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Il fanciullino(1897)

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XIII.

La poesia benefica di per sé, la poesia che di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l’umanità, è, dunque, la poesia pura, la quale di rado si trova. In Italia poi, che è la mia patria (non la tua, o fanciullo: tu sei del mondo, non sei d’ora ma di sempre), in Italia è più rara che altrove. Invero non mai da noi fu amata la poesia elementare e spontanea. Come in genere la nostra letteratura, così in ispecie la nostra poesia ha avuto innanzi sé dei modelli. Noi abbiamo specchiato il nostro stile nell’arte latina, come i latini avevano fatto coi greci. Ciò può aver giovato a dare concretezza e maestà alle nostre scritture; ma quanto a poesia, ciò l’ha soffocata; la poesia non si fa sui libri. Poi amiamo troppo l’ornamentazione; e questo gusto lo dimostriamo specialmente in ciò che meno lo comporta: nella poesia.

Il fanciullino italico non ruzza che ben vestito e ben pettinato: le noci con le quali fa a filetto, devono essere coperte di carta d’oro e d’argento. Noi vogliamo farci sempre onore: invece di badare al giuoco, badiamo a noi: ci stiamo a sentire e ammicchiamo alla nostra ombra. E anche più che a noi, badiamo al pubblico: guardiamo con la coda dell’occhio i grandi che stanno a vederci; e così facciamo tutto senza garbo e senza scioltezza. E siccome, particolarmente ai nostri giorni, tutto da noi si fa a concorso e tutto si dà all’asta e tutto si conclude con la aggiudicazione e la premiazione, così ci proponiamo, più che altro, di sopraffare l’un l’altro e di conquistarci con qualche grazietta il favore dei giudici. Nei giochi dei nostri fanciulli, c’entra per molta parte la gherminella che è cosa da attempati. Sono troppo scaltriti, i nostri fanciulli, e cercano meglio di essere primi, che di esser loro. Perciò la nostra poesia (per chiamarla così) è per lo più d’imitazione, anzi di collezione, e sa di lucerna, non di guazza e d’erba fresca. Noi studiamo troppo, per poetare; ed è superfluo aggiungere che, per sapere, studiamo troppo poco. Mettiamo lo studio ove non c’entra.

O come? Non c’entra nel poetare lo studio? Sì, ma diretto al fine, che Dante mostrò. Virgilio, che è lo studio, conduce Dante a Matelda che è l’arte; l’arte in genere e in ispecie. L’arte di Dante è appunto la poesia. Dunque lo studio condusse Dante alla poesia. Ebbene, Matelda, o la poesia, è nel giardino dell’innocenza, sceglie cantando fior da fiore, ha gli occhi luminosi, purifica nei fiumi dell’oblio e della buona volontà. Ossia, il poeta, mercé lo studio, è riuscito a ritrovare la sua fanciullezza, e puro come è, vede bene e sceglie senza alcuna fatica, sceglie cantando, i fiori che pare spuntino avanti i suoi piedi.

Io, senza insistere sul valore morale del mito tanto esatto e bello, dico, interpretando il poeta per il rispetto artistico, che lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima; ed essere soli tra noi e noi. Lo studio deve togliere le scorie al puro cristallo che noi troviamo quasi casualmente; e quel cristallo pur con le scorie val più d’un vetro che noi dilatiamo e formiamo soffiando.

Lo studio deve rifarci ingenui, insomma, tal quale Dante figura sé come avanti Beatrice così rispetto a Matelda; che se dall’una è sgridato e fatto piangere e vergognare come fanciullo battuto, dall’altra è, come bambino che non vuole o non può fare da sé, preso e tuffato nell’acqua e menato a bere alla fonte. Lo studio deve togliere gli artifizi, e renderci la natura. Così dice Dante. La sua arte è impersonata in Matelda, che è la natura umana primordialmente libera, felice, innocente.

XIV.

Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti. Noi imitiamo troppo. E sì, che studiando si deve imparare a far diverso, non lo stesso. Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci a credere di fare meglio. Perciò sovente ci pare che, incastonando la gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo, quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra.

Noi non gettiamo più il martello contro i blocchi di marmo: ci accontentiamo di pulire e lustrare le statue belle e fatte. Al più al più, noi facciamo l’arte di Giovanni da Udine: eleganti stucchi: ma non ricordiamo quel che Giovanni disse, mi pare, a Pietro Aretino che ne lo ammirava: Bambocci vogliono essere!

E le scuole ci legano. Le scuole sono fili sottili di ferro, tesi tra i verdi mai della foresta di Matelda: noi, facendo i fiori, temiamo a ogni tratto d’inciampare e cadere. L’ho già detto: se uno si abbandona alle delizie della campagna, teme che lo chiamino arcade; se un altro si vede avanti un’antitesi, sta un pezzo tra il sì e il no, temendo d’essere chiamato secentista. Mentre la mandra degli imitatori si butta alla rinfusa dietro qualche ariete maggiore, e tutti si mettono a belare o mugliare a un modo; sì che in certi tempi pare che gl’italiani (giudicandoli da quelli che scrivono in versi) non abbiano che l’amica, in certi altri non abbiano che la mamma; i poeti veri sono pieni del contrario affetto: vogliono cioè non essere imbrancati né nel verismo né nell’idealismo né nel simbolismo. Queste preoccupazioni li rendono troppo circospetti, troppo irresoluti, troppo sforzati. E Matelda si allontana da loro, facendo echeggiare sempre più lungi il suo dolce salmo che finisce per confondersi con lo stormir delle foglie e col gorgoglio del ruscello, e morire.

Ma poi per la poesia vera e propria, a noi manca, o sembra mancare, la lingua.

La poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.

Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che hanno sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo. Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de’ fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S’ha sempre a dire uccelli, sì di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?

Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c’è, da regione a regione, anzi da contado a contado. Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori, piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna, il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante in altre. Ma gl’italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell’elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule. E così il poeta, se vuol poetare, bisogna che si lasci ogni tanto dire: “E questo che è? Che vuol dire? O poeta saccente e seccante!” E tuttavia così il poeta deve fare, e lasciar dire così, sperando, se non altro, che se ne avvantaggino i poeti futuri, i quali troveranno divulgati tanti nomi prima ignoti e perciò chiamati oscuri. In verità non è egli l’Adamo che per primo mette i nomi? Così deve operare, facendo a ogni momento qualche rinunzia d’amor proprio. Perché l’arte del poeta è sempre una rinunzia.

Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia. Deve fare a meno di tanti ghirigori, così facili a farsi, di tante bellurie, così piacevoli alla vista, di tante dorature, che danno tanta idea della propria ricchezza: e questa è rinunzia. Deve lasciar molto greggio e molto imperfetto. Oh! Come è necessaria l’imperfezione per essere perfetti! Lo sapeva anche Marziale che derideva quel Matone che voleva dir tutto belle. Di’, egli esclama, qualche volta soltanto bene, anche né ben né male, magari male! La continua eleganza è sommamente stucchevole. È come quel pranzo descritto dal De Amicis nel Marocco, che tutto vi sapeva di pomata. Questa bellezza in tutto e per tutto è totalmente antipoetica; ché la poesia è ingenuità; e quel fanciullo, che ogni cosa che fa e dice, la fa con una moina e con una smorfietta, e la dice con parolucce smaccate e dolciate; che scapaccioni chiama quel fanciullo consapevole della sua fanciulleria!

XV.

Con tutto questo, che speri tu? Che fine hai? Ritorno, come vedi, al primo detto. Essere utile a me? No, s’è detto. Recar utile agli altri? S’è detto che, se mai, non lo fai apposta: dunque non è il fine tuo, codesto. Dilettar te stesso? Ecco: se questo fosse il tuo fine, tu chiuderesti dentro te la tua visione, e te la godresti tra te e me, senza quei tanti struggimenti che ci sono per comunicare la visione agli altri. O dunque?

La gloriola…

O povero fanciullo!

Pensa, o fanciullo, quante altre cose potrei fare con maggiore rispondenza a codesto fine. Da condurre un esercito a volare sulla bicicletta, tutto, o quasi tutto, meglio porta alla meta della vittoria e della gloria. Ma poniamo che ci si arrivi anche “sulle ali del canto”. Qual disgrazia sarebbe mettersi in questa via, e per te e per me! Prima di tutto, ne andrebbe molto tempo. La gloriola vuole mutui uffici. Io devo conversare, e per lettere e a voce, sì con quelli che coltivano medesimi campi, e chieder loro e averne notizie sull’efficacia d’un concime che usiamo, e dar loro e riceverne auguri e rallegramenti per un buon raccolto che speriamo d’avere o abbiamo avuto; sì con quelli che professano soltanto di fornir le pianticelle, i semi, i concimi chimici, gli strumenti agricoli, a mano e a vapore. Quanto studio, quanta diligenza e pazienza si richiede per siffatta coltivazione! Bisogna raccattare tutti i cocci, come fanno i contadini, per seminarci e trapiantarci le tante pianticelle; anche i caldani rotti raccattiamo; anche quei vasi, dove cresceva il garofano di Geva contadinella. E star sempre lì ad annaffiare, a mondare, a potare; e sbirciare i vasi del vicino, e struggerci ch’egli abbia papaveri più grandi e girasoli più vistosi, e buttare a lui il malocchio, e contro il malocchio di lui tener molta ruta, e guardare che non ci si secchi.

 

Ma tu dirai: Anche il tempo si raccatta! Bene: parliamo d’altro. Non miete, chi non s’inchina. Ora, per la gloriola, ci s’inchina troppo, tanto umile sovente è la pianticella, e ci s’inchina troppo spesso, tante sono. Voglio dire che la nostra anima (l’anima, intendi!) si deforma, si fa gobba, come è la schiena dei poveri contadini che s’inchinano per il grano. E tu devi essere dritta,serena, semplice, o anima mia!

Non c’è forse sentimento al mondo, nemmeno l’avidità del guadagno, che sia tanto contrario all’ingenuità del poeta, quanto questa gola di gloriola, che si risolve in un desiderio di sopraffazione! Quanto sei preso da questo morbo, tu (ma tu non c’entri, allora), io, non cerco il poetico, il buono e il bello, ma il sonante e l’abbagliante. Oh! non cerco allora i lapilli, i nicchi, i fiori per la mia via, ma veglio inquieto spiando i quaderni altrui, magari leggendo di sulle spalle dello scrittore ciò che egli scrive. Allora io smetto il mio verso, e mi metto a far quello d’altri: come un merlo noioso che canta, in questo mentre, non le sue arie mattinali di bosco, ma la ritirata: perché, se non per voglia di gloriola, nel suo padrone e forse in lui? O merlo dal becco giallo, tu hai voluto esser troppo furbo! Come puoi credere che il tuo “Io ti vedo!” che risonava tra il cader della guazza, sia peggio di codesto insopportabile “Ritirati cappellon!”?

Ma è pur vero che “merlo” vuol dire sì furbo e sì il contrario! O anche, insistiamo troppo su un nostro verso o motivo o vezzo o genere, che sia una volta piaciuto; e riusciamo stucchevoli; non basta; diventiamo falsi. Imitiamo da noi medesimi, col vetro d’un bicchiere, il diamante puro che una volta trovammo. E sempre, pensando o scrivendo, siamo distratti dalla preoccupazione dell’effetto: che ne diranno? Vincerò, con questo, il tale o il tal altro? E la tua grazia, che non è grazia se non è spontanea, si perde per sempre. Tu non vedi più giusto e limpido; anzi non guardi più; seppure, ciò che sarebbe peggio, non guardi, come ho detto, negli altri, e non baratti le vesti e magari l’anima con altri, che tu veda o creda più pregiati di te!

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