potuto fare, ma la verità era che non ci aveva praticamente provato. In effetti, lui e Trudy ne avevano parlato scherzosamente. Era possibile che questo fosse costato la vita a molte persone. Non voleva soffermarsi su questo, ma non gli stava bene.

"Va bene", disse Don. “Delle persone mi chiamano. Sono quasi pronti per la chiamata alla Casa Bianca. Se si presenta l'opportunità, impegnerò le nostre risorse in questo".

Don stava per riattaccare quando Swann si voltò. Si tolse gli auricolari e guardò tutti nella stanza. Poi fissò il polpo di plastica nera sul tavolo, come preoccupato per la sua presenza. Sembrava quasi allarmato, come se si aspettasse che il polpo iniziasse a muoversi.

“Ho monitorato le comunicazioni dal Pentagono, Langley, dal quartier generale dell'FBI, dalla NSA e dalla Casa Bianca.   Peggio di qualsiasi cosa abbiamo sentito fino ad oggi".

Tutti nella stanza fissarono Swann.

Esitò prima di dire un'altra parola. Continuava a fissare il polpo. Luke si rese conto che stava fissando Don.

"Parla, figliolo", disse Don.

Swann annuì solennemente.

"L'Air Force One è stato dirottato", disse.

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