Бесплатно

Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

Текст
iOSAndroidWindows Phone
Куда отправить ссылку на приложение?
Не закрывайте это окно, пока не введёте код в мобильном устройстве
ПовторитьСсылка отправлена

По требованию правообладателя эта книга недоступна для скачивания в виде файла.

Однако вы можете читать её в наших мобильных приложениях (даже без подключения к сети интернет) и онлайн на сайте ЛитРес.

Отметить прочитанной
Шрифт:Меньше АаБольше Аа
 
At bello audacis populi vexatus, et armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
auxilium imploret, videatque indigna suorum
funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
Hoc precor, ecc.
 

E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo dellʼEneida finge che Giunone, sollecita di Turno, nel mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della contrada deificato e chiamato Giove indigete.

«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare, disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice, denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio in libro Duodecim Caesarum dice, quando egli uscí candidato di casa sua, egli lasciò la madre, e dissele: – Io non tornerò a te se non pontefice massimo; – e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e da quel cotale cognominato Cesare ab caesura, cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero, tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto, di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse Plinio, in libro De naturali historia, che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente: e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini: né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».

Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto; percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio, Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse. Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon questi suoi adultèri taciuti in parte daʼ suoi militi, triunfando egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato: – Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare; – ed altri dicevano: – Ecco Cesare, che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si sottomise Cesare. – Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu detto da molti: – Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il calvo adultero. – E nella persona di lui proprio furon gittate queste parole: – Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso in prestanza. —

Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi, accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome sia «Giulia».

«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore, o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

 

«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia, quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno: avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi, venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e, per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse, Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella, che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.

«Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino». Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio nellʼEneida dice:

 
…Rex arva Latinus et urbes
iam senior longa placidas in pace regebat.
Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
accepimus.
 

Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio Sopra Virgilio dice che, secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino, «Solis avi specimen», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi, allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:

 
…et innantem Maricae
littoribus tenuisse Lirim;
 

e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive De origine linguae latinae, dice che Pallanzia, figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima battaglia.

«Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente: e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio in libro Temporum dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.

«Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e, non finendosi la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra; e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto, disse: – Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente. – Ma per questo non tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir non voleva, le disse: – Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò, e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia trovata. – Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però, quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.

Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto: li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la domandò Collatino: – Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le cose nostre? – A cui Lucrezia rispose: – Che salvezza può esser nella donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo che di te. – E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia, ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello, disse: – Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi impudica. – E detto questo, e posto il petto sopra la punta del coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo, Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata la battaglia degli altri, gridò: – Questi è colui che mʼha del regno cacciato; – e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui. Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto, lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia, fu amarissimamente pianto, e poi, secondo lʼuso di queʼ tempi, onorevolmente fu seppellito.

 

«Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.

«Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia, lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non dovere per lʼetá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su lʼaurora picchiò allʼuscio di Catone, e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro che solamente il nome dʼesser moglie di Catone, e sotto lʼombra di questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per suo marito.

«Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che, essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo, suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono, era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli lʼanimale, che sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che nel ventre avea, e quindi morirsi.

«E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi, seguendo le parti di Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto, dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.

«E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.

«Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno, Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica famiglia».

Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»