Scettica a Salem

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CAPITOLO SEI

Una settimana dopo la cena dell’Incatramata con piume, Mia finiva finalmente di caricare tutti i bagagli sulla sua vecchia Toyota. L’appartamento che le forniva la produzione dello spettacolo era arredato, quindi aveva già impacchettato e riposto alcune delle sue cose nel garage di Brynn. Era emozionata di mettersi in marcia. Lanciò un fischio a Tandy e tutti e due montarono in macchina.

“Sei pronto, amico?” disse, e abbassò il finestrino per il suo cane, prima di partire e immettersi in strada. Passando fuori da un piccolo bistrò francese, un ricordo le tornò alla mente. Lì servivano il soufflé al cioccolato più delizioso che avesse mai mangiato. Lei e il suo fidanzato Mark se ne erano spartiti una fetta il giorno del suo ultimo compleanno. Ex-fidanzato, si corresse. Non pensare al passato! Resta nel presente. Se l’era ripetuto continuamente mentre si preparava per la sua nuova vita. Erano stati giorni passati a fare bagagli e scatoloni, a compilare carte e a stendere programmi. Ma il lato positivo era che si sentiva sicura di aver ottenuto un nuovo record del mondo. Del resto, quanti riuscivano a perdere il lavoro, il fidanzato e la casa in un giorno, e a ricominciare una nuova vita appena una settimana dopo?

Mentre Fishtown si rimpiccioliva sempre più nello specchietto retrovisore, una nuova sensazione iniziò a farsi spazio dentro di lei: la libertà della strada. Tutto il senso di pazzia degli ultimi giorni si dissolse. Ora Mia era diretta verso il suo futuro. Cosa sarebbe successo al suo arrivo a Salem? Non ne era sicura, ma almeno sarebbe stato tutto nuovo. Anche solo capire i dettagli essenziali, come per esempio dove andare a fare la spesa, sarebbe stata un’ottima distrazione. E nessuno la conosceva a Salem. Le possibilità per reinventare la sua vita erano infinite. Ma la cosa che la entusiasmava di più era il podcast. Aveva lavorato da sola per così tanto tempo. Come sarebbe stato lavorare in una trasmissione, insieme ad altre persone? Graham aveva tenuto la bocca cucita riguardo al team di Libro, campanella e candela, ma Mia ipotizzava che si trattasse di persone con il medesimo interesse. Essere circondata da gente con la sua stessa forma mentis sarebbe stato meraviglioso.

E poi, ciliegina sulla torta, avrebbe abitato a Salem, dove i processi alle streghe erano solo la punta di un immenso iceberg. Non vedeva l’ora di tuffarsi nell’indagine di tutte le storie, i misteri e le leggende della cittadina. Era un tesoro di comportamenti umani e dati scientifici che non aspettava altro che di essere esplorato. Cavolo se era entusiasmante!

Cinque ore dopo, Mia uscì dall’autostrada ed entrò nella piccola cittadina di Salem, nel Massachusetts. Invece di andare direttamente al suo nuovo indirizzo sulla Essex Street, decise di fare un giro fino al porto. Non vedeva il mare da un po’ e Tandy aveva bisogno di sgranchirsi le zampe. La cittadina era graziosa, con strade ampie e vecchi alberi. Le case erano un po’ meno imponenti di quelle a cui era abituata in Pennsylvania, gli edifici meno industriali. C’era una certa atmosfera di contenuto puritanesimo nell’architettura.

Mia sapeva che una delle case più famose della città, la Casa Turner-Ingersoll, era lì vicino. Seguì la segnaletica del percorso storico lungo una strada senza uscita e accostò davanti alla vecchia villa colonica, resa famosa da Nathanial Hawthorne come la Casa dei sette abbaini. Fece uscire Tandy dall’auto e il cane si mise subito ad annusare il nuovo territorio. Mia lo seguì. Si diceva che fossero numerosi i fantasmi che alloggiavano alla Casa Turner-Ingersoll: lo spettro strisciante della scala segreta, il ragazzo fantasma e Susanna Ingersoll, cugina di Nathanial Hawthorne, tanto per cominciare. Mia osservò la vecchia villa, con i suoi tetti spioventi e i camini in mattoni, affacciata sulla spiaggia spazzata dal vento. Ma non ne stava ammirando la bellezza. Fantasticava piuttosto su come poter esaminare la vecchia casa con dei lettori di campi energetici o per mezzo di dispositivi a infrarossi per provare che non c’erano fantasmi.

La casa si ergeva sulla costiera rocciosa di Salem. Giù lungo le scogliere, si scorgeva la marina di Hawthorne Cove, dove le barche erano ormeggiate lungo i moli di legno. Il mare le faceva sempre venire in mente suo padre e i momenti che avevano passato insieme sulla costa del Jersey. Mia conservava ancora una collezione di cartoline: Asbury Park, Seaside Heights, Ocean City, Atlantic City, Wildwood. Frank di solito la portava lungo il pontile, sollevandola spesso sulle sue spalle, leggera come una piuma. Nonostante quello che diceva sua madre, Frank non era esattamente un ciarlatano, almeno Mia non pensava che lo fosse. Era più un affabulatore, uno con la parlantina giusta, un incantatore. A volte faceva un ‘gioco’ dove fingeva di essere qualcun altro, presentandosi come un avvocato, un archeologo o un detective privato. Una volta aveva raccontato a un commesso di essere un legionario straniero. Un’altra volta si era presentato come una specie di hacker. Di solito guardava Mia e le faceva l’occhiolino. Lei rideva e stava al gioco, fino a che un giorno non si lasciò scappare qualcosa con sua madre, scatenando l’inferno.

Il giorno in cui Frank lasciò la città, porto via con sé tutti i suoi nomi. Parlando di quel giorno, sua madre ruotava gli occhi al cielo dicendo che lui era stato il motivo per cui lei aveva dovuto fare due lavori: per mantenerlo dentro ai suoi vestiti eleganti e dentro alla vita di sua figlia. Ma quello che Mia ricordava era un uomo affascinante e divertente con un sorriso sghembo che le arruffava i capelli, la portava sulla ruota panoramica e le faceva l’occhiolino facendole passare ogni paura. Prese in mano un sasso liscio, lo strofinò tra i palmi come Frank le aveva insegnato ed espresse un desiderio. Desidero fare ciò che amo. Poi lanciò la pietra per aria e la guardò cadere sulla spiaggia sottostante.

Sentiva la mancanza di suo padre. Ma chi era veramente Frank Bold? Mia non ne era ancora del tutto sicura. Nessuno sapeva dove si trovasse, né se fosse ancora vivo. Era un mistero che lei non era mai riuscita a risolvere.

Improvvisamente Tandy ringhiò.

“Non dovresti lasciare libero quel tuo cane,” disse una voce scontrosa. Mia si voltò e vide un uomo con i capelli grigi e corti e la pelle rovinata da vento e sole, che teneva in mano degli attrezzi da pesca e un secchio pieno di esche. Nonostante la temperatura piacevole, indossava un maglione di lana roso dalle tarme.

“Mi scusi,” disse Mia. “Non sapevo che qui ci fosse qualcuno.”

“Non sei di queste parti,” disse l’uomo, fissandola con espressione dura.

“No, sono appena arrivata in città,” gli rispose, cercando di essere cortese.

“Ti si sente addosso l’odore della grande città,” disse l’uomo. “Non si può costruire una nave nuova solo con il legno vecchio.” Attraversò la strada e scomparve in fondo al viale, diretto verso il porto.

Cosa vorrebbe dire? Mia lanciò un fischio a Tandy, che saltò in auto. Era arrivato il momento di andare a vedere la loro nuova casa. Seguì Google Maps e arrivò a un’elegante strada fiancheggiata da alberi accanto a un mercato pedonale. Seguì le indicazioni che Graham Stone le aveva dato, svoltando in un vicoletto lastricato e parcheggiò in uno dei quattro posti auto dietro all’edificio.

“Andiamo bello,” disse. Tandy saltò fuori contento e le trotterellò accanto. Mia bussò alla porta di metallo sul retro. Un uomo aprì, vestito con un completo pulito e ben stirato che sapeva di anni Settanta. Aveva il viso rugoso e segnato da linee di espressione.

“Posso aiutarti?” le chiese.

“Sono Mia,” gli disse.

“La ragazza di The Vortex? Ti pensavo più vecchia,” le disse con un sorriso. “Beh, vieni dentro. Mi chiamo Tom Hatter. Sono il padrone di casa.” Si chinò ad accarezzare la testa di Tandy. “Quella è la tua macchina? Lascia che mandi qualcuno a prendere le tue cose per portarle su. Will, ho un lavoro per te!”

“Sì, signor H?” Un ragazzino uscì da dietro alcuni scatoloni. Aveva gambe e braccia troppo lunghe per i vestiti che indossava, e un ricciolo di capelli gli era caduto davanti agli occhi. Tandy scodinzolò.

“Prendi i bagagli di questa signorina dalla sua macchina e portali al 2A.”

“Certo, signor H,” disse Will, scattando verso la porta, per poi correre subito indietro. Mia gli porse le chiavi e lui sorrise timidamente.

“Aspetta che ti faccio fare un giro del posto,” disse Tom, passando attraverso una porta a vento. Entrarono in un negozio pieno di curiosità: poster vintage, Magic 8 Ball, portachiavi e tazze. Sulla vetrina davanti erano dipinte delle lettere che dicevano “L’Emporio di Hatter”.

“Ha un po’ di tutto qui,” disse Mia, ammirando il caos controllato del negozio.

Tom si avvicinò a una mappa appesa alla parete.

“Salem è stata fondata nel 1662. Siamo una piccola cittadina portuale,” disse con la sua voce da presentatore. “Solo cinquanta chilometri quadrati – e per lo più di acqua – e appena una ventina di terra. Siamo anche la città più infestata degli Stati Uniti. C’è l’ospedale di Salem, la prigione di Salem, la casa di Joshua Ward, la collina del patibolo, la casa della strega… cavolo, addirittura questo posto è stregato.”

“Questo edificio? Da chi pensa che sia infestato?” chiese Mia divertita.

“Beh, il capitano Joseph White è stato assassinato proprio in fondo a questa strada. Si dice che i cospiratori, Richard Crowninshield e i fratelli Knapp, siano passati precisamente per questo posto dopo aver finalizzato i loro piani alle Comuni di Salem. Poi Crowninshield lo ha preso a randellate uccidendolo nel sonno. A volte li puoi ancora sentire.”

“Li puoi sentire cosa?”

“I sussurri,” disse Tom, guardandosi sospettoso alle spalle.

“Signor H? Ho messo le valigie fuori dalla porta,” disse Will, chinandosi ad accarezzare Tandy. “Pensi che potrei portarlo a fare una passeggiata ogni tanto?”

 

“Certamente,” disse Mia.  “Puoi anche farmi vedere i dintorni.”

“Ti accompagno al tuo alloggio,” disse Tom. “Will? Tieni d’occhio il negozio.” L’uomo condusse Mia fuori dalla porta d’accesso del negozio, che si affacciava su una piazza aperta, con un bar e una manciata di negozi, molti dei quali sembravano essere di natura occulta.

“Hai il tuo ingresso riservato,” le disse, aprendo la porta con una chiave e salendo su per la scala. Mia e Tandy lo seguirono. In cima alla scala c’erano delle porte numerate. Ruotò la chiave nella serratura dell’appartamento 2A e aprì la porta, rivelando un appartamento piccolo ma grazioso. Mia riconobbe il salotto, la camera da letto e il cucinino che aveva visto nelle foto. Facendo il giro del posto, si accorse di una finestra inclinata.

“Che strana,” disse, indicando la bizzarra architettura.

“Oh, quella è la finestra della strega,” le disse l’uomo. “È inclinata in quel modo così che le streghe non possano volarci attraverso ed entrare.”

Mia lo guardò incuriosita e poi andò in cucina. Il fornello era ovviamente antico e piuttosto confuso. Aveva una grande superficie piatta in mezzo a due fuochi, e quattro porticine sul davanti invece di una sola. Avrebbe dovuto capirlo più tardi.

Qualcuno aveva accuratamente messo uno zerbino a forma di cane sul pavimento con una ciotola piena di acqua e un mazzo di fiori freschi sul tavolino con un bigliettino che sporgeva da sotto.

“È stato il socio di Graham, Ollie Cooper, ha preparare tutto. Ha dato istruzioni che leggessi quel biglietto non appena fossi entrata,” disse Tom sorridendo.

“È meraviglioso, Tom. Devo dire che sono sorpresa che Graham mi abbia offerto un alloggio gratuito. È davvero generoso.”

“Beh,” disse Tom chinandosi verso di lei per parlarle sottovoce. “In realtà Graham è mio figlio. Immagino che Hatter non fosse particolarmente adeguato a lui.”

“Oh!” disse Mia. “Capisco.”

“L’edificio appartiene alla famiglia da generazioni. Gli lascio usare queste stanze per i suoi progetti,” spiegò Tom. “Mi mantengo giovane se sono circondato da giovanotti. Ora ti lascio.” Le fece l’occhiolino e le porse un mazzo di chiavi. Il portachiavi diceva L’emporio di Hatter e mostrava l’immagine di una strega a cavallo di una scopa. “Meglio se tieni chiusa la finestra della strega. Non si sa mai.”

Mia rise e prese le chiavi.

“Ancora una cosa,” disse. “La maniglia della porta a volte si incastra. Devi sollevarla e ruotarla un po’. Altrimenti resti chiusa dentro.” Uscì e si chiuse la porta alle spalle.

Mia accarezzò Tandy arruffandogli il pelo sulla testa. Poi andò dai fiori e prese la busta. Il biglietto diceva:

Benvenuta a Salem!

La riunione inizia alle 17.30 alla Locanda del Gatto Nero.

La Locanda del Gatto Nero? Era il luogo di una famigerata presenza soprannaturale, frequentato un tempo solo da marinai. Si diceva che una donna solitaria si aggirasse nella soffitta, cercando il suo innamorato perduto in mare. C’era un indirizzo e un’annotazione a mano. La Locanda del Gatto Nero non era distante, e la si poteva raggiungere a piedi.

Improvvisamente, Mia sentì bussare leggermente alla porta. Ruotò la maniglia e si trovò davanti una ragazza minuta dall’aria bohemienne. Doveva avere meno di trent’anni, con un viso da elfo e i capelli corti coperti da un berrettino a righe. Tandy le corse subito incontro e iniziò a leccarle la mano. Quello era sempre un buon segno.

“Sono Sylvie Payne,” disse la ragazza con marcato accento del Jersey. “Tecnico del suono.” Si chinò ad accarezza Tandy che scodinzolava freneticamente come se si conoscessero da tempo.

“Per Libro, campanella e candela?”

“Esatto. E sono anche la tua vicina di casa.” Le mostro una chiave che pendeva da un portachiavi simile al suo. “Sono al 2B. Comunque, mi sa che siamo in ritardo per la riunione dello staff. Vuoi che andiamo insieme alla ricerca del Gatto Nero?”

CAPITOLO SETTE

Mentre passeggiava lungo la Essex Street, Mia si sentiva come se fosse appena entrata in una scena di una storia d’epoca. Quando passarono accanto al Lappin Park, videro la scultura stregata, la statua di una strega a cavallo di una scopa, incorniciata dalla luna piena.

“Mi sa che sono seri sulle loro streghe,” disse Mia.

“E sugli stregoni,” aggiunse Sylvie. Passarono accanto a un uomo con un cappotto vittoriano che si stava sistemando i polsini di pizzo.

Attraversarono la strada ed entrarono in un’area lastricata chiusa al traffico delle automobili. Era piena zeppa di bancarelle colorate che offrivano articoli magici e artefatti mistici. Mia notò sfere di cristallo, pentacoli e sacchettini di erbe impilati su dei carri. I turisti si aggiravano tra i negozi mangiando mele caramellate. La porta di un edificio era spalancata e all’interno era in pieno svolgimento una fiera del paranormale traboccante di visitatori. Quando il cielo iniziò a scurirsi, si levò una fresca brezza e dei lampioni vintage si accesero illuminando l’area con il loro bagliore soffuso. Mia rabbrividì: era affascinante, ma inquietante.

“Ascoltavo il tuo show,” disse Sylvie. “Era fantastico, a parte la qualità del suono. Attrezzatura economica, scarsa qualità. Molto semplice.”

“Ho dovuto farmi il mio studio a casa,” disse Mia ridendo. “E non ho mai avuto il lusso di potermi appoggiare a un tecnico del suono. Sinceramente, facevo tutto da sola, e meglio che potevo.”

“Beh, ora tutto questo cambierà. Avrai un intero staff a tua disposizione, e io trasformerò la tua voce in oro che cola.”

Mia sorrise sotto ai baffi. Sylvie era sicura e sfacciata in un modo a cui lei non era abituata. Ma se Tandy già la adorava, tutto sarebbe andato alla grande tra loro. Nel tempo Mia aveva imparato che Tandy era il miglior giudice delle persone che le stavano attorno.

“Penso che sia laggiù,” disse Mia, seguendo la mappa. Mentre passavano sotto a un lampione, quello improvvisamente ebbe uno scatto e si spense. Sylvie sollevò gli occhi e scosse la testa.

“Non preoccuparti del mio poltergeist,” le disse con tono indifferente.

“Il tuo cosa?” chiese Mia, non sicura di aver sentito bene.

“Il mio poltergeist,” disse Sylvie. “Mi segue da anni. Penso sia il mio cugino morto.”

“Quindi pensi che lo spirito di tuo cugino ti stia inseguendo?”

“Senti, so che tu sei una scettica, ma questa cosa mi viene dietro da anni. Le luci si accendono e spengono, i volumi si alzano. È una follia. Sto seriamente pensando di andare da un esorcista.”

Mia mise da parte lo strano fatto tra i suoi pensieri, e quando furono arrivate alla Locanda del Gatto Nero, tenne la porta aperta per Sylvie. Entrarono, passando sotto a un pesante lampadario e accedendo a una stanza con il pavimento in legno e il soffitto decorato da spesse travi. Era impossibile dare un’età precisa alla taverna a primo colpo d’occhio. Il legno era vecchio e scuro, e c’era un ampio caminetto. L’intero ambiente sembrava piuttosto vissuto.

Un paio di persone che sembravano clienti abituali stavano giocando a freccette in un angolo. Uno degli uomini si voltò e fissò Mia. Era il tizio che aveva visto alla casa dei sette abbaini? Mia notò il barista, un orso d’uomo che stava pulendo bicchieri e seguendo con sguardo accigliato la partita a freccette.

Una mano scattò in aria e fece loro cenno di avvicinarsi.

“Ragazze, eccovi qua. Sono Graham.”

Graham Stone si alzò in piedi e sorrise, le braccia aperte. Indossava una camicia colorata praticamente sbottonata fino all’ombelico e una giacca viola. Al collo portava una grossa catena dorata in stile rapper. I capelli erano tagliati alla moda e tenuti dritti con il gel. Considerato il periodo dell’anno, la sua pelle mostrava uno strano colorito aranciato.

Aveva carisma, questo era certo. Ma a Mia dava l’impressione di un venditore di auto usate che stava per venderle un limone. Non era sicura di potersi fidare di lui.

“Lasciate che vi presenti gli altri, qui attorno al tavolo,” disse. “Questo è il mio socio Ollie Cooper, l’uomo dei soldi. Qualsiasi dettaglio del contratto, chiedete a lui.”

“Ho sentito parlare così tanto di te, Mia,” disse Ollie. Era vestito in modo piuttosto conservatore, con una penna d’argento infilata nel taschino. Lui e Graham costituivano un’accoppiata piuttosto improbabile. Mia si rilassò immediatamente quando lo vide. Aveva un’espressione indifesa e un sorriso caloroso. Il fatto che avesse sistemato le cose anche per Tandy già glielo aveva reso simpatico.

“Grazie per preparato tutto anche per il mio cane,” disse Mia con un sorriso.

“Figurati. Vogliamo che tu e…”

“Tandy,” gli disse Mia.

“Sì. Vogliamo che tu e Tandy vi sentiate a casa vostra.” Ollie sorrise. Mia si chiese se conoscesse Vic Tandy.

“Ho già avuto il piacere di conoscere Sylvie,” disse. “Posso offrire a tutte e due qualcosa da bere?” Chiamò la cameriera, mentre Graham continuava con le presentazioni.

“Questo è Jake Lowry, il miglior microfonista sul campo. Sa anche manovrare piuttosto bene una cinepresa. Sarà con noi ogni volta che usciamo dallo studio.”

Jake si alzò in piedi, mostrandosi molto più alto di Graham.

“Piacere di conoscerti,” disse, allungando un braccio tozzo e ricoperto di tatuaggi variopinti. La stretta della sua mano praticamente fagocitò quella di Mia. Si sentì un po’ sorpresa dalla sua stazza, ma la sua stretta di mano era morbida, come se fosse consapevole della sua forza e facesse del proprio meglio per essere delicato.

“Dov’è il segretario?” chiese Graham sbuffando. “Quel diavolo d’un ragazzo. Doveva arrivare presto.”

La porta si spalancò di colpo e Mia fu sorpresa di vedere Will. Il ragazzino corse verso il gruppo, portando una pila di carte. Era senza fiato e lasciò cadere tutto sul tavolo.

“Scusi, signor Stone. Ho dovuto chiudere la cassa prima di andare alla fotocopisteria.” Si lasciò cadere soddisfatto su una sedia, chiaramente emozionato di essere parte dell’organizzazione dello show.

“Ora ci resta solo una persona, e come al solito è in ritardo.”

Mia si chinò verso Sylvie.

“Di chi parla?” sussurrò.

“Il tuo co-presentatore, Johnny Astor,” le rispose. “È proprio un personaggio.”

“Il mio co-presentatore?” disse Mia sorpresa. Sapeva che avere due presentatori era un format piuttosto popolare nei podcast, ma Graham le aveva fatto capire di essere l’unica. “Cosa intendi con un personaggio?”

“Vedrai.”

“Non possiamo aspettare la primadonna,” disse Graham, quindi fece un cenno a Will che gli porse i copioni.

Eccolo lì, proprio sulla copertina: Libro, campanella e candela con Johnny Astor e Mia Bold. Mia si chiese se l’ordine dei loro nomi dicesse niente sul loro status o fosse semplicemente alfabetico.

“Benvenuti allo show. Ormai sapete tutti che mi sono occupato di Ghosted. Ma sapete anche che ho studiato per diventare ingegnere meccanico? È così. Mi annoiavo, quindi mi sono messo a trafficare con gli effetti speciali. Sapete qual è il peccato cardinale dell’intrattenimento? La gente noiosa. Quello che ho imparato dagli effetti è questo: spaventato è l’opposto di annoiato. La gente adora essere spaventata.” Fece una pausa e si guardò attorno, fissandoli uno per uno, permettendo alla sua rivelazione di fare presa nelle loro menti. “Ebbene, siamo uno show serio,” continuò. “Esploreremo i fatti che si trovano dietro ai fenomeni, certo. Cavolo, abbiamo una scettica scientifica proprio qui, pronta a fregarci se dovessimo sgarrare. Ma intendiamo anche costruire tensione. Intendiamo terrorizzare la gente, e il nostro regno del terrore inizia domani sera, proprio qui, con il caso della Locanda del Gatto Nero.”

Domani sera? Come avrebbe potuto andare a regime – analisi del caso, ricerca di spiegazioni alternative – con un solo giorno di preavviso?

“Ma non ho avuto il tempo per indagare,” disse Mia.

“Ti ho prenotato il locale tutto per te domani pomeriggio,” disse Ollie.

In quella la porta si aprì di scatto e fece il suo ingresso un uomo che Mia ipotizzò essere Johnny Astor. Era alto e magro, vestito con jeans neri e una maglietta anch’essa nera. Pure i capelli erano neri, chiaramente tinti. Mentre si avvicinava al tavolo, sorrise con abbagliante senso di autostima.

“Scusate il ritardo,” disse, sedendosi su uno sgabello. “Spero di non essermi perso niente.”

“Graham ci sta spiegando il peccato cardinale,” disse Ollie.

“La gente noiosa?” chiese Johnny, guardando Mia dritta negli occhi. Le tese una mano. “Quindi tu sei Mia Bold. Ho ascoltato The Vortex, o comunque il primo episodio.”

 

Mia arrossì. Il primo episodio? La stava insultando?

Johnny si chinò in avanti e la fissò negli occhi. Aveva iridi verdi e luccicanti, come un prato erboso che brilla dopo la pioggia.

“Senti, senza offesa, ma il tuo show era un po’… asciutto. Cos’è che hai detto dell’Hotel Stanley in Colorado? Quello su cui Stephen King ha modellato The Shining? Ah sì, mi ricordo. Hai attribuito il fenomeno a delle ‘radiazioni naturali provenienti da formazioni rocciose che portavano a picchi dell’energia magnetica sui terreni’ e i gemiti che gli ospiti sentivano erano ‘versi di alci che si chiamavano durante la notte’? Ho dovuto praticamente fare il contorsionista per seguire il tuo discorso. Voce fantastica, comunque.” Le sorrise di nuovo, come un fascio di luce capace di distogliere l’attenzione dalle sue parole ingiuriose.

Mia non poteva credere a quanto fosse altezzoso quell’uomo. La gente gli permetteva sempre di passarla liscia con quel suo comportamento?

“Tu da cosa pensi siano stati causati i fenomeni allo Stanley?” gli chiese sbuffando. “Hai una teoria sulle apparizioni? Il piano? Le voci disincarnate dei bambini?”

“Beh, i fantasmi ovviamente,” disse Johnny. “Il rasoio di Occam: la spiegazione più semplice è generalmente quella giusta.”

Mia rimase a bocca aperta. Non c’era da stupirsi che nessuno le avesse parlato di questo tizio. Era il peggiore esempio di pazzo cospiratore, di quelli che usavano il loro intelletto come strumento per portare avanti teorie folli.

“I fantasmi? Il metodo scientifico richiede un maggiore scrutinio,” disse indignata. “È così che intendi indagare sui fenomeni: attribuendo tutto a una leggenda primitiva che non spiega proprio niente?”

Ollie alzò le mani come un arbitro.

“Ok, voi due,” disse. “Magari basta che diamo un’occhiata al copione. Ovviamente gli darete vita con le vostre opinioni. Ma vediamo com’è la struttura.”

“Io vedo già che ne verrà fuori un podcast emozionante,” disse Graham, strofinandosi le mani compiaciuto. “Ma risparmiamo le scintille per domani.”

Improvvisamente nella stanza calò il silenzio. I giocatori di freccette smisero di lanciare freccette e gli uomini al bancone posarono i loro bicchieri e si voltarono a guardare. Tutti stavano udendo la stessa cosa: passi lenti, pesanti e metodici che si muovevano sul soffitto. Tum, tum, tum. Mia si sentì rizzare i capelli alla base della nuca.

“È un fantasma!” gridò Johnny eccitato. “Nella nostra prima serata insieme!”

Mia lo fissò incredula. “Non possiamo sapere che…”

“È tipica attività da poltergeist allo stadio due,” disse Johnny. “Passi sul soffitto, colpi, rumori forti.”

“Ma dobbiamo indagare la cosa,” disse Mia irritata. “È questo il senso dello show.” Mia alzò gli occhi verso il soffitto. Molto opportuno che un fantasma si fosse presentato così, neanche a farlo apposta. C’era solo un modo per scoprire la verità. Johnny Astor poteva anche essere un credulone, ma lei avrebbe indagato e sarebbe andata a fondo in quella storia del ‘fantasma’ alla Locanda del Gatto Nero.

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