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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Ma sorto dissidio fra i reggitori provvisori dei quattro nuovi Stati di Toscana, Romagna, Modena e Parma l'ordine ritardava. Il Ricasoli ed il Cipriani, temendo di complicare le cose nostre, decidevano di sconfessare le istruzioni date dal generale Fanti a Garibaldi; ma questi alla loro intimazione, sorretto dal patriottico ardire del Farini, rispondeva fieramente col noto telegramma – "Non ricevo ordini che dai governi riuniti".

Al dissidio fra il Ricasoli e il Fanti essendo seguito anche quello fra il Fanti e Garibaldi; il Re Vittorio Emanuele chiamava presso di sè Garibaldi.

All'invito del Re, Garibaldi si recò subito a Torino e con lui si trattenne a lungo colloquio. – Che cosa il Re abbia raccomandato a Garibaldi non si seppe, ma si potè ben immaginare che erasi elaborato questo piano:

Se attaccato dai mercenari del Papa Garibaldi avrebbe dovuto sgominarli, inseguirli ed occupare le Marche; se le Marche fossero insorte, correre in loro soccorso. Tolto di mezzo il Fanti generale dell'esercito regio, cessava la compromessa del Piemonte; Garibaldi rappresentava la rivoluzione, e nulla si comprometteva da parte del governo, se lui fosse accorso in aiuto degli insorti. Infatti Garibaldi lavorava allo scopo di incitare le Marche alla sommossa, ma queste sventuratamente non davano segno di prepararsi ad un serio movimento insurrezionale – e non potevano neppur tentarlo; basti considerare che le Marche erano occupate da imponenti forze mercenarie al soldo del Papa, e che i migliori patrioti erano stati obbligati ad esiliare; come dovette fare il conte Michele Fazioli, gonfaloniere di Ancona, che si salvò miracolosamente colla fuga da condanna di morte per avere eccitato un tentativo di sommossa.

Il Farini era d'accordo col Fanti, e, come Garibaldi, credeva alla rivoluzione nelle Marche ma voleva la mossa rivoluzionaria. Il Cipriani, reputato fautore di un movimento politico nell'Italia Centrale inteso a favorire il Principe Napoleone, chiamato davanti all'assemblea delle Romagne a dare ragione dei fatti che gli si addebitavano, si dimise; così che L. C. Farini fu chiamato al governo anche di Bologna, Ravenna e Forlì, formando lo Stato unico delle provincie dell'Emilia; la lega dell'Italia Centrale veniva così ricomposta in due Stati: Emilia e Toscana.

Garibaldi intanto persuaso da agenti e da amici che la rivoluzione era imminente, aveva fatto i preparativi per l'occupazione; e mentre al governo della Lega risultava che l'insurrezione era assolutamente priva di base, e solo fissa nella mente di pochissimi esaltati, Garibaldi mandava un telegramma al governo annunziante che la rivoluzione era scoppiata, e che egli stimava suo dovere di accorrere senza altro, come aveva preso impegno, in favore di quei patrioti.

L'animo del Farini, amante delle audaci risoluzioni e devoto a Garibaldi, avrebbe desiderato che l'asserzione della scoppiata rivoluzione fosse vera; ma le informazioni che aveva autentiche la smentivano assolutamente; ed obbligato a ricordarsi che egli era il dittatore dell'Emilia, e che era suo dovere di agire d'accordo col Ricasoli dittatore in Toscana, che ben sapeva che le Marche non erano nella possibilità d'insorgere, dava ordine al generale Fanti di richiamare Garibaldi al dovere, invitandolo a recarsi a Bologna.

Garibaldi ubbidì alla chiamata; gli si fece presente quali pericoli sarebbero derivati alla patria se egli si fosse spinto nelle Marche che non davano segno di sommossa e si cercò di strappargli la promessa che sul momento avrebbe rinunziato all'impresa.

Garibaldi nulla volle promettere, perchè aveva la certezza che le popolazioni marchigiane qualche cosa avrebbero fatto per giustificare il suo intervento.

Allora si fece di nuovo ricorso al Re Vittorio Emanuele, ed il 14 novembre Garibaldi era di nuovo chiamato a Torino.

Il 17 mattino il generale si abboccava col Re, e la sera stessa i giornali davano la notizia che Garibaldi aveva rassegnato le sue dimissioni. Infatti due giorni dopo egli ne dava l'annunzio agli italiani col suo celebre manifesto da Genova, portante la data del 19 novembre 1859.

Eccolo:

"Agli Italiani:

"Trovando, con arti subdole e continue, vincolata quella libertà d'azione che è inerente al mio grado nell'Armata dell'Italia Centrale, onde io usai sempre a conseguire lo scopo, cui mira ogni buon italiano, mi allontano per ora dal militare servizio. Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un'altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della Patria, io ritroverò un'arma qualunque ed un posto avanti ai miei prodi commilitoni.

"La miserabile volpina politica, che turba il maestoso andamento delle cose italiane, deve persuaderci più che mai, che noi dobbiamo serrarci intorno al prode e leale soldato dell'Indipendenza Nazionale, incapace di retrocedere dal sublime e generoso suo proposito; e più che mai preparare oro e ferro per accogliere chiunque tenti tuffarci nelle antiche sciagure.

G. Garibaldi"

Dopo ciò il generale volle annunciare al Re la sua determinazione con questo affettuoso e riverente biglietto:

23 novembre 1859.

Sire,

"Secondo il desiderio della Maestà Vostra, io partirò il 23 da Genova per Caprera, e sarò fortunato quando voglia valersi del mio debole servizio.

"La dimissione mia, chiesta al Governo della Toscana ed al generale Fanti, non è ottenuta ancora. Prego Vostra Maestà si degni ordinare venga ammessa.

"Con affettuoso rispetto di Vostra Maestà

"Devmo "G. Garibaldi"

Ed il prode, insieme ai suoi vecchi amici che vollero dimettersi con lui, Schiaffino, Basso, Froscianti, Elia, Gusmaroli, Stagnetti, Rossi ed il figlio del generale Menotti si ritirarono a Caprera e colà vissero in famiglia, amandosi come fratelli e passando le giornate a fare lavori di muratura per condurre a termine la casa di Garibaldi, a dissodare quella parte di terra dell'isola che si prestava alla coltivazione, a cacciare e pescare per provvedere al loro nutrimento.

Garibaldi era da poco a Caprera quando ricevette una lettera dal colonnello Turr con la quale gli proponeva in nome del Ministro Rattazzi di organizzare la mobilizzazione della guardia nazionale, includendovi i volontari.

Garibaldi rispondeva al Turr dando la sua piena adesione, e il Turr si recava da S. M. il Re con la lettera ricevuta, e dopo di avere conferito col Ministro Rattazzi scriveva al generale di recarsi a Torino.

Garibaldi non indugiò e arrivato a Torino prendeva alloggio all'Hôtel Trombetta.

Il 1o di gennaio i patrioti di Torino Sineo, Bottero, Brofferio, Leardi, Turr ed altri, vollero dare un banchetto al generale e mentre questi siedeva a mensa cogli amici, una immensa folla lo acclama dalla piazza.

Garibaldi dovette affacciarsi e parlare al popolo: disse essere pieno di speranze nell'avvenire della patria; avere fiducia intera nel Re galantuomo e molto confidare nel forte carattere del popolo subalpino; concludendo che egli non avrebbe deposta la spada finchè l'Italia non fosse interamente unita e libera.

Ma la dimostrazione del 2 gennaio organizzata dagli studenti universitari fu anche più imponente. Garibaldi fu costretto a parlare dal balcone dell'Albergo: disse di andare superbo di quella dimostrazione che lo assicurava dello amore della gioventù per l'Italia, pronta a liberarla dal fango nel quale le potenze straniere volevano cacciarla; concludendo così: "Ho chiesto un milione di fucili – ed oggi vi dico che bisogna formare la Nazione armata per essere padroni dei destini della patria nostra".

Questo discorso elettrizzò la gioventù ma ebbe un grave contraccolpo; poichè il giorno appresso tutto il corpo diplomatico protestava presso S. M. il Re contro le parole pronunziate da Garibaldi; e il Ministro fu obbligato a dare le dimissioni, e il generale Garibaldi fece pubblicare dalla Gazzetta del Popolo la seguente sua lettera:

Agli Italiani,

"Chiamato da alcuni miei amici ad assumere la parte di conciliatore fra le frazioni del partito liberale italiano, fui invitato ad accettare la presidenza d'una società che si sarebbe chiamata "La Nazione Armata".

"Credetti potere essere utile; mi piacque la grandezza del concetto ed accettai.

"Ma siccome la Nazione Italiana armata è tal fatto che spaventa quanto c'è di sleale e prepotente tanto dentro che fuori d'Italia, la folla dei moderni gesuiti si è spaventata ed ha gridato; Anatema!

"Il governo del Re galantuomo fu importunato dagli allarmisti, e per non comprometterlo mi sono deciso di desistere dall'onorevole e grande proposito.

"Di unanime accordo con tutti i soci – dichiaro dunque sciolta la società della Nazione armata – ed invito ogni italiano che ami la patria a concorrere alla sottoscrizione per l'acquisto di un milione di fucili.

"Se con un milione di fucili l'Italia in cospetto dello straniero non fosse capace di armare un milione di soldati, bisognerebbe disperare dell'umanità!

"L'Italia si armi e sarà libera"!

Torino 4 gennaio 1860.
G. Garibaldi

Il Conte Benso di Cavour veniva incaricato di formare il nuovo Ministero.

Il 17 gennaio 1860 il colonnello Turr riceveva dal generale Garibaldi la lettera seguente:

Fino 17 del 1860.

Mio caro colonnello Turr

"Vogliate avere la compiacenza di chiedere a S. M. se è deciso di cedere Nizza alla Francia. Questa domanda mi viene fatta molto caldamente dai miei concittadini.

 

Rispondetemi subito per telegrafo. Sì! o no!

G. Garibaldi"

Il colonnello Turr ossequiente al desiderio del generale si recava da S. M. e gli consegnava la stessa sua lettera: ed Egli dopo averla letta disse al Turr: – umh, hum, sì o no– è un po' spiccio, umh! Ebbene sì – ma non telegrafategli – Andate a trovare Garibaldi e ditegli: – "Pare il destino domandi da noi due il più grande sacrificio che uomo possa fare. E se a lui rode il cuore per la sua Nizza deve immaginare il dolore mio per la Savoia, culla della mia famiglia! Ma per fare l'Italia noi due dobbiamo fare questo grande sacrificio.

"Andate a fare questa mia commissione a Garibaldi e ditegli che conto su di lui, come egli può contare su di me per il bene d'Italia".

Il colonnello Turr portò la parola del Re a Garibaldi che si trovava a Fino e che subito si ritirava a Caprera.

Ma non doveva trattenervi a lungo e venne il momento in cui Garibaldi dovette decidersi di passare sul Continente, e s'imbarcò coi suoi fidi compagni.

Arrivato a Genova dopo breve sosta in casa del suo amico Coltelletti, il generale si recava ad alloggiare a Quarto nella Villa Spinola presso il suo vecchio amico e compagno del 1849, Augusto Vecchi.

Gli altri prendevano stanza nella locanda di Raschiani al porto.

Fine del Primo Volume

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