La Tresca Perfetta

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La Tresca Perfetta
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l a   t r e s c a   p e r f e t t a
(un emozionante thriller psicologico di jessie hunt—libro 7)
b l a k e   p i e r c e
edizione italiana
a cura di
Annalisa Lovat

Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore statunitense oggi campione d’incassi della serie thriller RILEY PAGE, che include diciassette. Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende quattordici libri; della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri;  della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende cinque libri; della serie mistery KATE WISE che comprende sette libri; dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende sei libri; dell’emozionante serie thriller psicologico JESSE HUNT che comprende sette libri (e altri in arrivo); della seria thriller psicologico RAGAZZA ALLA PARI, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery ZOE PRIME, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della nuova seria thriller ADELE SHARP e della nuova serio di gialli VIAGGIO IN EUROPA.

Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com per saperne di più e restare informati.


Copyright © 2020 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. A eccezione di quanto consentito dall’U.S. Copyright Act del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuitao trasmessa in alcuna forma o in alcun modo, o archiviata in un database o in un sistema di raccolta, senza previa autorizzazione dell’autore. Questo ebook è concesso in licenza esclusivamente ad uso ludico personale. Questo ebook non può essere rivenduto né ceduto ad altre persone. Se desidera condividere questo libro con un'altra persona, la preghiamo di acquistare una copia aggiuntiva per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro e non l’ha acquistato, o non è stato acquistato esclusivamente per il suo personale uso, la preghiamo di restituirlo e di acquistare la sua copia personale. La ringraziamo per il suo rispetto verso il duro lavoro svolto da questo autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, imprese, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto della fantasia dell’autore o sono usati romanzescamente. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Immagine di copertina Copyright JakubD, utilizzata sotto licenza da Shutterstock.com.

LIBRI DI BLAKE PIERCE

LA SERIE THRILLER DI ADELE SHARP

NON RESTA CHE MORIRE (Libro #1)

NON RESTA CHE SCAPPARE (Libro #2)

NON RESTA CHE NASCONDERSI (Libro #3)


THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Volume#1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Volume #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Volume #3)


LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)


THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)


I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)

LA TRESCA PERFETTA (Libro #7)


I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)

FINESTRE OSCURATE (Libro #6)


I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)

SE LEI UDISSE (Libro #7)


GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)

PERSECUZIONE (Libro #5)


I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)


UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE

UNA LEZIONE TORMENTATA


I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)

PRIMA CHE INSEGUA (Libro #13)

PRIMA CHE FACCIA DEL MALE (Libro #14)


I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)


I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)

CAPITOLO UNO

Risuonarono degli spari e Jessie si svegliò di soprassalto.

Mezza addormentata, rotolò giù dal letto, afferrò la pistola dal suo comodino e corse verso la porta della camera da letto. Sembrava che gli spari arrivassero dal salotto. Guardò l’orologio: 1:08.

Mise da parte il pensiero di come qualcuno avesse potuto fare irruzione nel suo appartamento, eludendo tutte le ferree misure di sicurezza, e si concentrò sul compito che aveva per mano. C’era una minaccia dall’altra parte della porta. Non era in pericolo solo lei, ma anche Hannah, che dormiva nella stanza degli ospiti dal lato opposto del salotto.

Jessie fece un lungo, lento e profondo respiro prima di aprire la porta e sbirciare fuori. Vide un tenue bagliore nella stanza, prima che una seconda raffica di spari non la costringesse a ripararsi dietro alla parete. L’aggressore l’aveva vista? Si stava preparando a strisciare nel salotto, quando sentì una voce.

“Sei circondato, Johnny. Vieni fuori con le mani in alto,” ordinò una severa voce maschile.

Improvvisamente si udì una musica angosciante.

“Non mi ammazzerai mai!” gridò qualcuno con una netta parlata da gangster.

Jessie si permise di respirare normalmente per la prima volta in trenta secondi. Abbassando la pistola, si alzò in piedi ed entrò in salotto, dove vide che la televisione era accesa e sintonizzata su un qualche film giallo in bianco e nero.

Prese il telecomando dal tavolino e spense il televisore. Il cuore le stava ancora battendo forte mentre attraversava il salotto, spostando vestiti, scarpe e riviste da terra, arrivando infine alla porta aperta della camera di Hannah.

Infilò dentro la testa, dove vide la sorellastra diciassettenne, Hannah Dorsey, rannicchiata sul letto, addormentata. La ragazza aveva calciato via le coperte e si teneva abbracciata, tremando leggermente.

Jessie si avvicinò in punta di piedi, prese il piumone e glielo posò delicatamente sopra. La ragazza stava bofonchiando qualcosa di incomprensibile. La profiler criminale rimase in piedi accanto a lei, cercando di cogliere qualche parola. Ma dopo pochi secondi decise che non ci sarebbe riuscita e si arrese.

Tornò verso la porta, sempre in punta di piedi, si diede un’ultima occhiata alle spalle e poi chiuse la camera. Nonostante la implorasse di non farlo, questa era la terza volta nel corso dell’ultima settimana che Hannah lasciava la televisione accesa prima di andare a letto. Per fortuna era la prima volta che Jessie veniva risvegliata dal rumore di spari.

In parte avrebbe voluto scuotere la ragazza e svegliarla, trascinandola in salotto perché spegnesse lei la TV. Ma da quanto aveva appreso dalla newsletter sul ruolo dei genitori a cui si era recentemente iscritta, gli adolescenti avevano bisogno di un sacco di sonno in più per consentire a mente e corpo di crescere. Inoltre, se avesse interrotto il sonno di Hannah per rimproverarla, il giorno dopo sarebbe stata lei a pagarne le conseguenze, perché si sarebbe trovata contro una maggiore scontrosità.

Mentre attraversava il salotto per tornare in camera sua, Jessie si chiese se mai da qualche parte quella newsletter parlasse del bisogno di sonno extra, di tanto in tanto, anche per le professioniste quasi trentenni. Stava sorridendo sotto ai baffi, quando inciampò in una scarpa che Hannah aveva lasciato in mezzo alla stanza. Cadde sul pavimento, sbattendo con il ginocchio contro il tavolato di legno.

 

Si sforzò di trattenere le parolacce che avrebbe voluto gridare. Si limitò invece a sbuffare silenziosamente mentre si rimetteva in piedi e tornava zoppicante verso il suo letto. Con il ginocchio dolorante, il cuore ancora agitato e i pensieri che le vorticavano nella testa, si rassegnò a un’altra notte insonne, cortesia offertale dall’adolescente che aveva accettato di ospitare a casa sua.

Mi sa che dormivo meglio quando avevo un serial killer che mi dava la caccia.

Il suo tetro umorismo la fece ridere, ma non le fece certo prendere sonno.

*

“Non sono stata io,” disse Hannah con rabbia.

Jessie sedeva di fronte a lei al tavolo della colazione, stupefatta. Non poteva credere che la ragazza lo stesse negando.

“Hannah, qui vivono solo due persone. Io sono andata a letto prima di te. Quando ti ho detto buonanotte, stavi guardando la TV. Quando mi sono svegliata nel cuore della notte, era accesa. Non è necessario lavorare per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles per sapere chi l’ha dimenticata accesa.”

Hannah la guardò torva in volto, gli occhi verdi carichi di sicurezza e determinazione.

“Jessie, non voglio mancare di rispetto. Ma hai ammesso di fare fatica a dormire ultimamente. E alla tua età la memoria può cominciare a fare degli scherzi. Non può darsi magari che ti stia dimenticando qualcosa che tu hai effettivamente fatto, e ora me ne dai la colpa perché ti aggrappi allo stereotipo dell’adolescente pigra e smemorata?”

Jessie la fissò, ammutolita dalla sfrontatezza di Hannah. Era una mossa sorprendente, mentire su qualcosa di così ovvio, per nessun ragionevole motivo.

“Sai che di lavoro do la caccia ai serial killer, giusto?” le ricordò. “Non sono esattamente suscettibile a farmi dare della pazza da te.”

Hannah diede l’ultimo morso al suo toast e si alzò in piedi, i capelli biondo sabbia che le ricadevano sul viso mentre si rizzava in tutta la sua allampanata altezza di un metro e ottanta, solo pochi centimetri più bassa di Jessie.

“Non dobbiamo andare all’appuntamento con quella terapeuta questa mattina?” le chiese, ignorando del tutto il suo commento. “Pensavo fosse alle nove. Sono le otto e trentadue adesso.”

Andò verso la sua camera per finire di vestirsi, lasciando il piatto e la tazza vuoti sul tavolo. Jessie lottò contro l’impulso di richiamarla indietro e dirle di mettere quella roba nella lavastoviglie.

Si ricordò dei limiti personali che aveva stabilito quando Hannah si era trasferita a vivere da lei due mesi prima. Lei non era, e non avrebbe cercato di essere, un genitore della ragazza. Il suo lavoro era di fornire un ambiente sicuro per la sorellastra che non aveva mai conosciuto prima, in modo che si potesse riprendere dopo una serie di traumatici eventi. Il suo lavoro era di aiutare Hannah e reintegrarla in un mondo che sembrava essere fitto di pericoli. Il suo lavoro era di fungere da fonte di supporto e sicurezza. Jessie sapeva tutto questo, istintivamente e intellettivamente, eppure non poteva fare a meno di chiedersi perché diamine quella ragazzina non potesse mettere via un dannato piatto.

Mentre puliva e riordinava, si disse per la millesima volta che era tutto normale, che Hannah si stava comportando in modo da poter affermare il controllo sulla propria vita, cosa che ultimamente le era mancata. Doveva convincersi che non era niente di personale e che non sarebbe durato per sempre.

Continuò a ripetersi tutte queste cose. Ma dentro di sé non era sicura di credere a nessuna di esse. C’era una parte di lei che temeva che Hannah avesse dentro di sé una parte più oscura. E aveva paura che fosse irreversibile.

CAPITOLO DUE

Jessie stava diventando ansiosa.

Sapeva che la seduta di Hannah con la dottoressa Lemmon sarebbe finita da un momento all’altro. La ragazza sarebbe uscita dall’ufficio piangendo come era successo dopo l’ultimo incontro? O a muso duro come dopo i primi due?

Se qualcuno poteva avvicinarsi ad Hannah, Jessie doveva credere che fosse la dottoressa Janice Lemmon. Nonostante il suo aspetto senza pretese, con quella donna non si poteva scherzare. La sua struttura minuta, i capelli biondi permanentati e gli occhiali spessi facevano assomigliare la terapeuta comportamentale sessantenne più a una nonna che a uno dei più stimati esperti di comportamenti aberranti nella West Coast. Ma sotto quell’aspetto ordinario si trovava una donna così fortemente rispettata da far ancora di tanto in tanto da consulente per l’LAPD, l’FBI e altre organizzazioni di cui non parlava mai. Tra le altre cose, era anche la terapeuta di Jessie.

All’inizio Jessie si era preoccupata che dovendo trattare anche Hannah, avrebbe potuto trovarsi invischiata in un conflitto di interessi. Ma dopo qualche discussione, avevano concordato che c’erano pochi dottori qualificati per trattare una ragazza che aveva vissuto le esperienze di Hannah. E dato che la dottoressa Lemmon già conosceva profondamente parte della storia famigliare della giovane, era decisamente la scelta più logica.

Dopotutto era stata la dottoressa Lemmon ad aiutare Jessie a gestire la realtà che suo padre fosse il noto serial killer Xander Thurman. Era stata la dottoressa Lemmon ad accompagnarla attraverso gli incubi e l’ansia generati dall’aver assistito all’assassinio di sua madre per opera di suo padre, quando aveva solo sei anni. Era stata la dottoressa Lemmon a indurla ad aprirsi e a rivelare che era stata abbandonata da lui in un capanno in mezzo alla neve, destinata a morire, intrappolata per tre giorni accanto al cadavere in putrefazione della donna che chiamava mamma. Era stata la dottoressa Lemmon ad aiutarla a recuperare la sicurezza di poter affrontare suo padre quando era rientrato nella sua vita, ventitré anni più tardi, interessato a convertirla e trasformarla in un’assassina che operasse insieme a lui, o a ucciderla se non avesse accettato.

La donna era tra i terapeuti l’unica ovvia scelta, per poter lavorare con la sua sorellastra, che aveva in comune con lei lo stesso padre e incubi di simile brutalità. Solo pochi mesi prima, Thurman aveva rapito Hannah e i suoi genitori adottivi e aveva costretto la ragazza a guardare mentre li assassinava. Aveva quasi ucciso anche Jessie davanti ai suoi occhi. Solo la loro capacità di pensare rapidamente e il loro comune coraggio avevano permesso alle due donne di girare le carte in tavola e ucciderlo.

Ma anche dopo questo, il trauma di Hannah non era finito. Solo pochi mesi dopo la morte dei suoi genitori adottivi, un altro serial killer di nome Bolton Crutchfield, un seguace di suo padre con una certa fissa per Jessie, aveva ucciso i genitori affidatari della ragazza davanti a lei e l’aveva poi rapita. L’aveva tenuta per una settimana nello scantinato di una casa isolata, cercando di indottrinarla, di modellarla a suo piacimento insegnandole a uccidere come Thurman e lui stesso.

Lei era sopravvissuta anche a quell’orrore, salvata da Jessie e da un furbo doppio gioco ideato da lei stessa. Bolton Crutchfield era finito ucciso. E anche se non era più una minaccia fisica, Jessie non era così sicura che non fosse riuscito a infiltrarsi nella mente di Hannah, corrompendola con la sua fede malata, fatta di sangue e nichilismo.

Jessie si alzò in piedi, in parte per sgranchirsi, ma anche perché poteva sentire che stava sprofondando in una sorta di sabbie mobili mentali. Guardò la propria immagine riflessa nello specchio della sala d’aspetto. Doveva ammettere che, nonostante avesse passato gli ultimi due mesi come inaspettato tutore di un’adolescente problematica, aveva ancora un aspetto presentabile.

I suoi occhi verdi erano chiari e limpidi. I capelli castani lunghi fino alle spalle erano puliti, morbidi e sciolti, liberi dalla solita coda di cavallo che portava al lavoro. Un lungo periodo passato senza la paura di essere braccata da un serial killer le aveva permesso di recuperare una routine lavorativa semi-normale, donando alla sua statura di oltre un metro e ottanta una forza e una solidità che da tempo aveva perduto.

La cosa più impressionante di tutte era che nessuno dei suoi casi recenti si era presentato con sparatorie, attacchi con arma da taglio o niente che si avvicinasse a ferite personali. Come risultato, Jessie non aveva aggiunto nessuna nuova cicatrice alla sua enorme collezione, che includeva un segno all’addome, graffi lungo braccia e gambe e una lunga cicatrice rossastra a forma di luna che le percorreva per dieci centimetri circa la base del collo, dalla clavicola alla spalla destra.

La toccò senza pensarci, chiedendosi se stesse per arrivare il momento in cui qualcuno l’avrebbe vista, insieme a tutte le altre. Aveva la sensazione che lei e Ryan si stessero avvicinando al punto in cui sarebbero stati in grado di studiare vicendevolmente da vicino le loro imperfezioni.

Il detective Ryan Hernandez era, oltre al collega che la affiancava regolarmente nei casi, anche il suo ragazzo. Era strano usare quel termine, ma non c’era modo di aggirarlo. Si frequentavano semi-regolarmente almeno da quando Hannah si era trasferita a vivere da lei. E anche se non erano ancora arrivati a quel passo fisico finale, sapevano entrambi che ci mancava poco. L’attesa e l’imbarazzo rendevano l’ambiente lavorativo piuttosto interessante.

Jessie fu risvegliata dai suoi pensieri dalla porta che si apriva. Hannah né uscì, il suo aspetto né turbato né chiuso. Sembrava stranamente… normale, cosa che, considerato tutto quello che aveva vissuto, sembrava di per sé bizzarro.

La dottoressa Lemmon uscì insieme a lei e incrociò lo sguardo di Jessie.

“Hannah,” disse la donna, “voglio parlare un paio di minuti con Jessie. Ti spiacerebbe aspettare un momento qui?”

“Nessun problema” rispose Hannah sedendosi. “In due dovreste riuscire a determinare se sono pazza o no. Io avvertirò solo lo stato della vostra enorme violazione della regola della riservatezza sanitaria.”

“Mi pare una buona idea,” rispose la dottoressa Lemmon, senza adescare all’amo. “Vieni dentro, Jessie.”

Jessie si accomodò sulla stessa poltroncina che usava per le sue sedute e la dottoressa Lemmon prese posto sulla sedia di fronte a lei.

“Voglio essere breve,” disse la donna. “Nonostante il suo sarcasmo, non penso che sia di aiuto ad Hannah la preoccupazione che io stia condividendo con te i dettagli di ciò che mi dice, anche se le ho assicurato che non l’avrei fatto.”

“Che non l’avrebbe fatto o non avrebbe potuto farlo?” insistette Jessie.

“È ancora sotto i diciotto anni, quindi tecnicamente, in quanto suo tutore, potresti insistere. Ma penso che questo andrebbe a minare la fiducia che sto cercando di sviluppare con lei. Ci è voluto un po’ per indurla ad aprirsi in un modo reale. Non voglio mettere a rischio questo risultato.”

“Capisco,” disse Jessie. “Allora perché sono qua dentro?”

“Perché sono preoccupata. Senza entrare nei dettagli, dirò che a parte una seduta in cui ha mostrato un po’ di emozione riguardo a ciò che ha vissuto, Hannah è ampiamente… indifferente. In retrospettiva, dopo averla conosciuta, sospetto che quell’unica dimostrazione di emozione sia stata effettuata a mio beneficio. Hannah sembra essersi dissociata dagli eventi che le sono accaduti, come se fosse stata un’osservatrice, piuttosto che una partecipante.”

“La cosa non mi sembra sorprendente,” disse Jessie. “Anzi, la sento scomodamente familiare come sensazione.”

“Come è giusto che sia,” confermò la dottoressa Lemmon. “Tu stessa hai attraversato un periodo simile. È un modo piuttosto consueto del cervello per spiegare un trauma personale. Categorizzare degli eventi traumatici o disconnettersi da essi non è insolito. Quello che mi preoccupa è che Hannah non sembra farlo per proteggersi dal dolore di ciò che le è successo. Sembra aver semplicemente cancellato il dolore dal suo sistema, quasi come un disco fisso che viene svuotato. È come se non vedesse come doloroso quello che ha vissuto, ma le considerasse semplicemente delle cose che sono accadute. Si è narcotizzata e li considera fatti che non hanno niente a che vedere con lei o con la sua famiglia.”

“E mi viene da pensare che non sia una mossa salutare?” chiese Jessie pensierosa, mentre si spostava nervosamente sulla sua poltroncina.

“Odio dover giudicare la cosa,” disse la dottoressa Lemmon con il suo solito tono misurato. “Per lei sembra funzionare. La mia preoccupazione è dove questo possa portare. Le persone che non riescono a entrare nel proprio dolore emotivo, a volte arrivano al punto in cui non sono in grado di riconoscere il dolore degli altri, emotivo o fisico che sia. La loro capacità di provare empatia si disintegra. Questo può spesso portare a un comportamento socialmente inaccettabile.”

 

“Quello che mi sta descrivendo sembra sociopatia,” sottolineò Jessie.

Sì,” confermò la dottoressa Lemmon. “I sociopatici mostrano alcune di queste caratteristiche. Non farei una diagnosi formale per Hannah, sulla base del tempo limitato che abbiamo passato insieme. Buona parte di questo potrebbe essere semplicemente attribuito a un profondo stato di DPTS. Ad ogni modo, hai notato qualche comportamento che possa essere ricondotto a ciò che ho appena descritto?”

Jessie pensò agli ultimi mesi, a partire dall’inesplicabile e insensata bugia riguardo alla televisione quella mattina stessa. Ricordò come Hannah si fosse lamentata quando Jessie aveva insistito nel portare da un veterinario un gattino malato e abbandonato che avevano trovato nascosto sotto a un cassonetto. Ricordò come la ragazza fosse rimasta in silenzio per ore, indipendentemente da ciò che Jessie aveva fatto per tentare di farla parlare. Pensò alla volta che aveva portato Hannah in palestra e a come la sua sorellastra aveva iniziato a prendere a pugni il pesante sacco senza indossare guanti, colpendolo fino a trovarsi con le mani scorticate e sanguinanti.

Tutti quei comportamenti sembravano corrispondere alla descrizione della dottoressa Lemmon. Ma si potevano anche facilmente interpretare come le azioni di una giovane donna che cerca di elaborare il suo dolore interiore. Niente di tutto questo significava che Hannah fosse una futura sociopatica. Jessie non voleva neanche avvicinarsi a un’etichetta del genere, neppure con la dottoressa Lemmon.

“No,” mentì.

La terapeuta la guardò, ovviamente poco convinta. Ma non insistette, passando a un’altra priorità.

“Come va la scuola?” le chiese.

“Ha iniziato la settimana scorsa. L’ho inserita nella scuola superiore terapeutica che lei mi ha consigliato.”

“Sì, io e lei ne abbiamo parlato brevemente,” confermò la dottoressa. “Non sembrava particolarmente colpita. È anche la tua sensazione?”

“Penso che il modo in cui ha posto la cosa sia ‘per quanto tempo devo frequentare questi drogati e aspiranti suicidi prima di poter tornare in una scuola vera?”

La Lemmon annuì, chiaramente non sorpresa.

“Caspico,” disse. “Con me è stata un po’ meno esplicita. Capisco la sua frustrazione. Ma penso che sia necessario tenerla in un ambiente sicuro e fortemente controllato almeno per un mese, prima di considerare il passaggio a una scuola tradizionale.”

“Questo lo capisco. Ma so che è frustrata. Doveva diplomarsi quest’anno. Ma con tutto il tempo che ha perso, anche in una scuola tradizionale, dovrà frequentare i corsi estivi. Non è che impazzisca di gioia per essere finita con, come li chiama lei, ‘i bruciati al cervello e i cretini’.”

“Un passo alla volta,” disse la dottoressa Lemmon, per niente turbata. “Andiamo avanti. Tu come stai?”

Jessie rise nonostante tutto. Da dove cominciare? Prima che potesse parlare, fu la dottoressa Lemmon a farlo.

“Ovviamente non abbiamo tempo per una seduta completa in questo momento. Ma come te la stai cavando? Sei improvvisamente responsabile di un minore, hai iniziato una relazione con un collega, il tuo lavoro ti richiede di entrare nelle teste di brutali assassini, e stai gestendo il crollo emotivo di aver messo fine alle vite di due serial killer, uno dei quali era tuo padre. Mi pare ci sia abbastanza materiale per giocare.”

Jessie fece un sorriso forzato.

“Detta così, non sembra poi chissà che roba.”

La dottoressa Lemmon non sorrise.

“Dico sul serio, Jessie. Devi restare cosciente della tua salute mentale. Questo non è un periodo pericoloso solo per Hannah. Il rischio che anche tu abbia una regressione è significativo. Non fare l’eroina al riguardo.”

Jessie fece sparire il sorriso, ma mantenne le labbra rigide.

“Sono consapevole dei rischi, dottoressa. E sto facendo del mio meglio per prendermi cura di me. Ma non è che possa prendermi una giornata per andare alla spa. E se smetto di muovermi, verrò investita.”

“Non sono sicura che sia vero, Jessie,” disse la Lemmon con voce sommessa. “A volte, se ci si ferma, il mondo fa marcia indietro e tu puoi rimontare in sella. Sei una persona di valore, ma non essere arrogante. Non sei così indispensabile in questo mondo da non poter cliccare il tasto pausa di tanto in tanto.”

Jessie annuì, aggressive e sarcastica.

“Ne ho preso nota,” disse, fingendo di scrivere un appunto. “Non essere arrogante. Non indispensabile.”

La dottoressa Lemmon corrucciò le labbra, apparendo quasi irritata. Jessie cercò di andare oltre.

“Come sta Garland?” chiese con tono beffardo.

“Scusa?” chiese la Lemmon.

“Sa, Garland Moses, consulente profiler per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Mi ha aiutato a trovare e salvare Hannah, più vecchio, aspetto trasandato in quel modo un po’ affascinante da ‘chi se ne frega’.”

“Conosco il signor Moses, Jessie. Non sono sicura del perché tu mi stia chiedendo di lui.”

“Per nessun motivo,” le rispose, sentendo che era andata a segno. “È solo che ha accennato a lei qualche tempo fa, e qualcosa nel suo tono mi ha dato l’impressione che foste pappa e ciccia. Quindi mi stavo chiedendo come se la stesse passando.”

“Penso che con questo il nostro tempo oggi sia finito,” disse bruscamente la dottoressa Lemmon.

“Wow,” disse Jessie, questa volta sorridendo sul serio. “Ha chiuso davvero velocemente, dottoressa.”

La dottoressa Lemmon si alzò in piedi e le fece segno di andare verso l’uscita. Jessie decise di mollare. Quando ebbero raggiunto la porta, si girò verso la terapeuta e le pose la domanda che la stava tormentando da qualche minuto.

“Sul serio, dottoressa, se Hannah sta seguendo la strada alla fine della quale farà fatica a provare empatia per le altre persone, ci saranno modi di farla tornare indietro?”

La dottoressa Lemmon esitò e la guardò fissa negli occhi.

“Jessie, ho passato trentacinque anni della mia vita a cercare di rispondere a domande come questa. La migliore risposta che posso darti è: lo spero.”

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