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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, deʼ quali ciascuno fu nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale lʼautor si voglia dire, brievemente diremo dʼamenduni. Fu adunque lʼuno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá vivere, avendo allʼaltrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti in Cicilia, in queʼ tempi da miserabile servitudine oppressa, soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. Deʼ quali Zenone alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú col tiranno eran congiunti, e neʼ quali esso piú si fidava: e in tal guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá deʼ giovani circustanti: e quantunque dʼetá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue parole i cuori deʼ giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore, uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.

Lʼaltro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una medesima costanza di animo alla precedente nʼ ho che raccontare. Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il quale, per forza di tormenti, sʼingegnava di sapere chi fossero quegli che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati, disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava, ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che, cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per lʼorecchio coʼ denti, né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli daʼ circustanti amici del tiranno ucciso fosse.

«E vidi ʼl buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dellʼerbe; e che esso intenda dellʼerbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse, non lessi giammai; e di lui niunʼaltra cosa ho che dire, se non che esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.

«E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, in libro Divinarum institutionum in gentiles scrive, fu figliuolo dʼApolline e di Calliope musa, e a costui scrive Rabano, in libro Originum, che Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti scrivono, che egli faceva muovere le selve deʼ luoghi loro, e faceva fermare il corso deʼ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli diventar mansuete. Di costui, nel quarto della Georgica, racconta Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo, cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con certe fanciulle su per la riva dʼun fiume chiamato Ebro, Aristeo la volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo, pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nellʼerba; per che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in compassione di sé, ma ancora facesse allʼanime deʼ dannati dimenticare la pena deʼ lor tormenti, Proserpina, reina dʼinferno, mossasi, gli rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe, senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla. Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé; laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei perduta avea, di mai piú non volerne alcunʼaltra, ma di menar vita celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, si come dice Ovidio, avendo il matrimonio di moltʼaltre, che il domandavano, ricusato, cominciò a confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco, che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, coʼ marroni e coʼ rastri e con altri stromenti da lavorar la terra lʼuccisono e isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nellʼEbro, infino nellʼisola di Lesbo furono dallʼacque menate: e, volendo un serpente divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra lʼaltre imagini celestiali.

Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere stato di Tracia, e nato dʼuna gente chiamata «cicona»: e secondo che Solino, De mirabilibus mundi, afferma, questi cotali ciconi infino nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di queʼ primi sacerdoti che furono ordinati in queʼ tempi, che prima si cominciò in Grecia a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo Tebaida, egli fu di queʼ nobili uomini, li quali furono chiamati argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», neʼ quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco, e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi daʼ cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite: e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si prendeva guardia, coʼ marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro. Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte, e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio in libro Temporum scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato discepolo dʼOrfeo.

«Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine fu dʼArpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di queʼ popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché si legge li suoi passati essere stati re della lor città. Questi, giovanetto, venne a Roma; e già in eloquenza valendo molto, avendo lʼanimo gentile, sempre sʼaccostò aʼ più nobili uomini di Roma. I suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri. Egli ancora giovinetto compose in rettorica lʼArte vecchia e la Nuova. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultà un libro chiamato De oratore, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici libri, sì come quello De officiis, Delle quistion tusculane, De natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus, De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis ed altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu fatto dellʼordine del senato, e insino al sommo grado del consolato pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio daʼ romani, e poi, finito lʼanno, rivocato e con mirabile onore ricevuto. E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato in Roma, né però fu privato dellʼordine senatorio. Ultimamente fu di quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola deʼ proscritti da Antonio triumviro, il quale fieramente lʼodiava, se nʼandò a Gaeta. Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio che gli concedesse di perseguirlo e dʼucciderlo: ed ottenutolo, lui nel campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella testa che la sua avea liberata da morte.

 

«Lino» (supple) vidi. Lino fu tebano, uomo dʼaltissimo ingegno e in musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro dʼErcole; e fu aʼ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste regnarono in Micena ed Egeo in Atene.

«E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza dʼun altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo; percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali lʼuno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e lʼaltro Lucio Anneo Mela, padre di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse, venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nellʼisola di Corsica, nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone Cesare; aʼ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito neʼ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore dʼun famoso filosofo in queʼ tempi, chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose molti e laudevoli libri, sí come il libro De beneficiis, quello De ira, quello De clementia a Nerone, quello De tranquillitate animi, quello De remediis fortuitorum, quello De quæstionibus naturalibus, quello De quatuor virtutibus, quello De consolatione ad Elviam e altri piú. Ma sopra tutti fu quello Delle pistole a Lucillo, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello ancora che si chiama Le declamazioni. Compose, oltre a questi, un altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e della sua poca laudevol vita.

Ma, poi che Claudio, per lo ʼnganno dʼAgrippina, sua moglie, fu morto dal veleno, datogli mangiare neʼ boleti, e per lʼastuzia di lei posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone, figliuolo adottivo del detto Claudio e dʼAgrippina e discepolo di questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina, sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, coʼ suoi consigli, lʼanimo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo Seneca, per menomare la ʼnvidia portatagli, pregò Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando che nellʼanimo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece. Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga compagnia deʼ clientoli, e a dimorare il più del tempo ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.

Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti deʼ senatori e da più altri dellʼordine equestre, e daʼ centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagità e come uomo che era disideroso dʼadoperare crudelmente la sua potenza coʼ ferri. Ed essendo per ventura di queʼ dí, secondo che scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue Storie, tornato Seneca di campagna, sʼera rimaso in una sua villa, quattro miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno dʼuna coorte pretoria, approssimandosi giá lʼora tarda, andò e quella intorniò dʼuomini dʼarme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina sua moglie, e con due deʼ suoi amici mangiare. E mangiando egli, gli manifestò il comandamento fattogli dallʼimperadore, cioè: uno, chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato, che fatto lʼavea per cagione della sua infermitá e per disiderio di riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale Nerone domandò se Seneca sʼapprestava a volontaria morte. Rispose: niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli sʼeleggesse la morte. Il quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno deʼ centurioni, che gli dicesse lʼultima necessitá: la quale Seneca senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò Seneca, voltosi aʼ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono, essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in fermezza dʼanimo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di Nerone; e che niunʼaltra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ʼl fratello uccisi, se non dʼuccidere il suo maestro e colui che allevato lʼavea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti sʼaveva apparecchiato. Il quale preso, né dʼalcuna cosa offendendolo, per li membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno dʼacqua molto calda, nel quale entrando, con le mani, queʼ servi che piú prossimani gli erano, presa dellʼacqua, risperse. Daʼ quali fu udita questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore. E poco appresso dal vapore caldo dellʼacqua fu ucciso, e senza alcuna pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico, arso il corpo suo.

Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio Flavio aveva coʼ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che lʼimperio fosse dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú fosse stato eletto allʼaltezza del principato.

Ma, come che lʼautore in questo luogo il ponga come dannato, io non sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no: conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno nellʼultima di quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali, bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita, perché traʼ dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte di lui da san Girolamo in libro Virorum illustrium, nel quale scrive cosí: «Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus, et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus, cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone interfectus est».

[E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua salute, quasi lʼultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore; parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale i nostri santi chiamano «flaminis», non essendo rigenerato secondo il comune uso deʼ cristiani nel battesimo dellʼacqua e dello Spirito santo, quellʼacqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dellʼumana generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile, come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello crederne che gli pare.]

 

«Euclide geometra» (supple) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo, nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo di Platone, e, percioché insino neʼ nostri dí è perseverata la fama sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro filosofo trapassato. Esso adunque compose il libro delle Teoremate in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio ottimamente scritto.

«E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato di queʼ re dʼEgitto, percioché molti ve nʼebbe con questo nome; e altri credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la incarnazione di nostro Signore, cioè aʼ tempi dʼAdriano imperadore, sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in queʼ tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che venir doveano, esso piú libri compose, traʼ quali fu lʼAlmagesto, il Quadripartito, e ʼl Centiloquio, e molte tavole a dovere con le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi deʼ pianeti e i lor movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.

«Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano in libro XVIII Originum scrive, fu figliuolo dʼAsclepio, e regnante Artaserse, re di Persia, nacque nellʼisola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa egli confessò esser vera, ma che lʼastinenza lʼavea fatto casto, e lʼassiduitá dello studio lʼavea fatto ingegnoso. E veramente fu egli ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza dʼingegno ritrovò la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui, investigate le virtú dellʼerbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò; appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso dʼIppolito, figliuolo di Teseo, re dʼAtene, che, fuggendo la sua ira, daʼ cavalli che il suo carro tiravano, spaventati daʼ pesci chiamati «vecchi marini», li quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, peʼ luoghi petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera concio che ciascuno giudicava lui morto: per lʼarte e sollecitudine di questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ognʼuomo perciò lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove sʼera turbato che alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta lʼarte della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo De historia naturali, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano, nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento anni; e cosí costui, dʼarte cosí opportuna allʼumana generazione si può dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo nelle Questioni del Genesi che, avendo una femmina partorito un bel figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare, non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo, fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse novantacinque anni, e poi si morí.

[«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo prencipe e dʼalta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro non ne so.]

«E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano, al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni ottantasette, finío la vita sua.

«Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna; altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo dʼeccellente ingegno, intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella dʼogni altro filosofo preposta. «Che ʼl gran comento feo»: sopra i libri dʼ Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ʼl «comento», che sopra lʼopera dʼalcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e dilucida: e cosi è fatto quello dʼAverrois.

Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che lʼautore a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali che non peccâro: «e sʼegli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne nomina lʼautore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il quale è intitolato Sine titulo, assai chiaro può vedere lui essere stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a questo, nel libro il quale egli compuose De arte amandi, dá egli pessima e disonesta dottrina aʼ lettori. Appresso, è ancora di questi Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse, e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il tradimento dʼIlione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è, fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò lʼonestá; rubò e votò lʼerario publico deʼ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata. Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale, come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo, adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello. E questi peccati, li quali io dico che neʼ predetti furono, mostra lʼautore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, lʼautore a se medesimo contradire.

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