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Il processo Bartelloni

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Il magistrato, con la sua esperienza, con la sua squisita sensibilità, con la sua profonda intelligenza, vedeva, in quel momento d’immensa lucidità, la vera condizione del fatto luttuoso di cui la Rota doveva giudicare.

La sua mirabile intuizione parve a un tratto dissipare le oscurità del processo.

Nessuno fino allora aveva scrutato con tanta chiaroveggenza nell’intricatissimo e tenebroso affare.

Svolse più ampiamente le circostanze di fatto, le prove, le risultanze del processo, e finì esclamando:

– Riflettiamo; ponderiamo bene, o signori, prima di condannare un innocente!

I quattro auditori, che sedevano dall’altro lato della tavola, presero tutti insieme la parola.

– Lascino parlar me! – disse il relatore della causa, – poi ciascuno di loro farà le sue osservazioni.... Il ragionamento del dotto nostro presidente – si capiva che quell’aggettivo aveva scottato le labbra dell’auditore Pantellini – è ingegnoso, sottile, ma non distrugge le prove materiali, che ci sono contro l’inquisito. Alle teorie sullo stato mentale dell’inquisito io sono incredulo.... peggio che incredulo! – dichiarò con crudezza l’auditore, – per me sono ammennicoli.... Li detesto come argomenti di difesa, ma in qual via c’inoltreremo, se noi magistrati li raccogliamo e cominciamo a ripeterli in Camera di Consiglio?

Il presidente fece un lieve movimento d’impazienza, ma uomo di tatto squisito, di educazione eletta, si rattenne.

– Lei auditore, – rispose con calma il presidente, gingillandosi con la catena dell’orologio, e mezzo rovesciato sulla spalliera della poltrona, – insiste tanto sulle prove materiali, mentre fa assoluta astrazione dall’origine, dalla sostanza del delitto…

Il più grande scoglio, – aggiunse il presidente – quando si tratta di scoprire un delitto misterioso, è un errore sul movente di esso… Se le prime ricerche prendono una falsa direzione, più uno si avventura in queste, più si allontana dal vero… Mi pare, scusi, che Lei segua un poco la strada che pur troppo è stata tenuta dagli attuarii nel formare il processo. Essi hanno dimenticato l’assioma: prius de re quam de reo inquirendum! Quanti innocenti, in casi consimili, sarebbero stati condannati, se il magistrato non si fosse elevato a considerazioni, che sono imprescindibili nel nostro ufficio, e si fosse fermato ai soli indizii, per quanto gravi?… Tutti loro conoscono ciò che ha detto uno dei nostri più grandi dottori sulla importanza delle prove congetturali: «Etiam si mille conjecturas Fiscus cumularet, tamen illae nihil prorsus efficerent non data… ascoltino bene… non data… probatione præcedenti in qua præsumptiones et adminicula fundari possint!....

– Bella dottrina! – interruppe con certo sdegno l’auditore Pantellini. – Dottrina da avvocato! E in fatti è roba del Farinaccio… Le prove necessarie alla convinzione legale abbondano negli atti del processo, per me ce n’è anche troppe. E la Rota.... mi par superfluo ricordarlo… deve giudicare secondo la convinzione legale, non già ingolfarsi in ipotesi scientifiche, morali…

Il presidente combattè anche questa obiezione.

La discussione divenne sempre più irritante.

– Va bene, – disse alla fine il presidente. – Veniamo ai voti. -

Succedette allora un grande silenzio.

Que’ giudici, tutti noti per la loro severità, alcuni proverbiali per il carattere bisbetico, per una certa ferocia nel condannare, vero spavento dei delinquenti e disperazione dei difensori, che sapevano bene come erano composti i turni; que’ giudici, gelosi della loro indipendenza, rigidissimi, alieni dalle facili indulgenze, si preparavano a dir alto la loro opinione.

– Al voto! al voto! – mormorava, tutto rubicondo l’auditore Pantellini girando attorno gli occhi, che dardeggiavano sotto le folte sopracciglia grigie.

Gli pareva di esser certo di aver guadagnato il Collegio, di averli tirati quasi tutti dalla sua.

Sul primo quesito in genere non ci furono negative.

Naturalmente nessuno degli auditori poteva pensare a negare che il pittore Gandi fosse stato ferito.

Al presidente tremava la voce, formulando il quesito in specie:

«È provato, che colui che produsse la ferita fu l’inquisito Nello Bartelloni?

Il magistrato era divenuto pallido.

Egli si trovava in una grande angoscia.

– Sì! – rispose con accento limpido, spiccato, sicuro, l’auditore Pantellini.

– Sì! – rispose l’auditore Comettini.

– Sì! – rispose in tuono aspro anche l’auditore Salti.

Tre auditori si erano già dichiarati contrarii all’inquisito.

L’ansietà del presidente aumentava.

Egli sapeva che il suo voto, quello del suo amico Lechini, sarebbero stati favorevoli all’inquisito.

Mancava il voto dell’auditore Biscotti.

Se egli avesse dato il voto negativo all’accusa, l’inquisito era salvo!

A parità di voti, tre contrarii, tre favorevoli, non si pronunziava condanna.

Se non si assolveva, poichè le assoluzioni fossero rare, l’inquisito era però liberato dal carcere, prosciolto da ogni pena: soltanto egli poteva di nuovo per nuovi indizii esser richiamato in giudizio, e allora la sentenza, assolvendolo pel momento, dichiarava che il processo rimaneva aperto.

Il presidente si sarebbe contentato di questa vittoria!

Ma, prima che fosse spirato il minuto secondo, in cui egli faceva tali riflessioni, l’auditore Biscotti aveva già aperto le labbra per pronunziare egli pure il monosillabo fatale a Nello.

– Sì! – egli disse, e il suo sì ebbe un’eco sinistra nel cuore del primo dei magistrati presenti.

Ormai la sorte di Nello era decisa!

– No! – egli proferì tristamente.

– No! – ripetè l’auditore Lechini con voce più forte, come se mettesse il suo più legittimo orgoglio nel mostrare che egli era della stessa opinione del suo superiore.

Le altre domande ebbero eguale risposta.

L’auditore Salti si alzò.

– Ho bisogno di assentarmi per un momento! – egli mormorò.

– L’aspetteremo, – soggiunse il presidente. – Dobbiamo deliberare sul quantitativo della pena…

– Oh, facciano pure… Quando la Rota ha giudicato reo un inquisito, circa la pena… lo sanno.... il mio voto è sempre per il più!

E uscì per una certa porticina a muro, che si trovava in un canto della stanza.

– La Rota, – continuò il presidente, – ha ammesso dunque come provato che l’inquisito è reo dell’assassinio, di cui fu vittima il pittore Roberto Gandi la sera del 14 gennaio… Sotto questo titolo sono varie le pene comminate dal Codice… Attendiamo pure che torni il signor auditore Salti per discutere sulla maggiore, o minor quantità della pena.

– Intanto possiamo dettare il principio della sentenza! – osservò l’auditore Pantellini, che si stropicciava le mani, e che ardeva di uno di quelli inesplicabili e rabbiosi amor proprii, che pur si trovano in ogni professione, stimolato, inasprito, centuplicato dal trionfo ottenuto allora sul presidente, dalla sicurezza di aver persuaso, convinto i colleghi, su’ quali si vedeva cresciuto di autorità.

Ma l’auditor Salti tornava nella Camera di Consiglio.

La discussione pel quantitativo della pena fu breve; fu adottata la pena richiesta dal Fisco.

Il presidente fu battuto anche in questo, non ostante che il suo voto nel genere minimo della pena fosse preponderante, se unito a quello di soli due auditori.

Si cominciò a dettare la sentenza:

«La Rota Criminale di Firenze, Turno di sei, nella causa contro

«Nello Bartelloni, nato in Firenze, e quivi domiciliato, senza mestiere, ecc. ecc.

«Veduto il processo:

«Udita la relazione dell’auditore Pantellini;

«Sentito il signor avvocato fiscale nelle sue conclusioni con le quali ha domandato la condanna dell’inquisito come urgentissimamente indiziato, nella pena dei pubblici lavori per anni venti.

«Sentito il signor avvocato G. B. Arzellini difensore del reo, e che ha parlato in ultimo luogo in difesa di esso.

«Sentito il Bartelloni medesimo, presente al giudizio, che ha confermato essere autore del furto, commesso sul ferito, sebbene abbia negato d’esser egli autore del ferimento.

«Attesochè la prova in genere resulta, ecc.»

(Qui erano sviluppati sedici o diciassette attesochè).

«Vedute le disposizioni aggiunte al Motuproprio del 22 giugno 1816.

Deliberatis deliberandis

condanna l’inquisito Nello Bartelloni, addebitato nella speciale inquisizione di latrocinio, ecc. ecc....»

Una esclamazione del presidente interruppe il copista, che scriveva la sentenza.

Costui rimase con la penna in aria, guardando i giudici.

– Prima che sia scritta l’ultima parola di questa sentenza, da cui dipende la sorte di uno sventurato – affermò il presidente – io chiedo alla Rota di poterle sottoporre alcune nuove riflessioni.

– Ormai è tardi! – replicò l’auditore Pantellini. – La Rota ha già deciso!

– Ma il presidente deve parlare! – disse l’auditore Salti.

– Deve parlare! – soggiunse il Lechini.

Nacque di nuovo tra gli auditori un dialogo vivace.

E, mentre i giudici erano occupati a compilare la sentenza, Lucertolo si affaccendava nella stanza degli uffici della Rota, in cui si accumulavano e si conservavano gli oggetti pertinenti a qualche delitto.

Fra tali oggetti era il tappeto, tolto dalla stanza misteriosa nel Vicolo della Luna.

In un punto di questo tappeto si vedevano molte orme sanguigne; le orme, le traccie lasciatevi dai birri, dagli ufficiali di polizia, che erano entrati nella stanza la sera del delitto, dopo aver messo il piede sulla gora del sangue.

Lucertolo, sempre spinto dalla sua smania di ricerche, esaminava il tappeto.

Ad un tratto gettò un grido.

Fra le traccie del sangue egli ne aveva scorta una, la più singolare di tutte, poi un’altra simile, poi un’altra....

 

Queste traccie erano indefinite, confuse, ma rappresentavano l’orma più o meno completa di un piede scalzo. Si scorgevano le dita, in due punti diversi anche la pianta del piede.

Tale traccia non era stata di certo lasciata dagli agenti di polizia.

Naturalmente, nessuno era scalzo fra gli agenti accorsi nel Vicolo la sera del delitto.

Dunque era chiaro che l’assassino era entrato nella stanza.

A lui solo poteva appartenere l’orma del piede ignudo.

Ed il povero Lucertolo si smarriva in congetture che dovevano sempre più allontanarlo dalla verità.

L’orma sanguinosa di un piede scalzo era sul tappeto, ma non era quella del piede dell’assassino.

La sera stessa, in cui finiva la pubblica discussione sul processo di Nello, il celebre birro si avviava alla Palla.

Poi pensò che l’entrare nel raddotto a tale ora, il sottoporre ad interrogatorii la Sguancia e le altre donne, avrebbe eccitato sospetti.

Bisognava trovare un espediente per entrare, senza troppo richiamar su di sè l’attenzione, nella casa malfamata.

L’espediente era facile.

Sorgevano quasi ogni giorno diverbii in quel luogo frequentato da precettati, da pregiudicati, da pessimi arnesi.

Occorreva dunque vigilare ed entrare alla prima occasione di rumori. La sua qualità di agente della polizia non poteva allora dar luogo a sinistre congetture.

In fatti il giorno stesso in cui Lucertolo scopriva sul tappeto, custodito tra i corpi del delitto, le traccie del piede scalzo, verso le sei pomeridiane, mentre stava appostato verso il canto di Via Naccaioli, vicino al mercato, udì un grande schiamazzo, che usciva dalla stanza d’ingresso della Palla.

In pochi secondi lo schiamazzo si fece sempre più forte, poi, proferendo parole grossolane frammiste a bestemmie, uscì precipitando per la scaletta esterna un giovinastro inseguito da un omaccio, che pareva ubriaco, e che si voleva scagliare contro colui che fuggiva, e gli lanciava mille vituperii.

– Che c’è? – che c’è, birbanti! – urlò Lucertolo, staccandosi dalla cantonata alla quale stava appoggiato. – Tu, canaglia – disse, acciuffando pei capelli il giovinastro, che aveva lasciato nella stanza il berretto cadutogli durante il tafferuglio – sei in contravvenzione al precetto. Che fai qui e a quest’ora? E tu, Astrologo – disse, rivolgendosi all’uomo più adulto – fai all’amore da capo con la prigione?… Ti contento subito!

Il birro prese per mano i due vagabondi, stringendoli ai polsi con le sue dita di acciaio, come fra le morse di una tanaglia, e li ricondusse dentro la stanza da cui uscivano.

– Che cos’è stato? – domandò Lucertolo, dopo avere cacciato i due litiganti in mezzo alla stanza, e aver richiuso l’uscio.

– Nulla… io credevo che scherzassero! – rispose la Sguancia, alzandosi dalla panca su cui era seduta.

– Ho capito io quel che bisogna fare perchè finiscano questi scherzi! – esclamò Lucertolo in tuono minaccioso. – Ci vuole un rapporto all’ispettore… ottener l’ordine che la casa sia chiusa.

– Ma perchè, Lucertolo? – rispose la paffuta zitellona. – Mi pare – proseguì, accostandosi al birro per non esser udita dagli altri due – che non mi sono mai rifiutata in tante occasioni ad aiutare la polizia…

– Bene! questo si chiama parlare! – rispose Lucertolo, in tuono reciso.

Poi, guardando con occhio torvo i due ribaldi, che erano stati la sua provvidenza:

– Voialtri andate per ora! – disse loro. – Con vostra licenza verrò più tardi a farvi visita io!… E state sicuri che saprò ritrovarvi!

I due non se lo fecero ripetere e sgattaiolarono via, come se avessero alle spalle il boia, che li frustasse.

– Ed ora a noi, Sguancia!

Pronunziando queste parole Lucertolo era andato a sprangare l’uscio, e si era seduto sulla panca accanto alla donna.

– Che cosa volete? – domandava la triste mezzana, guatando il birro con occhi imbambolati.

– Ehi, biondina! – disse il birro con malizia ironica e con un piglio che non ammetteva repliche – non sono qui per far la celia!… O rispondi alle mie domande, o fra dieci minuti ti sbatacchio davanti al Commissario.

La mezzana rabbrividì.

– Ma io sono qui al vostro comando, Lucertolo, – rispose balbettando.

– Capisco!.... Ti devo dunque dire che la polizia ha ricevuto molti rapporti contro di te.

– Contro di me! – interrogò con un affettato stupore la baldracca scozzonata.

– Contro di te, appunto!

E Lucertolo fissava gli occhi in quelli di lei.

– La scena avvenuta ora è una delle tante che si ripetono spesso in questo luogo, che sono occasione di scandalo, una vergogna per tutto il Mercato… La gente si lamenta e ha ragione… Questo è il riparo di tutti i peggiori arnesi di Firenze…

– Io però vado di tanto in tanto a denunziare al capo agente del quartiere chi viene qui, che cosa fanno, che cosa dicono…

– Senti, Sguancia – ricominciava il birro in modo più amorevole, quasi mostrando una certa premura verso di lei – già che mi trovo qui, voglio dirti per tuo bene una cosa.

– Dite! dite! – insistè la donna, che già era presa dallo spavento; tanto la polizia ne incuteva allora ai malviventi.

– Ti pende sul capo un gran castigo!… Non mi meraviglierebbe che un giorno o l’altro tu fossi chiamata al Commissariato di Valfonda, stesa sulla panca e…

Il birro fece un gesto, imitando uno che menasse colpi…

– Gesummaria! – ripetè la Sguancia inorridita, e portandosi le mani al viso.

– C’è qualcuno, io credo, che ti ha fatto la spia…

La donna dette uno scatto sulla panca.

Essa aveva la mano in tante turpi azioni, che mille sospetti la assalivano di un tratto.

– Che dite? che dite?

– Dico che tu, disgraziata, sei già segnata nel Libro Nero.

Queste parole bastavano allora a far rimescolare il sangue alla gente grossolana.

La Sguancia non aveva più fiato, non poteva più spiccicare parola, la lingua le si era attaccata al palato.

– Si pretende… sta’ bene attenta – continuava il birro con aria tragica, e stringendo in modo febbrile le rozze mani della donna, che squassava con forza – si pretende che tu sia complice…

– Complice? – esclamò la donna, gettando un grido di raccapriccio.

– Complice del delitto commesso qui nel Vicolo la sera del 14 gennaio…

La Sguancia era divenuta livida.

– Complice! – ripetè la donna, dopo un istante.

Aveva appoggiati i gomiti alla rozza tavola sulla quale ardevano due candele di sego, e si copriva il volto con le mani carnose.

Poi, avvezza com’era al mentire, piena di diffidenze, consumata nelle male arti, un’idea le balenò: che cioè il birro non sapesse nulla della verità, e volesse sobillarla.

– A che pensi? – disse Lucertolo buttandole giù una mano, e guardandola in faccia.

La vide molto conturbata, e capì l’effetto delle sue parole.

– Penso – soggiunse la donna in apparenza più calma – che ci sono dei mascalzoni… e chi sa per qual fine, a sfogo di quale vendetta… mi calunniano, mi vogliono rovinare…

E teneva d’occhio Lucertolo.

Il birro comprese che per quel momento la donna gli sfuggiva.

– Ma io non ho paura! – ripetè la Sguancia alzandosi. – Chi tentò d’ammazzare il signore, trovato steso qui nel vicolo fu il birbante di Nello. Ormai è stato giudicato… E come si può credere ch’io sia stata sua complice?

– La sbagli! La sbagli! – esclamò Lucertolo – Il pericolo nasce da questo: che si comincia a dubitare che Nello sia innocente, vittima di qualchedun altro… e se il sospetto si propala…

– Che sospetto?

– Vedi, Sguancia, io non ti dovrei parlare come fo; noi siamo obbligati al segreto; ma io ti vorrei salvare, perchè… insomma… anch’io comincio a dubitare che certe spie abbiano ragione.

– In che cosa?

– Si racconta che l’assassino sia stato un altro… uno, che bazzicava in questa casa… che la sera del 14 gennaio, dopo aver tirata la coltellata, sia entrato qui…

– Che orrore! che orrore! come si possono dire queste infamie? Non l’avrei subito denunziato?

– E anzi l’assassino nel venir qui era tutto insanguinato…

La Sguancia allibiva.

La brutta scena a cui aveva assistito in quella sera, ormai lontana, le tornava ora alla memoria nel modo più spiccato.

Rivedeva Bobi Carminati nella piccola cucina, che chinato sulla catinella, si lavava il sangue.

Fu per tradirsi, ma soffocò a tempo il grido che voleva proromperle dal petto.

Lucertolo notava tutti i movimenti della donna, i più lievi cambiamenti della sua fisonomia.

Una voce chiamò la Sguancia dal piano di sopra.

La voce giungeva in buon punto.

La Sguancia fu chiamata una, due, tre volte.

– Salgo… e torno subito – disse al birro, lieta di sottrarsi anche per un momento alle incalzanti domande e di avere il tempo di riflettere, e preparare altre risposte.

Lucertolo, rimasto solo, si mise a pensare.

Le sue parole avevano prodotto sulla donna grande effetto.

Si era confusa, era impallidita, aveva tremato.

Dunque egli si accostava alla verità; questa volta dirigeva bene le sue ricerche e sarebbe giunto ad un buon resultato.

La trepidanza con cui la Sguancia lo aveva ascoltato gli rivelava che egli non si era ingannato nel descrivere il modo onde l’assassino era entrato alla Palla la sera del delitto.

E restava assorto nelle sue meditazioni.

La polizia è fidente: i suoi agenti obbediscono talvolta a ispirazioni che sembrano inesplicabili, ma che essi attingono naturalmente alla pratica della loro professione, ad un certo sentimento, che è in essi acuito, perfezionato dall’esperienza. Così alcuni agenti, visitando talvolta il luogo dove fu compiuto un misfatto, anche alcuni mesi dopo l’avvenimento, sono riusciti a ricostruire, con indizii i quali sarebbero sfuggiti ad ogni altro, la storia di un delitto dei più tenebrosi.

Lucertolo immaginò che l’assassino, se era entrato alla Palla la sera del 14 gennaio, doveva avervi lasciato traccie.

Cercò di ripristinare la scena in tutti i suoi particolari.

Quando l’assassino era entrato, nessuno doveva trovarsi di certo nella stanza d’ingresso.

Se avesse udito rumori, se avesse sentito che vi si trovava gente, egli non avrebbe spinto la porta, sarebbe anzi tornato indietro.

L’assassino era insanguinato!

Naturale che il suo immediato pensiero, entrando, fosse stato quello di far sparire i segni che lo accusavano.

Al primo piano non era di certo salito perchè sempre frequentato.

Era lecito supporre che egli si fosse subito diretto alla cucina.

E, dominato dal suo pensiero, Lucertolo prese una delle candele sulla tavola e si avviò alla cucina, tale e quale come aveva fatto il pompiere Bobi Carminati la sera del 14 gennaio, dopo aver colpito la sua vittima.

Arrivato in cucina, Lucertolo cominciò a fiutare per tutto, a rifrustare ogni angolo.

La cucina era sucida, mandava fetori, l’acquaio, il camino luccicavano per l’untuosità ai crassi bagliori della candela di sego.

Guardò prima l’acquaio. Per tutto dove la pietra fa orlo si vedeva un fitto strato di fimo, formatosi con le scolature delle acque putride, delle sostanze oleose, non rimosse col granatino.

Lucertolo si mise a grattare quel fimo aderente alla pietra verso il reticolato.

A un tratto vide una materia rossastra.

Allora raccolse tutti quegli atomi rossi, e li gettò, a uno a uno, sopra un pezzo di carta.

Arrivò così a scuoprire la pietra, sulla quale vide ben chiara l’impronta di un grosso spruzzo di sangue, che vi era rimasto accagliato, penetrando a traverso le altre materie, che aveva imbevute.

La sera del delitto Bobi si era lavato due volte, e la prima volta, allontanando da sè il cane, che si accostava a lambire la catinella, avea gettato il liquido denso di sangue nell’acquaio, e andando giù a fiotto, sbattendo nell’angolo della pietra presso il reticolato, alcune particelle del sangue vi si erano fermate, infiltrandosi per le altre materie.

– Oh! – esclamò Lucertolo a tal vista, alzando il labbro superiore, con espressione di vera meraviglia.

Osservò ben bene la macchia, poi la ricoprì subito con altra di quella sozzura.

Non bisognava distruggere tale indizio, se pur fosse un indizio!

Intanto chiudeva nel foglio accuratamente gli atomi insanguinati, e si metteva il foglio in tasca, riserbandosi di sottoporre il contenuto agli esami di persone più autorevoli di lui, e di valersene come sarebbe stato meglio.

Frugò tutta la cucina, infuriato, quasi un ladro che stesse in timore di esser sorpreso; gli premeva di non farsi trovar lì dalla Sguancia.

E teneva sempre l’orecchio teso verso la scala per sentire se ella scendesse.

 

Non trovò nulla, e stava per uscire, quando a un tratto vide una catinella sbocconcellata, e screpolata, in un angolo del camino.

La prese, la guardò; niente che attraesse la sua attenzione.

La catinelletta era piena di cenere.

Gli venne in mente di rovesciarla.

O stupore!

Qua e là, in varii punti, nella parte sottoposta della catinella vi erano macchiuzze, appena visibili, di sangue rappreso. La catinella non era mai stata lavata.

E, in mezzo alla cucina, tra le profonde anfratture, gli screpoli dei mattoni, rimovendo gli straticelli di lordure, che vi si erano addensati, Lucertolo, guardando bene, vide nuove e corrose e scolorite macchiuzze di sangue.

Non poteva più dubitare!

Egli non si era ingannato nelle sue previsioni.

L’assassino era venuto lì di sicuro la sera del delitto.

Prese la catinella, la nascose sotto il tabarro, e andò via.

Pensò che il più savio partito era di rimettere ad altro tempo il colloquio con la Sguancia.

Ora gli dava martello la traccia sanguinosa del piede scalzo.

Si recò nella prigione, paragonò le misure, che aveva preso, col piede di Nello.

Le misure non corrispondevano.

Il piede di Nello era più lungo e più affilato.

Occorreva confrontare le misure col piede di Bobi Carminati.

Come fare?

Pochi giorni appresso, Lucertolo si recava a Campi, dove si celebravano feste popolari, cui dovevano accorrere i famigli di tutta la squadra dei dintorni per vigilare; Lucertolo v’incontrò, infatti, il Carminati.

Si accompagnò con lui, gli guardò il piede, ma neppure il piede del Carminati corrispondeva alla misura.

Il piede scalzo, che si era posato sul tappeto, era un piede più grosso, quasi quadro, e cortissimo.

Il Carminati aveva il piede lungo e assai stretto.

Dunque nè Nello, nè il pompiere erano entrati nella stanza del Vicolo della Luna la sera del 14 gennaio.

O chi vi era entrato?

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