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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Legione italiana!

Legionari! Il cannone tuona – il punto in cui siamo è in pericolo, come in posizione di essere tagliato fuori, e poi il giorno di domani ci promette un campo di battaglia degno di voi.

Adunque vi chiedo ancora una notte di sacrificio, progrediamo la marcia.

Viva l'indipendenza italiana.

Merate, 4 agosto 1848.
G. Garibaldi

Fatti quindi nella notte stessa gli apparecchi della partenza per la via più corta e sicura di Pontida – Brivio – Merate, dopo trent'ore di marcia forzata, verso le due pomeridiane del giorno 5 giunse a Monza.

Conduceva con sè cinquemila uomini circa, e fra essi, confuso co' gregari del battaglione Anzani, venuto a chiedere in quella suprema angoscia della patria il suo posto di combattimento, Giuseppe Mazzini armato di carabina inglese, pronto a dare come semplice legionario italiano la vita per la patria.

Monza, finchè Milano resisteva era una buona posizione di fianco sulla destra dell'esercito austriaco, e quand'anche fosse stato impedito di penetrare nell'assediata città, l'audace condottiero avrebbe potuto molestare il nemico e recare agli assediati anche dal di fuori un non spregevole soccorso, ma troppo tardi! Sfasciato l'esercito; discordi i generali; riescite sfortunate le prime fazioni sotto le mura; smarrita ogni speranza, disordinate, inesperte le milizie cittadine; diviso il popolo; impossibile persino l'eroismo della disperazione, certo l'eccidio della città e con esso inevitabile la ruina del Piemonte e della sua libertà; in tale frangente Carlo Alberto ebbe il triste coraggio di fare col proprio sacrificio sua l'onta amara di una resa, che la giustizia della storia attribuisce a molti altri più che a lui, e la sera del 4 agosto mandò una proposta di armistizio al nemico, che la accettò.

L'annunzio dell'armistizio Salasco colpì tutta la Lombardia, e fu inteso con un sentimento d'incredulità, e Garibaldi, anzichè pensare alla ritirata, deliberò di marciare prontamente in soccorso di Milano.

Invano! tutto era finito! L'esercito piemontese in ritirata verso il Ticino, l'esodo dei patriotti e dei proscritti era già incominciato; Radetzky superbo come un conquistatore, passeggiava per le vie di Milano.

Nel frattempo un altro fatto degno di essere ricordato era avvenuto in Bologna.

CAPITOLO VIII
Sollevazione di Bologna

Il giorno 8 agosto fin dal mattino, v'erano state provocazioni fra le truppe austriache ed i cittadini. Tra il pro-legato Bianchetti e il generale Velden, era stato convenuto che le truppe austriache non sarebbero stanziate colle armi in città, riservandosi la sola guardia delle Porte di San Felice, Galliera e Maggiore.

Alla Guardia Civica era affidato il servizio della città, e l'onorevole posto della Gran Guardia al Pubblico Palazzo.

Tali patti non vennero mantenuti, e soldati armati erano entrati in città, sfidando e provocando i cittadini; ne seguirono delle risse con ferimento di un ufficiale e di alcuni croati, quindi scorrerie in città di truppe a piede ed a cavallo, entrate da Porta San Felice, ed un corpo di cavalleria alle 9 del mattino, entrato da Porta Maggiore, recavasi ad occupare la piazza.

Fu un fremito generale per la città e gli atti minacciosi degli austriaci non si vollero tollerare. Datone il segno, tutte le campane della città suonarono a stormo, i tamburi della guardia civica batterono a raccolta; gli armati volarono alla difesa; gli inermi, non atterriti dalle minaccie nemiche, si diedero ad erigere barricate.

Gli austriaci senz'altro cominciarono l'attacco lungo la linea che da Porta San Felice stendesi a quella Galliera, punto formidabilmente battuto.

Da porta Galliera la mitraglia contro la strada diretta recava danni gravissimi; cannoni, dalla Montagnola e da piazza d'armi, fulminano contro le case e gli sbocchi delle vie.

Le racchette, i razzi, le bombe piovendo nella città, recavano gravi guasti agli edifizi, ed appiccavano incendi, che i bravi pompieri a stento riuscivano con ammirevole coraggio a domare.

Ma il popolo non si atterrisce, anzi cresce il suo sdegno di fronte a tali barbarie e armatosi di fucili o con qualsiasi altro mezzo offensivo che può trovare incomincia una disperata difesa. Si combatteva da due ore virilmente da parte dei cittadini; quando la guardia civica con due cannoni si piantò alla Montagnola menando strage dei nemici, che sfiduciati e vinti si danno alla fuga, lasciando prigionieri ufficiali e soldati. Per fortuna loro il popolo, senza alcuna direzione, non pensò di approfittare della fuga, nè d'impadronirsi dei cannoni che poterono portar seco.

Fu universale il grido di gioia da parte dei cittadini quando, usciti i nemici, si videro padroni di Porta Galliera.

Ma la gioia della vittoria non fece dimenticare i pericoli ai quali la città era esposta. Fu ordinato un servizio di sorveglianza e di difesa lungo tutte le mura, e fu salutare consiglio.

Un corpo di cavalleria muovendo da S. Felice si dirigeva lungo gli spalti esterni verso Porta S. Mamolo, minacciando d'impadronirsi degli sbocchi e dei Colli che da quel lato sovrastano e dominano la città; una mano di bravi giovani, appostata in un interno riparo, lasciarono venirsi sotto i cavalieri nemici e con una scarica generale ne ferirono diversi e misero in fuga gli altri.

I bolognesi non si addormentarono sulla vittoria; essi si prepararono alla difesa per potere accogliere come si conveniva il nemico.

Si creò un comitato di pubblica salute, il quale subito si mise all'opera pubblicando il seguente manifesto:

Fratelli delle Romagne e d'Italia!

"Dopo di avere occupato tre porte principali della città ed i suburbi, l'insolente austriaco credeva di potere gettare il fango a piene mani su un popolo italiano; il castigo fu pronto. L'amor della patria e l'onore d'Italia fa gagliardamente palpitare il cuore del nostro popolo quanto ogni altro generoso; in breve, dopo ostinata pugna, gli austriaci furono cacciati dai posti che avevano proditoriamente occupati e dalla Montagnola, ove avevano fatto il loro inespugnabile baluardo, che credevano di tener saldo coi cannoni bombardando la città. Un popolo quasi inerme fece mordere la polvere a molti di quei tristi, e ne incatenò molti altri.

"Dopo la prima vittoria la causa non è vinta; accorrete in armi tutti, generosi fratelli a dividere la gloria come divideste per tanto tempo i dolori.

Bologna, 9 agosto 1848.

Bianchetti, Pro-delegato – Pepoli Gioacchino-Napoleone – Biancoli Oreste – Berti Lodovico – Gherardi Silvestre – Dottore Frezzolini – Rusconi Federico".

Ma il destino era segnato, l'Italia doveva ancora soffrire il servaggio dello straniero, causa non ultima le nostre discordie.

CAPITOLO IX
Garibaldi continua la lotta contro l'Austria

La Lombardia dopo l'Armistizio avea piegato il capo al duro destino; era forza che Garibaldi piegasse il suo; ma la sua doveva essere la ritirata d'un leone! Decide pertanto di piegare su Como, sperando che il paese, scosso dal primo sbalordimento, si leverebbe in armi per riprendere la lotta. Infiammato da questa fede arrivava coi suoi a Camerlata; ivi prendeva posizione e si trincerava: di là spediva messi al Griffini, al D'Apice, al Manara, all'Arcioni perchè si riunissero a lui per continuare la guerra Santa; apriva nuovi arruolamenti invitando alle armi il paese. Tutto inutile! Il Griffini per la Valcamonica, il d'Apice per la Valtellina, erano già in via sul confine Svizzero; il Manara, il Dandolo, il Durando subendo l'Armistizio, s'erano incamminati verso il Ticino; la sua Colonna, anzichè ingrossare perdeva più della metà dei suoi uomini; una cosa era sicura: che gli Austriaci s'avanzavano, e in poche giornate potevano avvilupparlo.

Tuttavia non volle darsi vinto. Levò bensì il campo dirigendosi verso San Fermo; ivi giunto, fece formare sulla piazza il quadrato e arringò i rimasti; disse che sarebbe stata vile cosa deporre le armi; che bisognava continuare la guerra di banda e con altre parole incisive che egli sapeva così ben trovare, tentava comunicare il suo sacro fuoco agli altri – ma il silenzio eloquente fu la prima risposta; nuove e numerose diserzioni, furono il commento di quel silenzio.

Calato il cappello sugli occhi come era solito fare nei momenti più torbidi, l'eroe iniziò la marcia senz'altro col resto de' suoi su Varese; passatavi la notte del 9, ripartiva il mattino seguente per il Lago Maggiore, e tragittato il Ticino a Sesto Calende approdò la sera del 10 agosto a Castelleto presso Arona. La mattina dell'11 s'impadronì nel porto d'Arona dei due piroscafi "S. Carlo" e "Verbano" v'imbarcò in essi e in alcuni navicelli a rimorchio, i millecinquecento uomini rimastigli; risalì il Lago Maggiore e sbarcò a Luino ove pose il suo campo.

Era la prima delle sorprese con cui Garibaldi doveva far meravigliare popoli e governi.

Già aveva deciso di non lasciare la terra Lombarda senza misurarsi con lo straniero. Egli mantenne il suo voto, nè l'occasione si fece attendere.

Fin dalla mattina del 15 una colonna di Austriaci forte di duemila uomini era partita da Varese coll'intenzione di attaccare i legionari italiani. Garibaldi era ammalato nell'albergo della Reccaccia posto a piccola distanza da Luino sulla strada di Varese. Medici vegliava per lui. Barricata la strada al di là dell'albergo, collocati gli avamposti, spediti esploratori a scandagliare i dintorni, stava in guardia pronto alle armi. Non era scoccato il mezzogiorno che gli esploratori vennero ad annunciargli l'avanzarsi del nemico.

Medici corse ad avvertire Garibaldi il quale, dimentico del male che lo tormentava, balzava dal letto, montava a cavallo, spiegava una parte della sua colonna sulla strada nei campi circostanti, appostava sulla sinistra il Medici col rimanente del corpo, lasciava, secondo il suo costume di guerra, avvicinare il nemico e, scambiati pochi colpi, lo caricava alla baionetta, prima di fronte, poi colla colonna del Medici di fianco. In poche ore di fiera lotta lo metteva allo sbaraglio, inseguendolo per lungo tratto di via e costringendolo a lasciare sul terreno, tra morti feriti e prigionieri, circa duecento uomini.

 

Una nuova campagna era incominciata in Lombardia! Il giorno 16 stette ad aspettare un nuovo assalto del nemico, che non si fece vedere; il dì seguente per la Valgana, s'avvicinò a piccole tappe a Varese, dove entrò il 18 alle cinque del pomeriggio.

La patriottica città lo accolse trionfalmente. Vi passò in riposo la giornata del 19, e la mattina del 20 avvertito dell'avvicinarsi di un grosso corpo di Austriaci ordinò la ritirata sulle colline d'Induno, spingendo Medici ad Arcisate. Il giorno appresso alcune compagnie presentavansi in ricognizione e, raccolte le notizie sulle posizioni occupate da Garibaldi, ripartivano. Il 23 tutta la divisione D'Aspre, comandata dal generale in persona, forte di dodicimila uomini, entrava in Varese, mentre due altre colonne Austriache, l'una da Luino e l'altra da Como, erano in moto per occupare tutti i passi della Valcuvia e del Mandrisiotto con l'intendimento di impedire a Garibaldi ogni ritirata e farlo prigioniero.

Garibaldi comprese che se lasciava tempo a tutte quelle colonne nemiche di compiere le loro manovre, chiusa ogni via di scampo, ne sarebbe rimasto schiacciato. Non esitò un istante; lasciò Medici ad Arcisate con duecento uomini, con l'ordine di tenere a bada e molestare il nemico, di resistere più che avesse potuto, ed all'estremo di rifugiarsi in Svizzera; egli risalì per un tratto la Valgana, per confermare gli avversari nella credenza che volesse difendersi su quegli altipiani, poi ad un tratto mutò direzione, girò per Valcuvia, scese rapidamente su Gavirate, costeggiò il Lago e per Capolago e Gazzada, dopo due giorni di marcia forzata riuscì a Morazzone, alle spalle del nemico che credeva averlo sempre di fronte.

Il generale D'Aspre non durò a lungo nell'inganno, perchè uno spione lo avvertì dell'ardita mossa di Garibaldi, deliberò quindi di assalirlo immediatamente nella sua nuova posizione; l'indomani una colonna di cinquemila Austriaci comandata dallo stesso generale D'Aspre, compariva improvvisamente a Morazzone.

Garibaldi non si aspettava sì rapida mossa; i suoi, spossati dalle marcie forzate dei giorni precedenti, trascurarono il comandato servizio di vigilanza e di perlustrazioni, sicchè il nemico potè facilmente sorprenderli, e il cannone fu la loro sveglia. Egli ebbe appena il tempo di montare a cavallo e di accorrere alle prime difese; in brevi istanti l'attacco sviluppò in tutta la linea, e i garibaldini, dominata la prima sorpresa, animati dalla voce e dall'esempio del loro capitano, sostennero intrepidamente l'urto nemico e lo arrestarono. Il nemico però non poteva tardare ad avere ragione sul valore: tuttavia a Garibaldi riuscì di protrarre la difesa fino a notte inoltrata; poi, apertasi con la baionetta una via tra i petti nemici, si buttò coi suoi, serrati e minacciosi, nell'aperta campagna, e quivi sciolse la colonna, consigliando i compagni di guadagnare alla spicciolata il confine svizzero.

Egli dal canto suo li imitò, e travestito da contadino, nascosto ed ospitato dagli amici, protetto dalla sua stella, giunse a sconfinare, presso ponte Fresa, in Svizzera, dove ad Agno in casa Vicari ricevette calda ed affettuosa ospitalità.

Anche a Medici era toccata la stessa sorte. Assalito il 24 agosto da circa cinquemila austriaci che in più colonne s'erano mosse ad avvilupparlo, con soli duecento dei suoi, tenne fronte per oltre quattr'ore ai replicati assalti; finchè divenuta pericolosa ogni ulteriore resistenza, si ritirò in buon'ordine nella limitrofe Svizzera, lasciando le truppe del D'Aspre nell'illusione di avere combattuta l'intera Legione di Garibaldi, e di avere riportato una grande vittoria. Così finì la prima impresa di Garibaldi in Italia. Essa riuscì quale doveva essere! Fu la protesta di un uomo avvezzo a non deporre le armi che dopo la vittoria e non contro l'armistizio Salasco; fu l'audace disfida di un eroe, e una disperata rivolta, della quale nessun'altri all'infuori di lui e dei suoi avrebbe affrontate le conseguenze.

Militarmente considerata, la mossa di Morazzone fu una delle più ardite che la mente di uno stratega possa immaginare. Lo stesso generale D'Aspre scoprì nella azione del suo avversario, i lampi di un gran genio militare, che gli italiani non avevano ancora appreso a conoscere e lo confessava così a persona elevata: "L'uomo che avrebbe potuto essere utile nella vostra guerra del 1848, l'avete disconosciuto; esso era Garibaldi".

Garibaldi fu costretto da quei febbroni che mai l'avevano abbandonato durante tutta la campagna a prolungare la sua dimora in Svizzera più di quanto avrebbe voluto; alla metà di settembre potè partirne, e si ricondusse a Nizza per rivedervi la moglie, il figlio, la madre. Ma vi rimase per poco perchè la febbre della lotta gli bruciava le vene.

Si recò a Genova, sperando di trovarvi aiuto di denaro, di armi, e di armati; ma la sua fu una disillusione; non vi trovò nulla di quanto sperava! Però appunto in quei giorni, una deputazione di siciliani si presentava in Genova a Garibaldi, invitandolo a formare una spedizione di soccorso alla Sicilia.

Ferdinando II di Napoli aveva tradita e assassinata la promessa libertà e mandato un poderoso esercito a sottomettere la Sicilia, la quale priva di armi, di milizie e di capitani, nonostante la gagliarda difesa di Messina stava per soccombere.

Garibaldi, senza prendere impegno assoluto, promise, se gli fosse stato possibile di portare ai siciliani l'aiuto richiesto. Infatti, raccolti circa cinquecento della sua vecchia Legione di Lombardia lanciava agli italiani il seguente proclama:

Italiani!

Il nido della tirannide, al quale mettevano capo tutte le vili iniquità cortigiane, è rovesciato. Vienna combatte per la loro libertà. Non combattiamo noi per la nostra? Non udite venire, o italiani, un fremito dalla Lombardia e dalla Venezia? Il popolo che surse di marzo, sebbene coperto di ferite, non è morto, ma vive; carica il fucile e aspetta il cenno.

All'armi, dunque o italiani; noi siamo alla vigilia dell'ultima guerra, non lenta, non fiacca, ma rapida, implacata. Levatevi forti dei vostri diritti calpestati, del vostro nome schernito, del sangue che avete sparso: levatevi in nome dei martiri invendicati, della libertà conculcata e della patria saccheggiata, vituperata dallo straniero; forti come uomini parati a morire! Non chiedete vittoria che a Dio e al vostro ferro; non confidate che in voi. Chi vuol vincere vince.

Su dunque, raccogliete fucili e spade, o italiani. Non sonore promesse, ma opere; non vanti passati, ma gloria avvenire.

Genova, 18 ottobre 1848.
G. Garibaldi.

Da Genova s'imbarcò col proposito di recarsi in Sicilia.

Ma il 25 di ottobre a Livorno ove Garibaldi aveva approdato, i democratici di quella città gli si misero attorno, persuadendolo a restare in Toscana ed a prendere il comando di quel simulacro d'esercito senza capo. Fu costretto ad acconsentire e, sbarcati i suoi, si recava a Firenze; ma quivi giunto si sentì sedotto dall'immagine di Venezia, sola combattente invitta per mare e per terra contro l'Austriaco. Dominato da questo sentimento, lasciava con la sua colonna Firenze, e s'avviava per Bologna col disegno di scendere a Ravenna e di là passare a dare il suo aiuto all'eroica regina dell'Adriatico.

Ma era appena arrivato in Bologna, intento sempre a reclutare nuovi seguaci, ed a spiare l'occasione che gli schiudesse l'agognata via di Venezia, quando si sparse per tutta Italia l'eco dei tragici fatti di Roma; il 15 novembre Pellegrino Rossi veniva assassinato; il Papa, assediato nel Quirinale, rassegnato a subire un Ministero Mamiani; ma risoluto a non concedere di più; infine il 21 novembre Pio Nono fuggito a Gaeta; il governo affidato alle mani di una Giunta Suprema eletta dal Parlamento; la Costituente convocata.

Un sì inatteso e violento mutamento nelle cose d'Italia, mutò anche tutti i piani di Garibaldi. Ora gli era aperta la via di Roma, ed il fascino di Roma era per lui irresistibile.

Non mise quindi indugio ad offrire al nuovo governo l'opera sua e dei suoi compagni; e l'offerta essendo stata accettata così scriveva al Ministro della Guerra.

Eccellenza,

Domani raggiungerò colla mia colonna Foligno, donde mi dirigerò a Rieti, punto che mi sembra molto conveniente per organizzare il battaglione, e ricevere da Roma l'armamento e quanto altro necessario. Mi permetto di raccomandare a V. E. il pronto invio del vestiario, trovandosi la mia gente in uno stato deplorevole.

Mi onori dei suoi ordini.

Terni, 22 dicembre 1848.
G. Garibaldi

"P.S. Ho ricevuto il dispaccio di V. E. dopo di aver scritta la presente; dirigerò la colonna a Fermo siccome mi viene ordinato. Ringrazio V. E. dell'accettazione del Corpo al servizio dello Stato e solamente reitero la sollecitudine dell'abbigliamento e dei suoi ordini. Vale."

Garibaldi partì da Foligno il 28 dicembre, avendo dovuto aspettare il vestiario e l'armamento; arrivò a Macerata il 1o del 1849 dove lo raggiunse un novello ordine di non proseguire più per Fermo e di restare dove era.

A Macerata Garibaldi badava ad ordinare, agguerrire ed a rinforzare la sua gente; e tanto entrò nella stima e nell'affetto dei maceratesi, che più tardi, quando furono convocati a nominare il deputato alla Costituente, elessero lui.

Mentre la Giunta Suprema di governo lavorava ad apparecchiare il terreno alla Costituente, dall'altro i clericali si studiavano a seminare d'ostacoli il cammino di quella rivoluzione, il cui andare era necessario e ormai fatale; giusta la loro vecchia teoria ogni mezzo era buono; e in attesa che le potenze cattoliche muovessero all'invito di Pio IX, coprivano di trame e d'intrighi tutto lo stato romano; e in alcuni luoghi, specie nell'appennino ascolano, e nel confinante Abruzzo, spalleggiate dal Borbone, avevano coronate le creste di quei monti, antico teatro del sanfedismo, di numerose bande brigantesche.

Importava alla Giunta Suprema di parare a quell'urgente pericolo; laonde deliberava di mandare il Colonnello Roselli a combattere il brigantaggio ascolano; nello stesso tempo chiamava Garibaldi a Rieti, con l'incarico di guardare quel confine verso Napoli, e di concertarsi con Roselli per soffocare la nascente reazione; Garibaldi ubbidiva; e per Tolentino, Foligno, Spoleto, arrivato verso la fine di gennaio a Rieti, si accinse senz'altro all'opera; e, quantunque il mandato fosse arduo e richiedesse severe punizioni, tuttavia il temuto condottiero non lasciò in quei luoghi alcun ricordo di ferocia, alcuna traccia di sangue innocente.

Rese invece segnalati servizi al Governo Romano, perseguendo nel più rigido inverno l'ostinato malandrinaggio, tenendovi atterrita e rimpiattata la reazione, custodendo fino all'ultimo tratto quel territorio, aperto per tante vie alle insidie nemiche…

CAPITOLO X.Roma – Proclamazione di Repubblica.Il 5 febbraio 1849 i deputati del popolo adunati in Campidoglio trassero con solenne maestà al palazzo della Cancelleria, luogo stabilito per le loro adunanze. Fu posta subito la questione che si dichiarasse il decadimento del potere temporale dei papi e si proclamasse la repubblica. Sorse allora Terenzio Mamiani con le memorande parole: A Roma, o i Papi o Cola di Rienzo, – "i Papi, investiti del potere temporale essere stati sempre il flagello d'Italia e della religione; la repubblica la più bella parola, che dir potesse labbra d'uomo. Gravi per altro i pericoli che potea con sè portare la repubblica, non avendo gli Stati romani per tutelarla le immortali falangi che la Francia ebbe nel 1793. Toscana poteva aiutare ma debolmente; gran danno invece la proclamata repubblica potea recare in Liguria e in Piemonte, nerbo e centro delle forze italiane; l'Europa tutta conservatrice; la Francia meno repubblica che impero Napoleonico. Concluse che la questione della forma di governo conveniva rimettere alla Costituente italiana".

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