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Читать книгу: «Il processo Bartelloni», страница 7

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– Ti fo paura! – prese a dire il birro.

– No! – rispose la bella ragazza, guardando imperterrita e disinvolta l’agente.

Era tornata a Firenze convinta che avrebbe dovuto sostener con lui una lotta e disposta a combattere con tutte le armi della sua astuzia femminile.

L’incontro improvviso l’aveva un istante sorpresa, ma si era subito riavuta dal suo turbamento.

Capì che incominciavano le prime avvisaglie, bisognava battersi con grande accorgimento, misurando bene le forze.

– Sei tornata? – ripigliava il birro con aria paterna, tentando di carezzare il mento alla giovane.

– Giù le mani, signor Lucertolo! – essa rispondeva, percotendo con un pugno, che non era leggero, il braccio destro dell’agente.

– E perchè sei tornata, di grazia? – domandava il birro con garbo insinuante.

– Dovreste accorgervene – replicava Lina, accennando agli abiti di lutto che indossava; – sono tornata.... appena ebbi notizia della morte di Bobi!

Una lacrimetta spuntava fra le nere e folte palpebre della ragazza.

Chi l’avesse ben guardata però si sarebbe forse accorto che la fisonomia di lei, non ostante la lacrima, piuttosto che a cordoglio era atteggiata a fine sarcasmo.

– Povero Bobi! – ribattè Lucertolo con voce lamentosa, e componendo il volto a compunzione. – Che morte!… M’è andata al cuore… perchè gli volevo bene – e la voce di Lucertolo sempre più s’inteneriva. – Carattere vivace!… ma, in fondo, un buon figliuolo!....

Lina teneva gli occhi bassi, come se non trovasse espressioni adeguate al suo dolore.

L’una valeva l’altro: avevano tutti e due intelligenza, e l’abito contratto del simulare: a tutti e due quadrava a pennello la parte che sostenevano nella commedia.

Era difficile che a così bravi attori sfuggisse una parola, che non fosse propria della loro parte.

Lucertolo capì che bisognava prendere un’altra strada.

Il tuono patetico non giovava.

Lina era più che mai bella con le sue vesti di lutto.

Il nero facea meglio spiccare il vivo incarnato delle guancie, i denti splendidi, le labbra color di rosa. Il seno si agitava sotto il velo, che non ne cuopriva all’intutto le linee formose; gli occhioni neri, fulgidi, mobilissimi, dardeggiavano il birro.

– Ho fretta! – disse bruscamente la ragazza. – Vi lascio…

– Ti accompagnerò un poco! – riprese Lucertolo.

Gli schiamazzi, le escandescenze in cui dava la folla, che sempre più aumentava in Via del Palagio, giungevano fino a loro, e al loro dialogo teneva bordone il funesto suono della campana.

– Andiamo! andiamo! – disse la ragazza come rabbrividendo, e stringendosi addosso lo scialletto di lana nera.

Vedeva dinanzi a sè la faccia pallida, stralunata del povero Nello; le pareva di non poter mai dimenticare l’occhiata supplichevole che credeva le avesse lanciato il disgraziato nel momento in cui gli aveva gettato le monete nel cappello.

Consapevole dell’innocenza di Nello, della ingiustizia della condanna, ritenuta dal parlar subito per gravi motivi, si sentiva atterrita, disperata; temeva che da un istante all’altro le mancassero le forze per schermirsi dai destri e formidabili attacchi del birro.

– Dove sei stata tutto questo tempo? – chiese Lucertolo, affettando gran premura.

– Qua e là sempre a servizio del mio padrone…

– E come sta ora il tuo padrone?

– Male… male… La ferita, che ebbe alla testa, è di quelle che guariscono difficilmente.... e anche guarite lasciano brutti ricordi.

E la ragazza sospirava: mostrava di essere in preda a tale agitazione che il birro non potè continuare le sue domande.

Camminavano in silenzio, l’uno accanto all’altra, da alcuni istanti, quando a un tratto la ragazza, che era stata un po’ soprappensiero, e in quegli istanti aveva fatto rapide riflessioni, si fermò verso la metà di Via Condotta, mise la mano sul braccio di Lucertolo, e guardandolo in viso con un’occhiata singolare, gli disse:

– Voglio chiedervi un piacere!

– Parla… chiedi pure – rispose il birro, tutto inuzzolito. – Son pronto a fare tutto quello che vorrai…

Credeva che finalmente gli si offrisse l’occasione di chiarire i suoi dubbii: invece la ragazza gli tendeva un’insidia.

– Posso fidarmi di voi?

– Come ti saresti fidata di tuo fratello… del tuo povero fratello! – replicò Lucertolo con molta serietà.

– Ebbene… io ora vado a casa… Voi verrete fra poco… Non voglio che la gente vi veda entrare con me.... Vi raccomando anzi di esser cauto, e di evitare quanto potete di dar nell’occhio… Ho da confidarvi una cosa....

Lucertolo drizzava le orecchie, ratteneva anche il respiro per paura di tradirsi, di rivelare la sua commozione.

– Voi siete proprio l’uomo adattato… Un agente della polizia m’ispira la più grande sicurezza.

– Dunque va’! – disse Lucertolo, impaziente di trovarsi solo per raccogliersi, e timoroso che gli sfuggisse un gesto, gli venisse pronunziata una parola, che palesasse la sua ansietà. – Va’! fra pochi minuti io sono da te.

La ragazza continuò per la sua strada, svelta, leggera senza badare alle parolette, che le scoccavano i passanti, ammirati della sua freschezza, della vegeta e florida venustà delle sue forme.

Teneva il capo un po’ ricurvo e un curioso sorriso le schiudeva le labbra.

Tra sè e sè andava mulinando un’idea, architettando uno strattagemma, che la rendeva contenta.

Si fermò in Via San Miniato fra le Torri, salì in casa, e richiusa la porta, senza neppur levarsi lo scialle, entrò nella cucina, prese una sedia, l’accostò all’uscio, e vi montò sopra… Poi aprì lo sportello del ripostiglio, che era sopra l’uscio di cucina, ripostiglio nel quale, come rammenterà il lettore, essa aveva tentato di far entrare il fratello la notte in cui Lucertolo era venuto a picchiare alla loro porta.

Il ripostiglio era uno stanzino assai grande, praticato in alto nel muro, come se ne vedeano in molte case del Vecchio Mercato.

Lina, accesa una candeletta, ficcò il capo e le spalle nel ripostiglio.

Tolse da un certo punto varii oggetti pesanti, e li gettò in disparte. Poi con un ferro cominciò a lavorare su quel punto, che aveva lasciato scoperto.

Dopo sforzi faticosi riuscì ad alzare un mattone, che nessuno, anche aguzzando gli occhi in quel luogo, quando pur fosse stato bene illuminato, avrebbe creduto potesse essere mosso.

Alzato il mattone, rimase aperta una piccola botoletta.

Lina vi mise il braccio, e ne trasse fuori una camicia, e il fodero di un pugnale.

Quindi riaccomodò il mattone, vi gettò sopra di nuovo tutti gli oggetti, richiuse il ripostiglio e scese dalla sedia.

Se n’andò in camera, e stese sul letto la camicia.

Alla manica destra, dal gomito in giù, la camicia era tutta chiazzata di sangue.

Lina tagliò questo pezzo della manica.

Prese il fodero del pugnale e lo tagliò alle due estremità perchè non si potesse più verificare la lunghezza. Ritagliò accuratamente una iscrizione di poche parole, che un tempo dovevano essere dorate, scritte per traverso al centro del fodero.

Chiuse la camicia tagliata, il fodero del pugnale in una cassettina saldissima, di legno rozzo, ma forte, e la serrò a chiave.

Poi raccolse il pezzo della camicia insanguinata e lo guardò, gettando un profondo sospiro.

Lo rivoltò in un foglio insieme con i frammenti del fodero del pugnale e passò nella stanzuccia, che aveva servito di camera a suo fratello Bobi.

Tutto questo aveva fatto con la massima furia in pochi minuti, e da poco era nella stanzuccia di Bobi, quando si avvisò di udir per le scale il passo pesante dell’agente di polizia…

XI

Ma la buona stella di Lucertolo, quella buona stella sotto il cui influsso egli era venuto in reputazione, impallidiva.

Probabilmente il birro non sarebbe mai arrivato a quegli onori di cui era così vago!

Il giorno, dopo quello in cui era morta sua madre, Carlo Tittoli, rovistando per la stanza ove la vecchia adorata aveva dato l’ultimo sospiro, vide sotto il letto una lettera tutta spiegazzata.

Si chinò per raccoglierla.

Era una lettera scritta da suo padre nella prima giovinezza, quando corteggiava la donna, che poi aveva sposato.

Come mai si trovava lì in terra?

Ma, mentre si rivolgeva questa domanda, vide biancheggiare a qualche distanza, sempre sotto il letto, alcuni fiori.

Era il mazzetto di fiori d’arancio di giaconetta, portato dalla donna il giorno delle sue nozze.

Nella fretta con cui aveva riempito il baule. Lucertolo aveva lasciato cadere in terra quegli oggetti.

Un sospetto tremendo entrò nel mite animo del Tittoli.

Trasse a sè il baule, lo aprì....

E vide il disordine con cui tutto vi era stato gettato alla rinfusa.

Evidentemente, nel morire, sua madre era stata vittima di un furto.

Forse il ladro, spaventandola, o facendole violenza, aveva contribuito a precipitarne, se non a cagionarne la morte.

Il dubbio divenne atroce.

Straziava il cuore del Tittoli, gli dava mille torture.

Sua madre, la sua povera madre, era forse morta disperata, chiamandolo, invocando il suo nome.

Ed egli dove si trovava?

Si era allontanato da lei per accompagnare Antonietta.

Per mettere in salvo una delle due donne, a cui doveva tutte le sue tristezze, le sue angoscie mortali, egli aveva lasciato sola nella suprema agonia l’unica donna, che davvero lo avesse amato.

Inginocchiato in terra, col corpo a metà steso sul baule, tenendosi la testa fra le mani, egli singhiozzava; le sue lacrime cadevano sulle misere vesticciuole, sugli squallidi oggetti, che avevano appartenuto alla povera donna.

Volle vincere il dolore: volle cercare, indagare chi poteva essere stato l’autore di quel furto così abietto.

L’atto infame chiedeva vendetta.

E si mise a riflettere.

Sua madre era stata curata, assistita dalla Nencia.

Di certo quella donna…

Però il cuore del Tittoli nobile, generoso, repugnava da bassi sospetti.

Egli esitava, come se temesse di commettere un’ingiustizia anche soltanto in pensiero.

Decise d’interrogare la Nencia.

XII

È una mattina del maggio 1833.

Nella sala di un palazzetto sul Canal Grande di Venezia, si trovano due personaggi, che il nostro lettore già conosce.

Una giovane signora stava quasi sdraiata sopra un sofà, coperto di velluto rosso, e adorno di gran fogliami, e fiori a intaglio nel legno dorato.

I raggi del sole entravano nella stanza discreti, temperati dalle tende di seta, che pendevano dinanzi alle finestre.

Il tappeto della stanza era bianco e azzurro: le pareti coperte di damasco rosso, a filettature d’oro: sul soffitto era dipinta un’allegrissima scena, a colori delicati; una Venere, splendente di venustà, circondata da Ninfe giovialissime e paffutelle, da Amorini in atteggiamenti scherzevoli e piacevolmente leziosi.

Nei grandi e alti specchi si riflettevano le ricchissime, sfarzose, artistiche suppellettili: si riflettevano le molli, voluttuose ondulazioni che facevano i contorni squisiti di un corpo flessuoso, abbagliante per meravigliosa leggiadria: ogni gesto della signora, ogni portamento della testa, ogni nuovo aspetto della sua bellezza poetica e sovranamente gentile.

La giovane signora era avviluppata in una gran veste di drappo fino, color di rosa, tutta guarnita sul dinanzi ed intorno al lembo da un soprammesso di raso bianco con ricami a rabeschi in oro.

Dalla veste usciva un piede minuscolo, delizioso nella sua incomparabile perfezione.

Le braccia spiccavano sulla fodera di raso delle ampie maniche con una bianchezza di gigli e di gardenie.

Il volto piccolo, tale da destare l’estasi dell’artista più vago della vera bellezza, era illuminato da un sorriso di un’espressione celeste, di una bontà ineffabile.

Un giovane era seduto sopra due cuscini, gettati sul tappeto, dinanzi al sofà.

– Stamani mi sono levata così presto per te! – diceva la signora, mentre con la sua mano destra, una mano affilata, sfavillante di anelli, si accomodava, facendo un gesto che le era familiare, i copiosi capelli biondi, di un biondo fulgido, che le formavano come uno splendido diadema sulla fronte divina. – Sono uscita di camera ora… mi avevi detto che saresti venuto a vedermi… e ti assicuro che ero proprio stanca!… Ieri sera, oltre il cantare l’Anna Bolena, l’aver dovuto ripetere tutta l’aria di Desdemona mi aveva spossato… E poi… che vuoi che ti dica… tutti quegli applausi… quei fiori… gli urli della gente, che mi aspettava all’uscita del Teatro… Già tu stesso avrai veduto lo spettacolo… Una trentina di gondole mi hanno accompagnato… Da tutte uscivano suoni, canti, grida di Evviva la Amieri!… Io, nella mia gondola sola, tutta palpitante, pensavo a te… Avrei voluto averti accanto, godere con te di quella immensa ovazione… Appena sono entrata in casa hanno incominciato una serenata… Mi sono affacciata al balcone… Non dimenticherò mai ciò che ho veduto e provato in quel momento incantevole… I suoni, i canti si confondevano in una lieta armonia, la luna gettava splendori su palazzi di marmo, su le acque, su la folla delirante di entusiasmo…

– Ma c’ero anch’io tra quella folla! – diceva il giovane, guardando la bella creatura con gli occhi inondati da lacrime di gioia – c’ero anch’io, e ti ho veduta affacciarti… È stata come un’apparizione divina… Sono io che ho gridato in mezzo al silenzio profondo, che succedette un istante al tuo apparire: – Viva la Amieri!.., Ah, tu non hai riconosciuto la mia voce?… Forse perchè la mia voce tremava… come ora… ed io era più inebriato, più commosso di tutti da quella festa…

– Sei sempre buono tu!… Tu sei la mia gioia nel mondo!

E la donna ammaliante tendeva la sua mano profumata al giovane, che la baciava con trasporto.

– Ti ripeto quello che io ti ho detto più volte: io non posso, io non voglio esistere senza di te! – essa replicava.

Il giovane la guardava, orgoglioso, felice d’inspirare tale passione in un cuore così nobile, di veder accettata, prescelta la sua adorazione da una donna di tanta bellezza.

La signora, stesa sul sofà di velluto, era Antonietta, la scolara del Brinda, la ragazza fuggita dalla casa in Piazza degli Amieri la sera del 14 gennaio 1831: la ragazza che Carlo Tittoli aveva consigliato a farsi artista, e aveva messo in salvo.

Le lezioni del Brinda le avevano profittato.

In due anni essa era salita all’apogeo della gloria: aveva cantato a Vienna e a Parigi, e per la prima volta rimetteva allora il piede in Italia.

Dandosi all’arte, aveva serbato il nome di Antonietta e avea lasciato il suo casato per quello di Amieri, che le ricordava l’antica dimora de’ suoi cari vecchi: di Agatina e di Emilio, che il lettore rivedrà fra poco.

Ha indovinato il lettore che il giovane il quale si trovava dinanzi ad Antonietta era il pittore Roberto Gandi?

– Stamani è uscita la Gazzetta! – interruppe Roberto, cavandosi di tasca un giornaletto, stampato su carta giallognola. – C’è l’articolo del celebre abate Pildani sull’Anna Bolena.

L’abate passava per un maestro, e quale maestro! nella critica musicale.

Un altro abate in quel tempo faceva la critica delle opere e dei balli anche nella Gazzetta di Firenze.

Così le prime donne e le prime ballerine godevano il privilegio di aver il loro panegirico dalle stesse penne che scrivevano quelli delle Sante, delle Vergini più immacolate.

– Che cosa dice il celebre abate? – domandò la cantante, allungando un braccio verso una tavoletta in lacca, sulla quale prese una delle rose che erano in un’anforetta finissima di cristallo di Boemia.

– Te lo leggo subito!

E il pittore principiò la lettura dell’articolo, che era un vero esempio dello stile con cui in quel tempo si scrivevano le critiche musicali.

Dopo lette le prime parole, il pittore fu interrotto da un lieve gesto dell’artista, da un sorrisetto sdegnoso.

Il critico moveva da alcune considerazioni generali; queste essa non voleva udirle.

– Più giù… più giù! – ella disse. – Dove parla di me… della esecuzione…

Il pittore dette un’occhiata sul giornale, quindi lesse:

– «Due parole di grata menzione ai cantanti che ci dilettarono nella stagione che cade, rappresentando l’Anna Bolena del M.° Donizetti! La signora Amieri sostenne la parte di protagonista (d’Anna) e la sostenne da protagonista. Nell’arte del canto, non men che dell’azione, la signora Amieri è insigne. Vuol ella attenersi a canto semplice e spianato? (per lo più preferibile nelle opere degli ottimi scrittori). Tutto è intonato, tutto corretto. Vuol ella tentar voli, e sparger fiori? Son vigorosi, son felici, i voli; i fiori son di tutta eleganza, di tutta bellezza. Ma (sia detto di passaggio) non la invoglin questi pregi ad esserne troppo prodiga! quel che è più prezioso vuol esser anzi con più parsimonia dispensato.»

Erano press’a poco gli avvertimenti che, due anni prima, le dava il suo maestro Brinda.

Durante la lettura, la fisonomia ammaliantissima della giovane artista aveva preso un’arietta di sovrana alterigia.

Ma allorchè il pittore giunse al punto ove era dato il paterno consiglio di parsimonia, la rosa, che la cantante carezzava con le sue dita affusolate, cadde, a foglia a foglia, sparpagliata da una mano febbrile, sul sofà e sul tappeto.

– Non legger più, Roberto! – disse con un attuccio di sprezzo. – Questi abati la mattina dicono la Messa: il resto del giorno non sanno quello che dicono!

E rideva, ma di un riso poco spontaneo.

– Lascia che legga! – soggiunse Roberto, che teneva sempre gli occhi sulla Gazzetta. – Sentirai che c’è del buono…

– No, no… Tanto non ti confondere… questi critici non hanno gusto, e non si intendono della musica… Figurati che uno di loro ha scritto, tempo fa, che il mio trillo non è bello… Ma si può essere più disgraziati di costui!

Roberto era avvezzo a sodisfare i più piccoli desiderii di Antonietta.

Sapeva che non tollerava contradizioni. Però essa si credeva di un carattere così dolce, così pieghevole, così condiscendente!

Ma l’innamorato non conosceva altra legge che quella che emanava dalle labbra rosee della giovane vezzosa, nè avrebbe voluto obbedirne altra.

Ripiegò il giornale, senza proferir verbo, senza arrischiare la più piccola osservazione, abituato a quella sommissione illimitata, volontaria, che si trova in tutte le anime veramente amanti.

L’opera del Donizetti, Anna Bolena, scritta allora da poco più di due anni, aveva tutte le attrattive della novità. Se ne appassionavano il pubblico, gl’interpreti, i critici. Se ne disputava negli ambulatori de’ Teatri, sulle scene, nelle sale dei principi come nei crocchi degli artisti.

Quando nell’anno, in cui comincia il nostro racconto, cioè il 30 decembre 1830, la sublime Pasta, la Orlandi, il Rubini, il Galli avevano cantato a Milano la nuova opera del maestro bergamasco, per tutta Italia, dove allora i cuori palpitavano per le grandezze dell’arte più che non palpitino oggi, e l’arte era ad essi suprema religione, e gli entusiasmi prorompevano più alti e più facili, per tutta Italia, dico, corse il grido delle vaghezze che infioravano l’opera nuova, ne furono ripetute le soavi melodie.

Gaetano Donizetti, sino allora fervido seguace del Rossini, si spingeva rapito nel tramite lucente della melodia belliniana. Nell’Anna Bolena, nel Pirata e nella Straniera parve s’incontrassero, si assimilassero le ispirazioni dei due genii più affettuosi, che la musica abbia avuto dopo il Pergolese.

Un silenzio era succeduto alla cessata lettura.

I due amanti si guardavano sorridendo.

Gli() occhietti azzurri e furbacchiòli di Antonietta brillavano di una insolita espressione di malizia.

– Vedo che tu sei mortificato! – essa riprese in tuono leggermente sarcastico. – Leggimi, leggimi il giornale… te lo permetto!

E Roberto spiegò di nuovo la piccola Gazzetta, dicendo:

– Sentirai che l’abate è poi giusto!

– Giusto, o no, leggi pure!

Ecco che cosa scriveva il terribile abate, la cui prosa aveva irritato gli eccitabilissimi nervi della regina del canto:

– «Intese poi profondamente e sentì la signora Amieri il suo personaggio, Anna Bolena. La catastrofi d’una donna sensibile al pari ed altera, da un potente amore inalzata al soglio, e da una feroce incostanza precipitata nella morte dell’infamia… l’abbattimento nel vedersi sprezzata… il rinfranco d’una coscienza che si sente illibata… le furie e le imprecazioni della rivalità… la triste calma della rassegnazione… e le tenerezze del perdono… il delirio… e l’orribil sorriso della disperazione, al pronunziarsi della sentenza del suo disonore… il grido del raccapriccio al rimbombo dei bronzi che la chiamano al supplizio…»

– Quante cose, quante cose! – esclamò Antonietta impaziente.

«… tutti i miserandi e crudeli tumulti dell’anima di quella grande infelice, – proseguì Roberto leggendo e scolpendo viemeglio le parole – furono dalla somma attrice, coll’eloquenza dell’accento, coll’evidenza del gesto, in un quadro spaventevole e commovente, vivissimamente dipinti allo spettatore. È inutile il dire che ella ha destato nel pubblico un entusiasmo, e che ne ricevè i più unanimi e lusinghieri contrassegni.»

– O che cosa dice del tenore? – domandò Antonietta, che era un po’ gelosa del virtuoso, che le era emulo nel favore del pubblico.

E Roberto ricominciò:

– Il celebre Darvili…

– Vedi… vedi… me non mi ha chiamata celebre! Oh, non importa,… continua.

L’articolo, come già ne’ periodi citati, ritraeva esattamente il modo di scrivere, che era in voga.

«Il celebre Darvili (Percy), – diceva il critico tonsurato – si sostenne, mercè il suo gran possesso dell’arte, ma non essendo a lui molto adattata la parte, non può dirsi che abbia colta una palma di più.

«Del resto non è qui il luogo di parlare del metodo del signor Darvili. Egli ha avuto sempre critici ed ammiratori. Egli si è sempre segnalato non col tenere vigorosamente la nota, non col canto spianato, ma colla vivacità, colla grazia degli ornamenti. Egli, per così dire, non trionfò combattendo a piè fermo come il Romano, ma fuggendo come il Parto!»

Il critico, contemporaneo del Donizetti, andava innanzi con nuovo ardore.

«E nulla dite, ci sentiam domandare – egli scriveva, – della musica del signor maestro Donizetti, della poesia del signor Romani? – Quanto alla musica non possiam che ripetere le lodi di cui essa fu già onorata. Alcuni vi notarono varie reminiscenze d’idee d’altri compositori. Ma, oltre che è difficile l’assicurare che sien vere reminiscenze, potendo due ingegni incontrarsi senza imitarsi, a molti scrittori anche insigni venne fatto di prendere da opere precedenti qualche idea, nè questo derogò alla lor fama, quando nel resto si mostrarono ricchi d’originalità.»

E ribattendo le osservazioni di alcuni, concludeva: «Per certo non si desidera musicale eloquenza nel duo del primo e del secondo atto, e nel finale del primo. L’aria: al dolce guidami, è commoventissima. E per tutta l’opera riluce quella somma dottrina nell’arte dell’armonia, per cui è celebre il signor Donizetti.»

Con la sua voce flebile, che carezzava e molceva le orecchie, che scendeva all’animo come una voce di paradiso, la cantante, sempre distesa sul sofà, battendo il tempo con una mano intonò l’adagio:

Al dolce guidami Castel natìo.

E il suo accento interpretava a perfezione quel canto stupendo, di una semplicità e di una grazia ideale, di un’espressione, che desta la più ineffabile mestizia. Poi, guardando Roberto con piglio civettuòlo, e mentre egli le stringeva la mano, gorgheggiava con note limpidissime, terse, alate, per così dire, – con tanta facilità di emissione le uscivano dal labbro – l’aria:

Come, innocente giovane,

Come mi hai scosso il core!

Ma già, prima che avesse finito, Roberto si era alzato, si era accostato al cembalo, e quando essa ebbe gettato l’ultimo suo gruppetto di note, scintillanti come le perle luminose e colorate di un piccolo fuoco d’artifizio, Roberto, accompagnandosi, e volgendosi per guardarla, intuonava a mezza voce le parole del tenore:

Deh, non voler costringere

A finto gaudio il viso.

Bella è la tua mestizia

Siccome il tuo sorriso!

– Bravo! – gridò Antonietta, che si era alzata anch’essa e si era avvicinata a Roberto, tendendogli la fronte sulla quale egli dava un bacio caldissimo.

Roberto Gandi non era un vero e proprio musicista, ma aveva al canto una innata disposizione; ogni bella armonia lo commoveva. Ripeteva i pezzi migliori delle opere che udiva, ne parlava con un linguaggio ardentissimo. La musica è una passione violenta come l’amore.

La sua affezione per Antonietta lo aveva sempre più infervorato nella musica, gliel’aveva fatta meglio comprendere: sin da quando la conobbe, alle lezioni del Brinda, egli si sentì a un tratto più addentro nei misteri della musica, più destro, più sicuro nella stessa arte che esercitava.

I primi momenti della passione fanno sorgere nel cuore di un artista un tumulto di idee; i suoi studii, anche gli studii che credeva più sterili, dànno un frutto insperato; la intensità della sua vita raddoppia; egli trova l’espressione adeguata, spesso cercata invano, a’ suoi più alti concetti.

– Bravo! Bravo! – ripeteva Antonietta, passeggiando per la stanza, fermandosi qua e là a carezzare i bei fiori disposti su varii mobili, e sui fiori trascorrevano le sue dita morbide e candide come i più fragili petali di alcuni di essi.

Si accostò di nuovo al cembalo e fissò i suoi occhi in quelli di Roberto.

Roberto la contemplava con un sentimento di adorazione sovrumana.

Così rimasero alcuni istanti.

Non si parlavano, non facevano un gesto; l’amore li faceva trepidare, li inebriava come una di quelle melodie senza parole, che sono la più celeste espressione della musica.

Ad un tratto udirono rumore.

Si volsero ambedue verso la porta.

Entrò una cameriera elegantissima, di forme appariscenti, e a cui sfavillavano in volto la salute e la giovinezza.

– C’è l’abate Pildani! – essa disse a voce bassa.

– Oh, il celebre abate! – osservò Antonietta, facendo un gesto teatrale. – Che passi!

Ma erano scorsi alcuni secondi, e l’abate non si presentava.

Egli era occupatissimo nell’anticamera a guardare, a interrogare la ragazza avvenente e grassotta, la cui vista lo giocondava.

E per sbirciarla meglio, si era alzato gli occhialoni verdi che portava sempre: il giorno in casa, per le strade; la sera al teatro.

La ragazza, obietto alla profonda e onorevole ammirazione del più illustre critico musicale di Venezia, era Lina Carminati.

– Passi, signor abate, passi pure! – diceva Lina, accennando alla porta della sala, quindi fattasi bruscamente innanzi, la aprì.

L’abate si trovò dinanzi a Antonietta, che gli corse incontro tutta festosa, e in atto tra il devoto e il motteggevole, come se volesse a un tempo chiedergli di benedirla e burlarsi di lui.

L’abate aveva aspetto singolarissimo. Era piccolo, tarchiato, con una grossa testa, un naso rigonfio e rossastro, in mezzo a un faccione, esilarato da un largo e perpetuo sorriso: nella fisonomia aperta si leggeva una grande astuzia, temperata da una sincera bonomia. Poi, gli occhiali verdi, e sotto il braccio, altro oggetto da cui non si separava mai quasi neppur in casa, un ombrellone verde, che teneva sulle ginocchia, come un bambino a cui facesse la nanna, anche quando scriveva i suoi articoli.

– Come va, figliuola? – domandò all’artista famosa, cui tutti parlavano con ossequio e trepidando, in un tuono che sembrava parlasse alla più umile delle mortali.

Anna Bolena rispose un po’ crucciata. Quel modo familiare verso la Sua Maestà la indispettiva.

– Ah, ah, capisco! – mormorò l’abate, i cui occhiali verdi erano volti verso il cembalo sul quale si trovava spiegata la Gazzetta. – Ho osato toccare la regina! Tocchi di penna, e di penna d’oca… non lasciano traccie, figliuola… Andiamo… via! Ti hai per male che un vecchio, che ti vuol bene, ti dica un po’ di verità?… Un uomo, che ha i capelli bianchi, come me, non avrebbe diritto di dare un consiglio ad una monelluccia come te?…

Antonietta taceva, ma l’abate, accortosi che essa era in procinto di scattare, mutò subito registro, e si dette ad ammansare la piccola tigre.

Pochi istanti appresso, il sorriso era tornato sulle labbra di Antonietta.

– Peccato, – disse l’abate Pildani a un certo punto della conversazione – peccato che il Donizetti abbia scelto quel libretto…

– Non le piace? – chiese Antonietta, con l’aria del maestro, che interroga uno scolaro.

– Non mi piace, no, se tu me ne dài licenza… e se non me la dài, me la piglio, – replicò il faceto abate. – O non hai letto il mio articolo?…

– Non abbiamo finito di leggerlo, – osservò Roberto, che aveva già scambiato con l’abate un cordiale saluto.

– Allora, ragazzi, ve lo finisco di leggere io. E l’abate si alzò, andò a prendere la Gazzetta, sollevò gli occhialoni verdi e lesse:

– «Della poesia, nelle opere per musica, non si può veramente parlare, senza sentir pietà del servaggio, cui qui son ridotte le muse. Se si paragona la lunghezza dei drammi dello Zeno e del Metastasio, con quella dei nostri libretti, si vedrà, anche materialmente, quanto in angusto sia stata ognor più coartata la poesia; e che quasi tutto il campo è occupato dalla musica, che spazia orgogliosamente, profondendo i tesori della melodia e dell’armonia.

«Poeta e scrittor di musica sulla scena paiono un magro e rannicchiato cliente, accanto al giovenalesco Matone, pingue causidico, riempiente la sua lettiga.»

L’abate guardò i due interlocutori per sorprendere sui loro volti l’effetto del suo ingegnoso e pomposo paragone.

– «Noi – e l’abate qui assumeva un accento solenne – non intendiamo di predicar riforma su questo punto, si segua pur così: ma la necessaria conseguenza è che la poesia in tante ristrettezze, non ha bastante sviluppo; e bisogna che talvolta resti per brevità oscura; tal altra si contenti d’una interiezione Ah!, di parole vaghe e generali, fato, avversa sorte, ecc., mentre converrebbe scendere a particolarità, a figure determinate, che solo parlano alla fantasia, facoltà dominatrice nella vera poesia.

«Conviene accennar figurine da paesaggio, ove non scoprendosi lineamenti, fisonomie, non si commovono affetti al loro aspetto. Vi resta più la verseggiatura che la poesia. Il signor Romani, bisogna confessare, che in varii de’ suoi drammi ha portato queste catene colla maggior disinvoltura, e felicità possibile. Ma il libretto dell’Anna Bolena non è forse uno de’ suoi migliori, neppur per la verseggiatura. Vi son luoghi in cui la lira di Romani si riconosce; ma spesso le corde dissonanti stridono.»

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
230 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain
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