Il Volto della Paura

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Из серии: Un Thriller di Zoe Prime #3
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CAPITOLO TRE

Zoe cambiò posizione, cercando di sistemarsi meglio sulla vecchia e comoda poltrona. Si stava abituando alla terapia, per quanto apparisse strano persino a lei.

Parlare con qualcuno dei suoi problemi personali, settimana dopo settimana, in passato sarebbe stata la sua personale idea dell’inferno, ma avere accanto la dottoressa Lauren Monk non era poi così male. Dopotutto, era stata proprio la dottoressa Monk a spingerla a uscire di più con John e quella, almeno finora, si era rivelata un’ottima decisione.

Da parte sua, quantomeno. Stava iniziando a chiedersi se John potesse dire la stessa cosa.

“Allora, parlami dell’appuntamento. Cos’è successo?” domandò la dottoressa Monk, sistemando il blocchetto d’appunti sulle ginocchia.

Zoe sospirò. “Non riuscivo a concentrarmi,” rispose. “I numeri prendevano il sopravvento. Riuscivo a pensare solo a quelli. Mi sono sfuggite frasi intere del suo discorso. Volevo dedicargli tutta la mia attenzione, ma non riuscivo a spegnere i numeri.”

La dottoressa Monk annuì con aria seria, portando la mano al mento. Da quando Zoe aveva vuotato il sacco a proposito della sua sinestesia – l’abilità di vedere numeri ovunque e in qualsiasi cosa, come ad esempio notare che la penna della dottoressa Monk avesse un peso superiore alla media per via della leggera inclinazione di quindici gradi che aveva mentre era posata sul bordo delle sue dita, rispetto a quello di una BIC – aveva trovato la terapia ancora più utile. Riuscire ad ammettere ciò che le capitava e le sue difficoltà era decisamente liberatorio.

C’erano poche persone al mondo che conoscevano la sua condizione. C’era la dottoressa Monk, e la dottoressa Francesca Applewhite, che era stata la mentore di Zoe sin dai suoi giorni al college. E poi c’era la sua partner all’FBI, l’Agente Speciale Shelley Rose.

E nessun altro. Non aveva neanche bisogno di tutte le sue dita per contarle. Quelle erano le uniche persone di cui si fosse mai fidata abbastanza da rivelare il proprio segreto, dalla prima volta in cui la sua condizione era stata diagnosticata da un dottore che non aveva mai più rivisto. Intenzionalmente. Per molto tempo, aveva pensato che fosse possibile, in qualche modo, fuggire o ignorare quella capacità che sua madre aveva definito “il dono del diavolo”.

Ma fino a quando la aiutava a risolvere crimini, Zoe non voleva che sparisse. Non più. Sarebbe soltanto utile riuscire a metterla in pausa mentre cercava di instaurare una relazione romantica, che non richiedeva misure specifiche del liquido contenuto in ogni bicchiere o della distanza tra gli occhi di John.

“Potrebbe essere utile riuscire a escogitare insieme dei modi per aiutarti ad “abbassare il volume”, a placare il tuo cervello, per così dire,” disse la dottoressa Monk. “È qualcosa che prenderesti in considerazione?”

Zoe annuì, sorpresa dal nodo che si era creato nella sua gola al pensiero di essere in grado di fare quanto detto dalla terapista. “Sì,” disse. “Sarebbe fantastico.”

“Perfetto.” La dottoressa Monk ci pensò su per un attimo, battendo distrattamente la penna sulla clavicola. Zoe aveva notato questa abitudine, un numero sempre pari di colpetti.

“Perché fa così?” sbottò, sentendosi in imbarazzo un secondo dopo aver posto quella domanda.

La dottoressa Monk la guardò sorpresa. “Ti riferisci al gesto di picchiettare la penna sulla spalla?”

“Mi scusi. Sono affari suoi. Non deve dirmi il motivo.”

La dottoressa Monk sorrise. “Non importa. In realtà, è una cosa che ho iniziato a fare quando ero una studentessa. È un esercizio di rilassamento.”

Zoe aggrottò la fronte. “Non si sente calma?”

“Certo. Ormai è diventata una sorta di abitudine, anche quando sto pensando. Mi permette di immergermi in uno stato più Zen. Di solito soffrivo di attacchi di panico quando ero più giovane. Hai mai sperimentato un attacco di panico, Zoe?”

Zoe ci pensò su, cercando di capire cosa si intendesse con attacchi di panico. “Non credo.”

“Che si tratti di un vero e proprio attacco di panico o di qualcosa di meno grave, abbiamo bisogno di trovare qualcosa che ti calmi, che faccia sparire i numeri. Vogliamo che la tua mente smetta di correre, permettendoti di concentrarti su una cosa alla volta.”

Zoe annuì, muovendo la dita sulle crepe del bracciolo in pelle della sua poltrona. “Sarebbe perfetto.”

“Iniziamo con un esercizio di meditazione. Ritengo che dovresti iniziare a praticare la meditazione ogni sera, magari appena prima di metterti a letto. Meditare sarà un aiuto costante che, nel tempo, migliorerà la tua capacità di controllare la mente. Non risolverà immediatamente la situazione, ma impegnandoti vedrai senza dubbio dei risultati. Mi segui?”

Zoe annuì silenziosamente.

“Bene. Ora ascolta attentamente le mie istruzioni. Voglio che ci provi subito, dopodiché potrai praticarla per conto tuo stasera. Inizia chiudendo gli occhi e contando i tuoi respiri. Prova a rimuovere qualsiasi altra cosa dalla tua mente.”

Zoe obbedì e chiuse gli occhi, iniziando a respirare profondamente. Uno, ripeté nella sua mente. Due.

“Benissimo. Non appena arriverai a dieci, ricomincia da uno. Non continuare a contare. Concentrati soltanto su quei respiri, fino a quando non inizierai a sentirti rilassata.”

Zoe cercò di farlo, sforzandosi di allontanare gli altri pensieri dalla mente. Era difficile. Il suo cervello voleva comunicarle la presenza di un prurito sulla gamba destra, o il vago odore del caffè della dottoressa Monk, o voleva ricordarle quanto fosse strano essere seduta a occhi chiusi nell’ufficio di un’altra persona. E poi voleva dirle che stava sbagliando l’esercizio, e voleva permetterle di distrarsi.

Ad ogni modo, stava respirando al ritmo giusto? Quanto rapidamente avrebbe dovuto farlo? Lo stava facendo bene? E se avesse respirato male per tutto questo tempo? Per tutta la sua vita? Come avrebbe fatto a saperlo?

Nonostante i suoi dubbi, continuò a provarci in silenzio, e alla fine iniziò a sentirsi rilassata.

“Stai andando benissimo,” disse la dottoressa Monk, la sua voce era più bassa e tranquilla adesso. “Ora voglio che immagini un cielo. Sei seduta, alzi lo sguardo verso il cielo. Un blu stupendo; c’è soltanto una nuvola che fluttua, nient’altro all’orizzonte. Si allunga su un calmo mare blu. Riesci a vederla?”

Zoe non era brava con l’immaginazione, ma ricordò una foto che aveva visto di recente, un annuncio pubblicitario di un’agenzia di viaggi. Una famiglia che giocava felicemente in spiaggia, un incredibile paradiso blu alle loro spalle. La sua mente si diresse lì, concentrandosi su quell’immagine. Rivolse un piccolo cenno alla dottoressa Monk per farle capire di essere pronta a continuare.

“Bene. Senti il calore del sole sul tuo viso e sulle spalle. È una giornata meravigliosa. Soltanto una leggera brezza, esattamente il tipo di clima che ti piacerebbe trovare. Sei seduta su un piccolo gommone, appena al largo. Lo senti oscillare dolcemente al ritmo delle onde. È così calmo e sereno. Non è stupendo il sole?”

Zoe di norma sarebbe scoppiata a ridere per una cosa del genere, ma fece come le era stato detto, e poté quasi giurare di riuscire a provare quelle sensazioni. Un sole reale, che accarezzava la sua fronte. Non troppo forte: il sole adatto per un’abbronzatura, non per un melanoma.

Melanoma. Non avrebbe dovuto pensare a quel tumore. Concentrati, Zoe. Dondola al ritmo delle onde.

“Guarda di lato. Vedrai l’isola alle tue spalle. La spiaggia da dove sei appena venuta e, più indietro, il resto di questo paradiso. Cosa vedi?”

Zoe sapeva esattamente ciò che vedeva: un’altra immagine di una pubblicità di viaggi. Un posto dove tempo fa avrebbe voluto andare. Ma si trattava di una destinazione da luna di miele e lei era single all’epoca. In quell’occasione si era sentita ancora più sola.

“Sabbia dorata,” rispose, il suono della sua stessa voce stranamente distante ed estraneo. “Poi una macchia rigogliosa. Dietro, alberi tropicali che si allungano verso il cielo, tre metri e oltre. Il sole sta scendendo a un angolo acuto, le ombre sono lunghe soltanto quindici centimetri. Non riesco a vedere oltre. C’è un albero che pende a quarantacinque gradi sull’acqua, con un’amaca di due metri legata sotto. È vuota.”

“Cerca di concentrarti più sulla scena che sui numeri. Adesso ascolta. Riesci a sentire le onde che si infrangono dolcemente sulla spiaggia? Il canto degli uccelli?”

Zoe respirò profondamente, lasciandosi travolgere da queste nuove sensazioni. “Sì,” disse. “Pappagalli. Credo. Le onde arrivano a intervalli di tre secondi. Gli uccelli cantano ogni cinque secondi.”

“Senti il calore del sole sul tuo viso. Puoi chiudere gli occhi, smettere di contare. Sei al sicuro lì.”

Zoe respirò, continuando a guardare l’isola nella propria mente. Il suo sguardo deviava sull’amaca. Per chi era? Per se stessa, o un giorno ci sarebbe stato qualcuno accanto a lei? John? Lo voleva lì, su quest’isola tutta sua? L’amaca era concepita per un uomo. Lei era alta soltanto un metro e sessantotto centimetri. L’amaca era sospesa a sessanta centimetri sul pelo dell’acqua.

“Perfetto, Zoe. Ora, voglio che ti concentri nuovamente sul tuo respiro. Conta a ritroso a partire da dieci, proprio come abbiamo fatto prima, ma al contrario. Mentre lo fai, voglio che torni lentamente dalla tua isola. Lascia che svanisca, e svegliati, un po’ alla volta. Delicatamente, adesso. Abbiamo finito.”

Zoe aprì gli occhi, un po’ imbarazzata da quella sensazione di maggior relax, e consapevole di quanto sembrasse strano il fatto che fosse stata lontano, su una piccola isola creata dalla sua mente, nonostante fosse rimasta seduta a schiena dritta su una poltrona, sotto lo sguardo attento della terapista.

“Sei stata molto brava.” La dottoressa Monk sorrise. “Come ti senti adesso?”

 

Zoe annuì. “Più calma.” Eppure, si sentiva dubbiosa. I numeri erano stati insieme a lei. L’avevano seguita, anche in quel luogo. E se non fosse mai riuscita a sbarazzarsi di loro?

“È un ottimo inizio. Ti sentirai ancora più rilassata con la pratica. Ed è importante, perché potrai tornare in quel luogo calmo ogni volta che ti sentirai stressata o oppressa.” La dottoressa Monk scrisse rapidamente qualche appunto sul suo quaderno, con la penna che creava linee veloci e illeggibili che Zoe non riusciva a decifrare.

“E se fossi costretta a mettere a tacere velocemente i numeri? Ad esempio, in una situazione d’emergenza?” domandò Zoe. “O se non potessi dire all’altra persona per quale motivo ho bisogno di calmarmi?”

La dottoressa Monk annuì. “In quel caso, prova semplicemente a contare i tuoi respiri come hai fatto per entrare nella fase di meditazione. Dovremmo testarlo in uno scenario reale, ma ritengo che contare una cosa, ad esempio il tuo respiro, possa farti smettere di vedere altri numeri. È una manovra di distrazione: tenere occupata l’area matematica del tuo cervello concentrandoti su qualcos’altro.”

Zoe annuì, cercando di imprimere questa informazione nella sua mente. “Okay.”

“Ora, Zoe, parliamo del fatto di non voler spiegare alle persone perché hai bisogno di mettere a tacere i numeri, o di non dire loro di questo dono. Perché vuoi ancora nasconderlo?” domandò la dottoressa Monk, inclinando la testa in un modo che Zoe percepì come un cambio di strategia.

Faceva fatica a rispondere a quella domanda. Beh, non proprio: conosceva il motivo. C’era una paura che l’aveva attanagliata da quando era ragazzina, rafforzata dalle urla di figlia del diavolo e dalle ore di preghiera che l’avevano costretta in ginocchio tutte le notti, in preda al desiderio che i numeri svanissero. Era semplicemente difficile ammetterlo ad alta voce.

“Non voglio che le persone lo sappiano,” rispose, prendendo un po’ di lanugine immaginaria dai suoi pantaloni.

“Ma per quale motivo, Zoe?” incalzò la dottoressa Monk. “Hai una stupenda abilità. Perché non vuoi condividerla con gli altri?”

Zoe era in difficoltà. “Io … non voglio che gli altri pensino che io sia diversa.”

“Ti preoccupa che i tuoi colleghi ti vedano in modo diverso da come fanno adesso?”

“Sì. Forse …” Zoe esitò, scrollando le spalle. “Forse potrebbero tentare di … di farne qualcosa. Di sfruttare questa capacità in qualche modo. Non voglio essere un burattino nelle mani di altre persone. O la vittima di scherzi crudeli. O una sorta di oggetto da testare.”

La dottoressa Monk annuì. “È comprensibile. Sicura che sia soltanto questo a preoccuparti?”

Zoe conosceva la risposta a quella domanda. L’aveva persino sussurrata nella propria mente. Mi preoccupa il fatto che tutti sappiano, che tutti vedano che non sono normale. Non sono una di loro. Sono uno scherzo della natura. Temo che potrebbero odiarmi per questo. “Sì, sono sicura,” disse apertamente.

La dottoressa Monk la osservò per un istante, e Zoe sentì di essere stata scoperta. La dottoressa Monk era una psicologa: era ovvio che riuscisse a capire quando qualcuno le stava mentendo. Avrebbe insistito, spinto Zoe ad ammettere la paura segreta che aveva sepolto in profondità dentro di sé per tutto quel tempo.

Invece, tutto ciò che fece fu chiudere il suo taccuino e riporlo accuratamente sulla scrivania, rivolgendole un ampio sorriso. “Oggi abbiamo fatto qualche fantastico progresso, Zoe. Siamo alla fine della nostra seduta, quindi ti prego di integrare quella meditazione nella tua routine serale e provare a rispettarla. Al nostro prossimo incontro, mi piacerebbe sapere se hai fatto qualche ulteriore progresso.”

Zoe si alzò, la ringraziò e andò via, provando al sensazione di essere stata salvata dalla campanella.

E poi sentì un’altra campanella, stavolta letteralmente: uno squillo proveniente dalla tasca. Tirò fuori il cellulare mentre attraversava la sala d’attesa, vedendo il nome di Shelley sul display.

“Agente Speciale Zoe Prime,” disse. Era piacevole usare il titolo ufficiale, anche quando sapeva chi stesse chiamando.

“Z, sono io. Il comandante vuole che tu venga immediatamente in aeroporto. Abbiamo un caso a Los Angeles. Fai la valigia, ci vediamo lì.”

“Quanto tempo ho?” chiese Zoe.

“Il volo parte tra quarantacinque minuti.”

“Ci vediamo lì,” rispose Zoe. Mise giù il telefono e avanzò più celermente attraverso il corridoio, calcolando quanto tempo avrebbe avuto a disposizione per fare i bagagli, considerando la durata del viaggio per l’aeroporto.

Dentro di sé, provò una sensazione di vago entusiasmo. Era passato un po’ di tempo dall’ultimo caso, tutto scartoffie, udienze e burocrazia. Naturalmente non era per niente felice che qualcuno fosse morto, ma le sarebbe servito immergersi in un semplice caso di omicidio, e nella sua mente incrociò le dita che si trattasse proprio di qualcosa del genere.

CAPITOLO QUATTRO

Zoe guardò fuori dal finestrino, vedendo le nuvole che scorrevano sotto l’ala dell’aereo. Quella vista avrebbe potuto regalarle una sorta di pace. Dopotutto, non c’era niente da contare. Ma non le piaceva la sensazione di essere così lontana da terra, e non le sarebbe mai piaciuta. Odiava il pensiero che qualcun altro avesse il completo controllo e fosse responsabile della sua vita.

“L’Agente Speciale al Comando Maitland ci ha dato questi dossier,” disse Shelley, tirando fuori un paio di portadocumenti per attirare l’attenzione di Zoe.

Zoe si voltò verso di lei, strizzando gli occhi per concentrarsi. “Bene. Cosa c’è di talmente tanto urgente da non poter attendere una riunione di persona?” I capelli biondi di Shelley erano perfettamente legati in un chignon, e il suo trucco era più curato e preciso che mai. Zoe si domandò per un attimo come riuscisse sempre ad apparire così ordinata, nonostante avesse una figlia piccola a casa, e persino quando era costretta a salire su un aereo con un così breve preavviso.

“Due vittime,” disse Shelley. Aprì i dossier. “Evidentemente la squadra sul posto ha ritenuto di non poter fare a meno dell’aiuto dell’FBI. Ci hanno girato il caso volontariamente.”

“Volontariamente?” Zoe inarcò le sopracciglia. “Non mi stupisce che Maitland ci voglia lì il prima possibile. Probabilmente, ha pensato potessero cambiare idea.”

Non accadeva spesso che mettessero le mani su un caso che fosse stato loro ceduto intenzionalmente. Le forze dell’ordine di solito erano territoriali, volevano occuparsi personalmente di un caso dall’inizio alla fine. Zoe lo capiva. Ma questo, di solito, portava a un clima molto teso e a una cooperazione estremamente riluttante. Gli agenti locali erano inclini a sospettare che quelli dell’FBI arrivassero e sottraessero loro un caso, bollandoli come non idonei al servizio, nonostante di solito questo sospetto non avesse alcun fondamento reale. Sarebbe stato bello essere le benvenute, almeno una volta.

Shelley aprì il primo dossier e iniziò a leggere. “La prima vittima è un maschio, bianco, di poco più di trent’anni. Si chiamava John Dowling, ma la polizia del posto ci ha messo un bel po’ per identificarlo.”

Zoe cercò di ignorare il nome e il modo in cui sentirlo l’avesse colpita. Dopotutto, John era un nome piuttosto comune. Non avrebbe dovuto immaginare John sanguinante, colpito da un proiettile o strangolato per proseguire. “Per quale motivo?”

“Il cadavere era pesantemente ustionato. Secondo l’autopsia, qualcuno gli ha prima tagliato la gola, dopodiché ha portato il cadavere da un’altra parte e gli ha dato fuoco.”

“Sappiamo dove è stato commesso il crimine?”

Shelley esaminò gli appunti. “Ancora nessuna informazione sul luogo effettivo dell’omicidio. Si pensa possa essere stato commesso in un’abitazione privata, dato che sul luogo di ritrovamento non c’era molto sangue e non è stato segnalato nulla. Il corpo è stato portato in una strada isolata e bruciato nel cuore della notte. Quando un residente del posto lo ha notato ed è stato abbastanza coraggioso da avvicinarsi a dare un’occhiata, il fuoco ne aveva già fatto scempio.”

Shelley passò silenziosamente una foto alla sua partner. Mostrava un cadavere annerito e contorto, quasi al punto da essere irriconoscibile come essere umano. Sembrava un oggetto di scena, piuttosto che una persona in carne e ossa. Tanto di cappello a chi era riuscito a determinare la causa della morte, pensò Zoe. Deve essersi trattato di un lavoraccio.

C’era un’altra foto nel dossier, l’immagine sorridente di un giovane uomo. Mostrava John Dowling in vita; probabilmente era stata presa da uno dei suoi account social. Si trovava in una stanza piuttosto buia, e sullo sfondo erano visibili delle persone: probabilmente si trattava di una festa. Il ragazzo sembrava felice.

“Al momento abbiamo qualche indizio su di lui? Nemici, rancori?”

“Ancora niente. L’indagine è in corso.”

“Ok. E la seconda vittima?”

Shelley chiuse il primo dossier e prese il secondo, respirando con la bocca. “Storia simile. Sgozzata, poi bruciata. Una giovane donna, Callie Everard. Circa venticinque anni. Era anche bella.”

Zoe riuscì a stento a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo. La stupiva sempre il fatto che le persone, persino la sua esimia partner, dessero importanza a cose del genere. Giovane, vecchia, carina, brutta, magra, grassa: un morto era un morto. Ogni vita tolta era qualcosa sui cui investigare, ogni assassino qualcuno da punire. I particolari facevano poca differenza.

“Il luogo?”

“Questa volta è successo tutto nello stesso vicoletto. Sembra che l’assassino si sia avvicinato a lei, le abbia tagliato la gola, abbia aspettato che morisse e poi le abbia dato fuoco. Almeno ha avuto un po’ di pietà. A quanto pare, non era cosciente quando è stata bruciata.”

In questo caso, Zoe condivideva il sentimento della sua partner. C’erano pochissimi modi piacevoli di morire, ed essere bruciati non faceva parte di quella lista ristretta. “Cosa sappiamo di lei? Era stata forse presa di mira in qualche modo?”

“Gli agenti locali non hanno ancora finito di indagare. È stata trovata ieri, e sono riusciti a identificarla soltanto stamattina presto. Hanno informato i suoi familiari, tutto qui.”

Zoe cercò le foto. Questo cadavere era meno ustionato, anche se leggermente. Era comunque possibile capire che si trattava di una donna, e sul cadavere c’erano ancora brandelli di carne rossa e cruda che spiccavano su quella massa annerita.

“Riesci a capire qualcosa dalle immagini?” domandò Shelley.

Zoe alzò lo sguardo e si rese conto che la sua partner la stava osservando intensamente. “Non ancora. Non vedo niente di utile. il fuoco distrugge le cose, le altera. Non riuscirei neanche a stabilirne in modo attendibile l’altezza e il peso, se non avessimo i rapporti medici.”

“Entrambi giovani e in forma. Forse si tratta semplicemente di un delitto passionale. Magari avevano un amico in comune, o un ex amico, che ha perso la testa e ha deciso di sistemare la cosa a modo suo.”

“Magari.” Zoe sospirò e appoggiò la testa al sedile. Perché gli aeroplani dovevano essere sempre così scomodi? Aveva letto che i passeggeri in prima classe avevano dei letti. Figuriamoci se l’FBI metterebbe a disposizione dei suoi agenti qualcosa del genere.

“Allora, come vanno le cose?” chiese Shelley. Ripose i dossier nel suo bagaglio a mano e si accomodò sul sedile con un’espressione di complicità. “Sei uscita con John ieri sera?”

Era venerdì sera, e John sembrava felice del modo abituale con cui Zoe portava avanti la propria vita. Le stesse cose alla stessa ora. L’unica differenza era il luogo di incontro. “Sì.”

“E …?” domandò Shelley con impazienza. “Dettagli, Z. Sta andando bene tra di voi, vero?”

Zoe scrollò le spalle, voltando nuovamente la testa verso il finestrino. “Abbastanza bene, credo.”

Shelley si lasciò sfuggire un sospiro di insofferenza. “Abbastanza bene? Cosa vuol dire? Lui ti piace o no?”

“Ovvio che mi piace.” Zoe aggrottò la fronte. “Altrimenti per quale motivo ci uscirei tanto spesso?”

Shelley esitò, il suo riflesso nel finestrino inclinò lateralmente la testa. “Mi sembra giusto. Anche se ci sono persone che continuano a uscire insieme senza provare una vera e propria attrazione. Ma tu hai capito cosa intendo. I vostri incontri stanno diventando seri?”

Zoe chiuse gli occhi. Forse, così facendo, Shelley avrebbe capito l’antifona. “Non so cosa voglia dire, e comunque non credo di voler rispondere.”

Shelley si zittì e non disse nulla per un po’. Poi, silenziosamente, aggiunse: “Lo sai, non devi continuare a respingermi. Sai che puoi fidarti di me. Non dirò niente a nessuno. Non ho tradito il tuo segreto, o sbaglio?”

 

C’era la piccola questione di quella volta in cui Shelley aveva detto al loro superiore, Maitland, che Zoe era “brava in matematica”; ma Zoe non ritenne utile rivangare quell’argomento.

Non rispose, almeno non subito. Cosa avrebbe potuto dire? Certo, era parecchio riservata, lo era sempre stata. Doveva giustificare anche quello? Prima la dottoressa Monk, e adesso Shelley, stavano parlando come se lei avesse un problema. Come se fosse assurdo che una persona volesse tenere per sé la propria vita privata.

“Non capisco neanche perché continui a tenerlo segreto,” continuò Shelley. “Potresti davvero fare del bene.”

“Come?”

“Mettere a frutto le tue capacità. Catturare gli assassini.”

“Catturo già gli assassini.”

Shelley sospirò. “Sai cosa voglio dire.”

“No, in realtà non lo so,” rispose Zoe, più propensa che mai a cambiare discorso. “Quanto manca per arrivare?” Iniziò a battere le dita sullo schermo che aveva di fronte, cambiando pagina per mostrare il percorso e la posizione del loro volo, anche se sapeva perfettamente dove si trovassero e quanto tempo mancasse all’arrivo.

“Dovresti rifletterci su, comunque,” disse Shelley. “Mi pare che tu sia più felice quando hai attorno persone che conoscono il tuo segreto. Ti irrigidisci, tieni tutto dentro, quando credi che non sia sicuro. Forse, in generale, la tua vita sarebbe più facile se tutti sapessero.”

“Cinquantasei minuti,” disse Zoe, come se non l’avesse ascoltata. “Dovremmo prepararci. Ci converrà dirigerci direttamente sulla scena del crimine più recente dall’aeroporto. Hai l’indirizzo?”

Shelley non disse nulla, limitandosi a rivolgerle uno sguardo prolungato e strano prima di tornare ai dossier e cercare le informazioni di cui avevano bisogno.

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