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L'innocente

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XVI.

Chi saprà mai rendere con le parole quel senso di aridità desolata e di stupore, che resta nell’uomo dopo uno spargimento inutile di pianto, dopo un parosismo d’inutile disperazione? Il pianto è un fenomeno passeggero, ogni crisi deve risolversi, ogni eccesso è breve; e l’uomo si ritrova esausto, quasi direi disseccato, più che mai convinto della propria impotenza, corporalmente stupido e triste, d’innanzi alla realtà impassibile.

Io primo terminai di piangere; io primo riebbi negli occhi la luce; io primo feci attenzione alla positura della mia persona, a quella di Giuliana, alle cose circostanti. Eravamo ancóra in ginocchio l’uno di fronte all’altra, sul tappeto; e ancóra qualche singulto scoteva Giuliana. La candela ardeva sul tavolo, e la fiammella si moveva a quando a quando come inchinata da un soffio. Nel silenzio il mio orecchio percepì il piccolo rumore d’un orologio che doveva essere nella stanza, posato in qualche luogo. La vita scorreva, il tempo fuggiva. La mia anima era vuota e sola.

Passata la veemenza del sentimento, passata quell’ebrietà di dolore, le nostre attitudini non avevano più significato, non avevano più ragion d’essere. Bisognava che io mi alzassi, che io sollevassi Giuliana, che io dicessi qualche cosa, che quella scena avesse una chiusura definitiva; ma io provavo per tutto ciò una strana ripugnanza. Mi pareva di non essere più capace del minimo sforzo materiale e morale. M’incresceva di trovarmi là, in quelle necessità, in quelle difficoltà, costretto a quella continuazione. E una specie di rancore sordo incominciò a muoversi vagamente in fondo a me, contro Giuliana.

M’alzai. L’aiutai ad alzarsi. Ciascun singulto, che ancóra a quando a quando la scoteva, aumentava in me quel rancore inesplicabile.

È proprio vero dunque che qualche parte d›odio si cela in fondo ad ogni sentimento che accomuna due creature umane, cioè che ravvicina due egoismi. È proprio vero dunque che questa parte d›odio immancabile disonora sempre i nostri più teneri abbandoni, i nostri migliori impeti. Tutte le belle cose dell›anima portano in loro un germe di corruzione latente, e devono corrompersi.

Io dissi (e temevo che la voce mio malgrado non fosse a bastanza dolce):

– Càlmati, Giuliana. Ora bisogna che tu sii forte. Vieni, siedi qui. Càlmati. Vuoi un poco d›acqua da bere? Vuoi qualche cosa da odorare? Dimmi tu.

– Sì, un poco d›acqua. Cerca là, nell›alcova, sul tavolo da notte.

Ella aveva ancóra una voce di pianto; e si asciugava la faccia con un fazzoletto, seduta su un divano basso, di contro al grande specchio d›un armario. Il singulto le durava ancóra.

Entrai nell›alcova per prendere il bicchiere. Nella penombra scorsi il letto. Era già preparato: un lembo delle coperte era rialzato e discostato, una lunga camicia bianca era posata presso il guanciale. Sùbito il mio senso acuto e vigile percepì il fievole odore della batista, un odore svanito d›ireos e di mammola che conoscevo. La vista del letto, l›odore noto mi diedero un turbamento profondo. In fretta versai l›acqua ed uscii per portare il bicchiere a Giuliana che aspettava.

Ella bevve qualche sorso, a riprese, mentre io, in piedi davanti a lei, la guardavo notando l›atto della sua bocca. Disse:

– Grazie, Tullio.

E mi rese il bicchiere non vuotato se non a metà. Come avevo sete, io bevvi il resto dell›acqua. Bastò quel piccolo fatto irriflessivo per aumentare in me il turbamento. Sedetti anch›io sul divano. E tacemmo, ambedue assorti nel nostro pensiero, separati da un breve spazio.

Il divano con le nostre figure si rifletteva nello specchio dell›armario. Senza guardarci noi potevamo vedere i nostri volti ma non bene distinti perché la luce era scarsa e mobile. Io consideravo fissamente nel fondo vago dello specchio la figura di Giuliana che prendeva a poco a poco nella sua immobilità un aspetto misterioso, l›inquietante fascino di certi ritratti feminili oscurati dal tempo, l›intensa vita fittizia degli esseri creati da una allucinazione. Ed accadde che a poco a poco quell›imagine discosta mi sembrò più viva della persona reale. Accadde che a poco a poco in quell›imagine io vidi la donna delle carezze, la donna di voluttà, l›amante, l›infedele.

Chiusi gli occhi. L›Altro comparve. Una delle note visioni si formò.

Io pensavo: «Ella non ha finora mai alluso direttamente alla sua caduta, al modo della sua caduta. Una sola frase significante ella ha proferito: – Credi tu che la colpa sia grave, quando l’anima non consente? – Una frase! E che ha voluto ella significare? Si tratta d’una delle solite distinzioni sottili che servono a scuotere e ad attenuare tutti i tradimenti e tutte le infamie. Ma, insomma, quale specie di relazione è corsa tra lei e Filippo Arborio, oltre quella carnale innegabile? E in quali circostanze ella s’è abbandonata?». Un’atroce curiosità mi pungeva. Le suggestioni mi venivano dalla mia stessa esperienza. Mi tornavano alla memoria, precise, certe particolari maniere di cedere usate da alcune delle mie antiche amanti. Le imagini si formavano, si mutavano, si succedevano lucide e rapide. Rivedevo Giuliana, quale l’avevo veduta in giorni lontani, sola nel vano d’una finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell’attitudine di chi sia per venir meno, mentre un’alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passava ne’ suoi occhi troppo neri. – Era stata sorpresa da colui in uno di quei languori, nella mia casa stessa, ed aveva patita la violazione in una specie d’inconsapevolezza, e risvegliandosi aveva provato orrore e disgusto dell’atto irreparabile, e aveva scacciato colui e non l’aveva più riveduto? Oppure aveva consentito a recarsi in qualche luogo segreto, in un piccolo appartamento remoto, forse in una delle camere mobiliate per ove passano le sozzure di cento adulterii, e aveva ricevuto e prodigato sul medesimo guanciale tutte le carezze, non una sola volta, ma più volte, ma molti giorni di seguito, ad ore stabilite, nella sicurtà procuratale dalla mia incuranza? – E rividi Giuliana davanti allo specchio nel giorno di novembre, la sua attitudine nell’appuntare il velo al cappello, il colore del suo abito, e poi il suo passo leggero «sul marciapiede dalla parte del sole». Quella mattina era andata a un ritrovo forse?

Io soffrivo una tortura senza nome. La smania di sapere mi torceva l’anima; le imagini fisiche mi esasperavano. Il rancore contro Giuliana diveniva più acre; e il ricordo delle voluttà recenti, il ricordo del letto nuziale di Villalilla, quel che di lei m’era rimasto nel sangue, alimentavano una cupa fiamma. Dalla sensazione che mi dava la vicinanza del corpo di Giuliana, da uno speciale tremito io m’accorsi che ero già caduto in preda alla ben nota febbre della gelosia sessuale e che per non cedere a un impeto odioso bisognava fuggire. Ma la mia volontà pareva colpita da paralisi; io non ero padrone di me. Rimanevo là, tenuto da due forze contrarie, da una repulsione e da una attrazione interamente fisiche, da una concupiscenza mista di disgusto, da un oscuro contrasto che io non potevo sedare perché si svolgeva nell’infimo della mia sostanza bruta.

L’Altro, dall’istante in cui era comparso, era rimasto di continuo innanzi a me. Era Filippo Arborio? Avevo proprio indovinato? Non m’ingannavo?

Mi voltai verso Giuliana all’improvviso. Ella mi guardò. La domanda repentina mi rimase strozzata nella gola. Abbassai gli occhi, piegai il capo: e, con la stessa tensione spasmodica che avrei provato nello strapparmi da una parte del corpo un lembo di carne viva, osai chiedere:

– Il nome di quell’uomo?

La mia voce era tremante e roca, e faceva male a me medesimo.

Alla domanda inaspettata, Giuliana trasalì; ma tacque.

– Non rispondi? – incalzai, sforzandomi di comprimere la collera che stava per invasarmi, quella collera cieca che già la notte innanzi nell’alcova era passata sul mio spirito come una raffica.

– Oh mio Dio! – ella gemette angosciosamente, abbattendosi sul fianco, nascondendo la faccia in un cuscino. – Mio Dio, mio Dio!

Ma io volevo sapere; io volevo strapparle la confessione ad ogni costo.

– Ti ricordi – seguitai – ti ricordi tu di quella mattina che entrai nella tua stanza all’improvviso, su i primi di novembre? Ti ricordi? Entrai non so perché: perché tu cantavi. Cantavi l’aria di Orfeo. Eri quasi pronta per uscire. Ti ricordi? Io vidi un libro su la tua scrivania, l’apersi, lessi sul frontespizio una dedica… Era un romanzo: Il Segreto… Ti ricordi?

Ella rimaneva abbattuta sul cuscino, senza rispondere. Mi chinai verso di lei. Tremavo d’un ribrezzo simile a quello che precede il freddo della febbre. Soggiunsi:

– È forse colui?

Ella non rispose, ma si sollevò con un impeto disperato. Pareva demente. Fece l’atto di gettarsi su di me, poi si trattenne.

– Abbi pietà! Abbi pietà! – proruppe. – Lasciami morire! Questo che tu mi fai soffrire è peggiore di qualunque morte. Tutto ho sopportato, tutto potrei sopportare; ma questo non posso, non posso… Se io vivrò, sarà per noi un martirio di tutte l›ore, ed ogni giorno più sarà terribile. E tu mi odierai: tutto il tuo odio mi verrà sopra. Lo so, lo so. Ho già sentito l›odio nella tua voce. Abbi pietà! Lasciami prima morire!

Pareva demente. Aveva il bisogno smanioso di aggrapparsi a me; e, non osando, si torceva le mani per trattenersi, con un orgasmo di tutta la persona. Ma io la presi per le braccia, l›attirai a me.

– Non saprò dunque nulla? – le dissi quasi su la bocca, divenuto anch›io demente, incitato da un istinto crudele che rendeva rudi le mie mani.

– T›amo, t›ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest›inferno un minuto di debolezza, intendi? un minuto di debolezza… È la verità. Non senti che è la verità?

Ancóra un attimo lucido; e poi l’effetto d’un impulso cieco, selvaggio, inarrestabile.

 

Ella cadde sul cuscino rovescia. Le mie labbra soffocarono il suo grido.

XVII.

Molte cose quella stretta violenta aveva soffocate. «Selvaggio! Selvaggio!» Io rivedevo le lacrime mute che avevano riempito a Giuliana il cavo degli occhi; riudivo il rantolo ch’ella aveva emesso nel sussulto supremo, un rantolo d’agonizzante. E mi ripassava per l’anima un’onda di quella tristezza, non somigliante a nessun’altra, che dopo l’atto m’era piombata sopra. «Ah, veramente selvaggio!» La prima suggestione del delitto non era entrata in me proprio allora? Non s’era affacciata alla mia conscienza, durante la furia, un’intenzione micidiale?

E ripensavo alle amare parole di Giuliana: «Ho la vita tenace». Non la tenacità della sua vita mi pareva straordinaria ma quella dell’altra vita ch’ella portava dentro; e contro quella appunto io m’esasperavo, contro quella incominciavo a macchinare.

Non erano ancóra manifesti nella persona di Giuliana i segni esterni: l’allargamento dei fianchi, l’aumento del volume nel ventre. Ella si trovava dunque ancóra ai primi mesi: forse al terzo, forse al principio del quarto. Le aderenze che univano il feto alla matrice dovevano esser deboli. L’aborto doveva essere facilissimo. Come mai le violente commozioni della giornata di Villalilla e di quella notte, gli sforzi, gli spasimi, le contratture, non l’avevano provocato? Tutto m’era avverso, tutti i casi congiuravano contro di me. E la mia ostilità diveniva più acre.

Impedire che il figlio nascesse era il mio segreto proposito. Tutto l’orrore della nostra condizione veniva dalla antiveggenza di quella natività, dalla minaccia dell’intruso. Come mai Giuliana, al primo sospetto, non aveva tentato ogni mezzo per distruggere il concepimento infame? Era stata ella trattenuta da un pregiudizio, da una paura, da una ripugnanza instintiva di madre? Aveva ella un senso materno anche per il feto adulterino?

E io consideravo la vita avvenire, divinata con una specie di chiaroveggenza. – Giuliana dava alla luce un maschio, unico erede del nostro antico nome. Il figliuolo non mio cresceva, incolume; usurpava l’amore di mia madre, di mio fratello; era careggiato, adorato a preferenza di Maria e di Natalia, delle mie creature. La forza dell’abitudine quietava i rimorsi in Giuliana, ed ella si abbandonava al suo sentimento materno, senza ritegno. E il figliuolo non mio cresceva protetto da lei, per le cure assidue di lei; si faceva robusto e bello; diveniva capriccioso come un piccolo despota; s’impadroniva della mia casa. – Queste visioni a poco a poco si particolarizzavano. Certe rappresentazioni fantastiche assumevano il rilievo e il movimento di una scena reale; e qualche tratto d’una tal vita fittizia s’imprimeva così forte nella mia conscienza da restarvi notato per un certo tempo con tutti i caratteri di una realtà. La figura del fanciullo era infinitamente variabile; i suoi atti, i suoi gesti erano diversissimi. Ora io me lo figuravo esile, pallido, taciturno, con una grossa testa pesante inchinata sul petto; ora tutto roseo, rotondo, gaio, loquace, pieno di vezzi e di blandizie, singolarmente amorevole verso di me, buono; ora invece tutto nervi, bilioso, un po’ felino, pieno d’intelligenza e d’istinti malvagi, duro con le sorelle, crudele verso gli animali, incapace di tenerezze, indisciplinabile. A poco a poco questa ultima figurazione si sovrappose alle altre, le eliminò permanendo, si raffermò in un tipo preciso, si animò di una intensa vita fittiva, prese perfino un nome: il nome già da tempo stabilito per l›erede mascolino, il nome di mio padre: Raimondo.

Il piccolo fantasma perverso era una emanazione diretta del mio odio; aveva contro di me la stessa inimicizia che io avevo contro di lui; era un nemico, un avversario col quale stavo per impegnare la lotta. Egli era la mia vittima ed io ero la sua. Ed io non potevo sfuggirgli, egli non poteva sfuggirmi. Eravamo ambedue chiusi in un cerchio d›acciaio.

I suoi occhi erano grigi come quelli di Filippo Arborio. Tra le varie espressioni del suo sguardo una mi colpiva più spesso, in una scena imaginaria che ogni tanto si ripeteva. La scena era questa: – Io entrava senza sospetto in una stanza immersa nell›ombra, piena d›un silenzio singolare. Credevo d›esser solo, là dentro. A un tratto, volgendomi, m›accorgevo della presenza di Raimondo che mi guardava fiso con i suoi occhi grigi e malvagi. M›assaliva subitamente la tentazione del delitto, così forte che, per non gittarmi sul piccolo essere malefico, fuggivo.

XVIII.

Il patto dunque tra me e Giuliana pareva concluso. Ella viveva. Ambedue seguitavamo a vivere simulando, dissimulando. Avevamo, come i dipsomani, due vite alterne: una tranquilla, tutta composta di dolci apparenze, di tenerezze filiali, di affetti puri, di atti benigni; l’altra agitata, febrile, torbida, incerta, senza speranza, dominata dall’idea fissa, incalzata sempre da una minaccia, precipitante verso una catastrofe ignota.

Io avevo qualche raro momento in cui l’anima, sfuggendo all’assedio di tante cattive cose, liberandosi dal male che la avvolgeva come di mille tentacoli, si slanciava con un grande anelito verso l’alto ideale di bontà più volte intraveduto. Mi tornavano alla memoria le singolari parole di mio fratello dette sul limite del bosco d’Assòro, riguardanti Giovanni di Scòrdio: «Farai bene, Tullio, a non dimenticare quel sorriso». E quel sorriso su la bocca appassita del vecchio prendeva un significato profondo, diventava straordinariamente luminoso, m’esaltava come la rivelazione d’una suprema verità.

Quasi sempre, in quei rari momenti, un altro sorriso mi riappariva: quello di Giuliana ancóra inferma su i guanciali, il sorriso impreveduto che «s’attenuava, s’attenuava senza estinguersi». E il ricordo del lontano pomeriggio quieto in cui avevo inebriato d’un’ebrezza ingannevole la povera convalescente dalle mani così bianche; il ricordo della mattina in cui ella s’era levata per la prima volta e a mezzo della stanza m’era caduta fra le braccia ridendo e ansando; il ricordo del gesto veramente divino con cui ella m’aveva offerto l’amore, l’indulgenza, la pace, il sogno, l’oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, mi davano rimpianti e rimorsi senza fine disperati. La dolce e terribile domanda che Andrea Bolkonsky aveva letto sul viso estinto della principessa Lisa, io la leggevo di continuo sul viso ancor vivente di Giuliana: «Che avete fatto di me?». Nessun rimprovero era uscito dalla sua bocca; per diminuire la gravità della sua colpa ella non aveva saputo rinfacciarmi nessuna delle mie infamie, ella era stata umile d’innanzi al suo carnefice, non una stilla di amaro aveva inasprito le sue parole; eppure i suoi occhi mi ripetevano: «Che hai tu fatto di me?».

Uno strano ardore di sacrificio m’infiammava subitamente, mi spingeva ad abbracciare la mia croce. La grandezza dell’espiazione mi pareva degna del mio coraggio. Mi sentivo una sovrabbondanza di forze, l’anima eroica, l’intelletto illuminato. Andando verso la sorella dolorosa, io pensavo: «Troverò la buona parola per consolarla, troverò l’accento fraterno per mitigare il suo dolore, per rialzare la sua fronte». Ma, giunto alla presenza di lei, non parlavo più. Le mie labbra parevano premute da un suggello infrangibile; tutto il mio essere pareva colpito da un malefizio. La luce interiore si spengeva a un tratto, come per un soffio gelido, d’ignota origine. E nella oscurità incominciava a muoversi, vagamente, quel sordo rancore che io già troppo conoscevo e non potevo reprimere.

Era l’indizio d’un accesso. Balbettavo qualche parola, smarrito, evitando di guardare Giuliana negli occhi; e andavo via, fuggivo.

Più d’una volta rimasi. Perdutamente, quando l’orgasmo diventava insostenibile, io cercavo la bocca di Giuliana; ed erano baci prolungati fino alla soffocazione, erano strette quasi rabbiose, che ci lasciavano più affranti, più tristi, divisi da un abisso più cupo, avviliti da una macchia di più.

«Selvaggio! Selvaggio!» Un’intenzione micidiale era in fondo a quegli impeti, un’intenzione che non osavo confessare a me stesso. – Se una volta alfine le contratture dello spasmo, in una di quelle strette, avessero distaccato dalla matrice il germe tenace! – Io non consideravo il mortale pericolo a cui esponevo Giuliana. Era evidente che, se un caso simile fosse avvenuto, la vita della madre avrebbe corso un grave rischio. Ebbene io da prima, nella mia demenza, non pensai se non alla probabilità di distruggere il figlio. Soltanto più tardi considerai che l’una vita era schiava dell’altra e che con i miei folli tentativi insidiavo l’una e l’altra insieme.

Giuliana infatti, che forse sospettava di quali elementi ignobili si formasse il mio desiderio, non mi resisteva. Le mute lacrime dell’anima calpestata non più le riempivano il cavo degli occhi. Ella rispondeva al mio ardore con un ardore quasi lugubre. Veramente ella aveva talvolta «sudori d’agonizzante e aspetti di cadavere», che mi atterrivano. E una volta mi gridò, fuori di sé, con la voce soffocata:

– Sì, sì, uccidimi!

Compresi. Ella sperava la morte, l’aspettava da me.

XIX.

Era incredibile la sua forza nel dissimulare, alla presenza degli inconsapevoli. Ella riusciva ancóra a sorridere! I noti timori per la salute di lei mi davano modo di giustificare certe tristezze che non sapevo nascondere. Tali timori appunto, comuni a mia madre e a mio fratello, facevano sì che nella casa la nuova concezione non fosse festeggiata come le altre e fossero evitati i soliti pronostici ed ogni discorso allusivo. Ed era fortuna.

Ma giunse finalmente alla Badiola il dottor Vebesti.

La sua visita fu rassicurante. Egli trovò Giuliana molto indebolita, osservò in lei qualche disordine nervoso, l’impoverimento del sangue, un disturbo nutritivo generale dell’organismo; ma affermò che il processo della gravidanza non presentava anomalie notevoli e che, migliorate le condizioni generali, anche il processo del parto avrebbe potuto compiersi regolarmente. Inoltre egli mostrò di confidar molto nella tempra eccezionale di Giuliana, dalla quale anche pel passato aveva avuto prove straordinarie di resistenza. Ordinò una cura igienica e dietetica atta a ricostituirla, approvò il soggiorno alla Badiola, raccomandò il metodo, l’esercizio moderato, la tranquillità di spirito.

– Conto specialmente su voi – mi disse, con serietà. Io rimasi deluso. Avevo riposta in lui una speranza di salvezza ed ecco, la perdevo. Prima del suo arrivo, avevo sperato: «Se dichiarasse necessario, per guarentire la madre, sacrificare il figlio ancóra informe e non vitale! Se dichiarasse necessario provocare ad arte l’aborto per evitare la catastrofe sicura all’epoca della maturità!… Giuliana sarebbe salva, guarirebbe; ed io anche sarei salvo, mi sentirei rinascere. Credo che potrei quasi dimenticare, o, almeno, rassegnarmi. Il tempo chiude tante piaghe e il lavoro consola di tante tristezze. Credo che potrei conquistare la pace, a poco a poco, ed emendarmi, seguire l’esempio di mio fratello, diventar migliore, diventare un Uomo, vivere per gli altri, abbracciare la religione nuova. Credo che potrei ritrovare in questo stesso dolore la mia dignità. – L’uomo a cui è dato soffrire più degli altri, è degno di soffrire più degli altri. – Non è un versetto del vangelo di mio fratello? C’è dunque una elezione di dolore. Giovanni di Scòrdio, per esempio, è un eletto. Chi possiede quel sorriso possiede un dono divino. Credo che potrei meritare quel dono…». Avevo sperato. Contraddicendo al mio fervore espiatorio, avevo sperato in una diminuzione di pena!

In fatti, volendo rigenerarmi nella sofferenza, avevo paura di soffrire: un’atroce paura d’affrontare il vero dolore. La mia anima era già sfinita; e, pur avendo intraveduta la grande via ed essendo agitata da aspirazioni cristiane, si metteva per un sentiero obliquo in fondo al quale era l’abisso inevitabile.

Parlando col dottore, mostrando un po’ d’incredulità per le sue previsioni rassicuranti, mostrando qualche inquietudine, io trovai il modo di esporgli il mio pensiero. Gli feci intendere che desideravo allontanato per Giuliana il pericolo a qualunque costo e che, se fosse stato necessario, avrei rinunziato al terzogenito senza rammarico. Lo pregai di non nascondermi nulla.

Egli di nuovo mi rassicurò. Mi dichiarò che, anche in un caso disperato, non avrebbe ricorso all’aborto perché, nelle condizioni in cui trovavasi Giuliana, una emorragia sarebbe stata perniciosissima. Mi ripeté che bisognava anzitutto promuovere e sostenere la rigenerazione del sangue, ricostruire l’organismo infiacchito, cercare con ogni mezzo che l’incinta giungesse all’epoca del parto restaurata di forze, fiduciosa, tranquilla. Soggiunse:

 

– Credo che la signora abbia specialmente bisogno di consolazioni morali. Io sono un vecchio amico. So che ella ha molto sofferto. Voi potrete sollevarla.

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