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I Corsari delle bermude

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I Corsari delle bermude
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1. LA CACCIA ALLA CORVETTA

Il sole tramontava fra una nuvolaglia grigiastra che si era distesa, a poco a poco, gonfiata dal vento di ponente, sopra l’Atlantico.

Le onde, che riflettevano la luce, rumoreggiavano, correndo velocemente sull’immensa distesa fra le coste americane e le quattrocento Bermude poste, come tanti ridotti, intorno alla grande Bermuda, la unica isola abitata di quel vasto arcipelago sperduto in mezzo al grande Oceano orientale.

Due navi avanzavano, coperte di vele fino al pomo degli alberetti, rollando dolcemente sotto i colpi delle onde che le investivano sulla dritta, sollevandole con fragore.

Il vento di libeccio, abbastanza fresco, gonfiava le tele, sibilando fra le centinaia e centinaia di cordami, sartie, manovre scorrenti e fisse e dentro le griselle.

Una era una corvetta, lunga, sottile, ma di portata abbastanza grossa, perché ventiquattro cannoni uscivano dai suoi babordi mentre sul cassero e sul largo castello di prora si allungavano, disposti in barbetta, quattro grossi pezzi da caccia.

Era coperta di vele, come abbiamo detto, dal ponte ai contrapappafichi. Perfino gli scopamari ed i coltellacci erano stati spiegati al di fuori dei pennoni bassi, delle gabbie e dei pappafichi.

L’altra invece era una grossa giunca, larga di fianchi, pesante, di stazzatura assai inferiore alla corvetta che la precedeva, con pochissime artiglierie piazzate tutte in coperta.

Entrambi i navigli portavano un numero considerevole di uomini.

Sulla cima dell’albero maestro della corvetta sventolava una bandiera rossa, segnale di fuoco permanente, ad ogni ora, ad ogni istante, contro tutti e contro tutto; sulla giunca una bandiera rigata, bianca e azzurra, senza stelle, perché gli Stati Uniti allora non si erano ancora costituiti in Confederazione.

Era l’ora della cena. Sulla coperta della corvetta, centocinquanta uomini, di razze diverse, stavano divorando, in piedi, la, cena, con lo invidiabile appetito marinaresco.

Colle gambe allargate per reggersi ai colpi delle onde, il piatto posato sul berretto, ingollavano avidamente il merluzzo, sognando la guardia franca.

D’un tratto un grido scende dall’albero maestro e li fa sussultare.

– Vela a sinistra!

Il gabbiere installato sulla crocetta dell’albero maestro tace per qualche istante, poi la sua voce piomba più imperiosa sulla ciurma:

– Due vele sottovento! Ci dànno la caccia!

I piatti, in un baleno, volano in mare insieme al contenuto. Cento uomini si gettano verso le murate, alle quali sono appoggiati numerosi archibugi dalla canna lunghissima e non poche carabine rigate, di marca inglese.

Gli altri corrono alle batterie, pronti a far tuonare i ventiquattro pezzi.

Il secondo di bordo, un bell’uomo sulla trentina, piuttosto alto, con una ricca barba nera e gli occhi che sprizzano lampi, non ha staccato dalle labbra la sua pipa, né ha interrotta la sua passeggiata sul piccolo ponte di comando.

Ha solamente voltato la testa ed ha fissato per qualche po’ il lontano orizzonte.

Trascorsero due o tre minuti, poi la voce del gabbiere scese ancora dall’alto:

– Ci cacciano!… Son proprio due!

Il secondo interruppe la sua passeggiata, si tolse la pipa, e dopo aver gettato in aria una gran boccata di fumo, chiese con voce perfettamente tranquilla:

– Ne sei ben sicuro, Piccolo Flocco?

– Sì, signor Howard.

– Fregate o vascelli d’alto bordo?

– La luce fugge troppo presto, tuttavia credo che quelle due navi siano d’alto bordo anziché fregate.

– Ah diavolo! – borbottò il signor Howard. – La cosa cambia aspetto. È necessario avvertire il baronetto.

Poi alzò la voce:

– Testa di Pietra! – gridò.

Un uomo di forme massicce, che poteva rivaleggiare per sviluppo di muscoli con un gorilla africano, colla barba brizzolata, dai peli irti come quelli di certe bestie selvagge, e con la testa enormemente grossa, si staccò dai due grossi pezzi da caccia che si trovavano sul castello di prora e scese sulla tolda, gridando:

– Eccomi, signor Howard.

Pareva un vero orso grigio, per le forme e le mosse pesanti. Guai però se uno si fosse imbattuto in quel vecchio figlio della vecchia Armorica, la terra delle pietre e delle teste quadre della Bretagna, che ha sempre dato alla Francia i suoi migliori marinai!

Il nostro uomo attraversò la coperta senza troppo affrettarsi, dondolandosi comicamente, e salì sul ponte di comando, togliendosi prima dalla bocca un grosso pezzo di tabacco che stava masticando con una certa voluttà.

– E dunque, tenente? – chiese, dopo d’aver salutato militarmente.

– Che cosa ne pensate, mastro? – chiese il signor Howard fissandolo.

– Penso, tenente, che abbiamo ventiquattro buoni pezzi e quattro cannoni da caccia piazzati sui ponti, – rispose il bretone.

– E se fossero navi d’alto bordo?

– Certo, l’affare sarebbe un po’ serio, tenente; tuttavia abbiamo a bordo centocinquanta uomini che non hanno mai avuto paura di chicchessia, comandati da un prode come sir William.

– Noi: ma la giunca?

– Ah! quello è il punto debole – rispose il bretone. – Coi suoi otto pezzi riuniti potrebbe fare qualcosa; ma la polvere è tanto necessaria agli assediati di Boston!

– Serberemo la nostra. Ne abbiamo duemila quintali.

– I quali in un combattimento costituiranno un grave pericolo.

– Lo so… Va’ a chiamare il comandante.

– Sarà di cattivo umore. Da quando quell’uomo che comanda la giunca è giunto alle Bermude, il baronetto è sempre di cattivo umore.

– Taci: non sai nulla dei segreti di sir William.

– Hum! Ci deve essere sotto una donna. Che il diavolo se le porti via tutte!

In quel momento, per la terza volta, la voce del gabbiere cadde sonora dalla crocetta dell’albero maestro.

– Ci stringono!

Testa di Pietra lanciò intorno uno sguardo.

– Ci stringono – disse. – Bel tempo per montare all’abbordaggio! Prima che il sole ritorni, chi sa che cosa avrà preparato il baronetto!

– Va’ Testa di Pietra! – disse il tenente. – Chiacchieri come le donnicciuole del borgo di Batz.

– Il mio borgo! – rispose il bretone con un sorriso misto ad un sospiro.

Scese la scala, col suo passo pesante, mise il pezzo di tabacco nel berretto. cacciandolo sotto la fodera, e si diresse verso il quadro.

– Diavolo secco! – borbottò. – Il comandante non sarà certo di buon umore. Si direbbe che dopo la nostra partenza dalle Bermude l’hanno stregato. Qui sotto c’è una donna, ne sono sicuro. Mary! Quante volte l’ho udito questo nome sfuggire dalle sue labbra! Mary! Che strega infernale sarà costei? Ma io, a vent’anni, sono scappato in mare per non rompermi il collo con quelle streghe e mi sono trovato bene. Vento, luce, sole, azzurro infinito, valgono più di tutti gli occhi azzurri delle fanciulle della nostra terra di pietre. Bah! Povera gioventù!

Entrò nel quadro, sempre borbottando e facendo gesti. Scesa la seconda scala, sostò un momento, grattandosi, la capigliatura quasi argentata.

– Per il borgo di Batz! – mormorò. – Sono certo di trovarlo di cattivo umore.

S’avanzò nel corridoio, strascicando i suoi piedi da elefante per annunciare la sua visita, poi spinse una porta.

Un salottino elegantissimo, alle cui finestre, erano tende di seta azzurra guarnite di pizzi di Bruxelles, illuminato da un alto candelabro d’argento, si offrì ai suoi sguardi. In mezzo, fra i divani di seta a fiori rossi e gialli, seduto dinanzi ad un tavolino d’ebano, stava un bel giovane di ventisei o ventisette anni, di statura piuttosto alta, dal colorito pallido, cogli occhi azzurri e la barba ed i capelli biondo fulvi. Invece di portare la bianca parrucca, aveva i capelli sciolti sulle spalle, leggermente ondulati.

Stava bevendo: dinanzi a lui una bottiglia ed un bicchiere scintillavano sotto la luce delle candele. Vedendo entrare il mastro della corvetta, il giovane, che pareva immerso in un dolce sogno, aveva avuto un leggero soprassalto.

– Testa di Pietra! – esclamò. – Che cosa vuoi? Che non possa mai riposare un momento? Non vi è sul ponte il signor Howard?

Il mastro gli lanciò uno sguardo compassionevole e scosse la testa, poi disse:

– È lui che mi ha mandato, sir William.

– È scoppiato il fuoco a bordo?

– Ah no, sir.

– E allora?

– È il fuoco invece che sta per caderci addosso.

– Sulla mia corvetta? Ah!

– Ci sono due navi che cercano di stringerci.

– Due sole?

– Ma non si sa ancora se siano due fregate o vascelli d’alto bordo, capitano. L’oscurità ci ha impedito di poterle scorgere a tempo.

Il baronetto prese il bicchiere che gli stava dinanzi, lo vuotò lentamente, guardandolo nel fondo come se cercasse di scorgervi qualche immagine, poi disse:

– Sei ben sicuro che siano due?

– Sapete che Piccolo Flocco ha la vista lunga.

Sir William si alzò, girò intorno alla tavola, tormentando colla sinistra la guardia della pesante sciabola d’abbordaggio, poi, fermandosi improvvisamente, chiese:

– Americani o inglesi?

– Per il borgo di Batz!… Non hanno navi d’alto bordo gli yankees, lo sapete meglio di me; perciò bisogna concludere che siano proprio inglesi, distaccate da qualche squadra delle Antille.

– Hai ragione Testa di Pietra. E così tutta la mia gente è inquieta?

– Trovarsi fra due navi d’alto bordo non deve essere certamente una cosa allegra, comandante, quantunque la corvetta sia solida, bene armata e montata dagli ultimi corsari delle Bermude, che non hanno mai avuto nulla da invidiare a quelli del Golfo del Messico.

– Che cosa dice il signor Howard?

– Ha semplicemente comandato ai vostri uomini di prepararsi alla battaglia. Ha fegato, il vostro luogotenente, ve l’assicuro io.

 

– Se non fosse stato tale, non l’avrei certamente imbarcato, – rispose il baronetto con un sorriso. Si appoggiò al tavolino, incrociando le. braccia, poi, dopo d’aver riflettuto un momento chiese:

– Sentiamo un po’. Che cosa farebbe al mio posto il mastro d’equipaggio, che gode fama d’essere un vecchio squalo dell’Atlantico?

– Per il borgo di Batz! Cercherei di svignarmela prima del sorgere del sole.

– Tentando una falsa rotta?

– Sì, comandante.

– E se non riuscisse?

– Allora monteremo all’abbordaggio come una muta di cani rabbiosi, e chi le prenderà le terrà.

– Ventotto pezzi, forse contro cento o centocinquanta uomini, attaccati da due parti, forse contro cinquecento, sarebbe un giuoco pericoloso; non ho nessuna voglia di morire, devo andare a Boston, – disse il Corsaro. – Vi è la giunca che ci segue: ecco lo scoglio. Bah! l’affonderemo.

– Coi suoi cento quintali di polveri? – esclamò il bretone, allargando gli occhi. – Sapete che gli americani hanno estremo bisogno di munizioni.

– Per ora si contenteranno delle polveri che si trovano nella stiva. Non ho la potenza di Dio. Vi sono rasoi a bordo e in abbondanza, mi pare.

– Rasoi? Volete segare le gole agl’inglesi?

– Poi vi sono molte casse di vestiti da donna che abbiamo preso a quella nave proveniente da Belfast e destinati alle belle cubane; casse piene di cappelli per signorine ed ombrellini e guanti e ventagli. Ne abbiamo abbastanza per mettere a posto le due navi.

– Coi rasoi, le sottane, gli ombrelli e i ventagli! – esclamò il bretone. – Scherzate, sir William.

– Sarà un bellissimo scherzo che mi farà risparmiare polvere, palle ed uomini – disse poi. – La giunca se ne vada.

– Che sia diventato pazzo per quella misteriosa Mary? – borbottò Testa di Pietra, guardandolo con spavento. – Peccato! Così audace e valente!

Il Corsaro depose il bicchiere, rifece il giro della tavola, poi, fermandosi davanti al bretone, il quale non si era ancora rimesso dal suo stupore, gli disse:

– Fa’ affilare i rasoi e fà cadere i baffi e le barbe ai nostri uomini. Se vuoi cipria, ne ho alcune scatole che metto a tua disposizione. Poi farai aprire tutte le casse che abbiamo preso all’inglese e vestirai i miei uomini come tante miss e ladies. Non dimenticare i parasoli, i guanti, i ventagli e i cappelli. Voglio che la mia nave, prima che il sole ritorni, sia carica di belle o brutte donzelle.

– Per il borgo…

– Lascia Batz ed il, suo cadente campanile! – rispose il Corsaro. – Ah, vi è la giunca! Manderai quattro o cinque scialuppe per portare il suo equipaggio sulla nostra corvetta, poi farai sfondare uno dei suoi fianchi e la lascerai colare a fondo.

– Insieme alle polveri?

– Non abbiamo il tempo necessario per trasbordarle, mio caro pesce-cane. Se gl’inglesi ci sorprenderanno ai primi chiarori dell’alba, il mio scherzo potrebbe finir male. E poi ci sono troppi baffi e troppe barbe da tagliare e otto ore non sono molte.

– E voi credete di evitare un disastroso combattimento a colpi di rasoio?

– Certo.

– Hum!

– Ne dubiti?

– Un poco.

– Possiedi una vecchia pipa alla quale tieni molto?

– La comprò mio nonno a Smirne, centocinquantanni or sono.

– Benissimo, – disse il baronetto. – Se riuscirò nel mio giuoco, mi regalerai quel vecchio ricordo di famiglia; se perderò ti darò cento ghinee, che andrai a raccogliere in fondo al mare dopo la battaglia, perché il baronetto William Mac Lellan morrà sul ponte di comando, ma non si arrenderà. Va’, Testa di Pietra.

Il bretone rimase qualche istante immobile, come trasognato, poi se ne andò col suo passo che marcava, ora il rollio ed ora il beccheggio.

Sir William, appena rimasto solo, era tornato a sedersi dinanzi al tavolino.

– Mary! – mormorò. – Sposa di lui? Mai, mai!.. L’infame che ha pure nelle vene il sangue di mio padre, me l’ha rapita; ma saprò riprendergliela. Sono un bastardo, dicono nella Scozia; un bastardo, dice mio fratello, perché sono nato da un’altra donna che non si chiamava lady Anna dei duchi di Lorne. Che colpa ho se mio padre si è innamorato d’un’altra donna che non era inglese e che non poteva sposare? Un marchese d’Halifax non sono, è vero. Giorgio IV mi ha creato nobile, eppure sono costretto, scozzese, a volgere le armi contro l’Inghilterra… Succeda quello che deve succedere, riavrò Mary o mi uccideranno dentro le mura di Boston.

Si accomodò i capelli fulvi, prese da un tavolino un paio di grosse pistole, e salì lestamente la scala che conduceva sul ponte, mormorando:

– Andiamo a vedere se i barbieri lavorano.

2. UN CURIOSO STRATAGEMMA

Le stelle scomparivano alla luce del sole che stava per sorgere. Il vento aveva disperso i vapori che si erano addensati prima del tramonto, sicché il giorno si presentava splendido, quantunque la larga ondata dell’Atlantico turbasse non poco la superficie del mare.

La corvetta procedeva tranquillamente con tutte le vele sciolte. Era sola, poiché la giunca che la seguiva durante la notte era scomparsa nei profondi abissi dell’Oceano insieme al suo carico di polveri.

Sulla tolda, trenta marinai stavano appoggiati alle murate, fingendo di osservare gli uccelli che salutavano l’imminente comparsa dell’astro diurno.

Sul ponte di comando il baronetto passeggiava nervosamente, insieme col suo luogotenente, il signor Howard.

Al largo, sopravento, due navi l’alto bordo, due treponti con numerosi sabordi guerniti di grosse artiglierie, cercavano, con frequenti bordate, di raggiungere la corvetta. Sulle loro maestre fiammeggiava la bandiera rossa, segnale di imminente combattimento; sull’artimone, la bandiera inglese col suo quarto screziato.

Il vento di levante le spingeva rapidamente, facendo buona presa sulle loro moli colossali e sul numero immenso di vele, alle quali erano stati perfino aggiunti gli scopamari ed i coltellacci, per ottenere maggior velocità.

– Piccolo Flocco non si era ingannato, – disse sir William, fermandosi bruscamente. – Che vista d’aquila ha quel giovane! Diventerà un buon marinaio. Che ne dite, Howard?

– Che siamo presi in una trappola.. – rispose il luogotenente.

– Invece sono convinto di fare un magnifico scherzo a quei due elefanti marini. Sono tutte tagliate le barbe?

– Anche i baffi, sir William.

– Sono tutti vestiti?

– La stiva è piena di miss e di ladies. Non saranno troppo graziose, tuttavia, vedute a distanza, faranno una rispettabile figura.

– Specialmente coi parasoli, – disse il Corsaro. Se le cose andranno male, gl’inglesi vedranno uno spettacolo curioso: due navi d’alto bordo assalite da signore dai muscoli di ferro, che maneggeranno le pesanti sciabole d’abbordaggio meglio dei vecchi filibustieri del golfo del Messico e della Tortue. Ah! Un colpo in bianco!

Una delle due navi, quella che si trovava più vicina, aveva tirato un colpo di cannone a polvere: era l’ordine di mettersi in panna e di mostrare la bandiera.

– Su in alto i colori d’Inghilterra! – comandò il Corsaro. – Che le graziose ragazze salgano tutte sul ponte ed aprano i parasoli!!

La bandiera inglese, salì, ondeggiando, fino al picco della mezzana, e mostrò al sole, la sua stoffa rossa col quadro in alto. Quasi nel medesimo tempo la coperta, il castello di prora, ed il cassero venivano invasi da un centinaio di miss, vestite elegantemente, con ampi cappelli piumati e le mani inguantate. Cento parasoli di tutte le tinte si aprirono d’un colpo solo e si agitarono festosamente

Non sarebbe necessario dire che sotto quei cappelli si scorgevano certi visi da far paura. Fortunatamente gl’inglesi erano troppo lontani per potersi accertare se tutte quelle giovani erano belle o brutte.

Il Corsaro aveva puntato il cannocchiale sulla prima nave, la quale veleggiava lentamente a circa cento gomene, tentando di portarsi sottovento della corvetta per poterla prendere fra due fuochi, mantenendosi la sua compagna sul sopravento. Essendo la distanza relativamente breve ed il cannocchiale potentissimo, sir William poté subito rendersi conto dello stupore che si era manifestato sul ponte della nave a quell’inaspettato spiegamento di forze femminili e di ombrelli multicolori. Gli uomini che la governavano si erano precipitati tutti verso la murata di sinistra, agitando i berretti ed i fazzoletti per rendere il gentile saluto.

– Buon segno! – mormorò sir William.

Alcune bandiere però salirono sull’alberetto della maestra della grossa nave, segnalando:

– Il vostro nome!

Il luogotenente del Corsaro fu pronto a far rispondere con altre bandiere:

– Il Tuonante.

– Da dove venite?

– Dalle Bermude?

– Chi sono quelle miss?

– Naufraghe che ho raccolto quarantotto ore or sono sullo scafo d’una nave francese disalberta.

– A quale squadra appartenete?

– A quella dell’ammiraglio Rodney, – rispose la corvetta.

– È già giunta alle Antille?

– Non ancora.

– Continuate pure la vostra rotta e guardatevi dai corsari americani che corrono il mare in buon numero.

Le bandiere inglesi scesero e salirono tre volte, poi la corvetta, che si era messa attraverso il vento, orientò rapidamente le sue vele e si rimise in marcia colla prora verso sud-est. Non era veramente la sua rotta, ma fu necessaria la manovra per meglio ingannare i due formidabili avversari.

Le due navi d’alto bordo la seguirono per qualche miglio, poi si volsero decisamente verso l’est, dirette probabilmente a Boston che le truppe americane assediavano da presso.

– Che cosa ne dite, signor Howard? – chiese sir William, il quale seguiva col cannocchiale le due navi per spiarne le mosse.

– Che nessuno, all’infuori di voi, avrebbe avuto più splendida idea, sir, – rispose il luogotenente. – I nostri uomini rideranno un bel pezzo di questa mascherata che li ha salvati da morte certa. Tuttavia non fidiamoci: i due comandanti inglesi potrebbe sorgere qualche sospetto.

– Apriremo bene gli occhi, mio caro signor Howard, e non riprenderemo la nostra giusta rotta che questa sera, a notte inoltrata.

In quel momento Testa di Pietra comparve sul ponte di comando tenendo fra le callose mani, dentro un astuccio di legno tutto tarlato, una pipa nera come un pezzo di carbone e che puzzava orribilmente di tabacco.

– Capitano, disse, facendo un goffo inchino – avete vinto la scommessa e vi consegno la pipa dei miei avi.

Il baronetto proruppe in una gran risata.

– È vero; ho vinto – disse poi. – Avrei il diritto di prenderti la famosa pipa di schiuma dell’Asia Minore, ma non fumerò mai in quell’anticaglia inzuppata di nicotina. Tienila pure e prendi invece questa ghinea con la quale potrai bere alla mia salute sotto le mura di Boston.

– Per il borgo di Batz! – esclamò il vecchio lupo di mare, mettendosi precipitosamente in una delle sue profondissime tasche il ricordo di famiglia ed il pezzo d’oro insieme. – Quando vi sarà necessaria una pelle da marinaro per l’altro mondo, pensate alla mia, capitano.

– Per una pipa!

– Ricordi di famiglia, sir William, – disse il luogotenente. – È il blasone della sua stirpe.

– Sì, della tribù dei pipardi, – rispose gravemente il mastro.

– Vattene a bere un bicchiere: te lo permetto, – disse il baronetto.

Testa di Pietra, malgrado i suoi cinquant’anni, fece una piroetta coll’agilità d’un gabbiere e, dopo aver salutato, scese a precipizio la scala, gridando:

– Piccolo Flocco, a me!

Un giovanotto di circa venti anni, bruno come un algerino cogli occhi e i capelli nerissimi, si lasciò scivolare con un’agilità da acrobata, lungo uno dei paterazzi dell’albero maestro, e con un gran volteggio cadde quasi addosso al mastro dicendo:

– Eccomi!

– Ho una ghinea in tasca, figliolo mio.

– Tò! Sono diventato vostro figlio in questo momento? Se è per levarvi la ghinea, ci sto.

– Eterno monello! Ti ho quasi adottato.

– Speriamo allora in una grossa eredità.

– Che andrai a raccogliere a Batz, se la troverai. Il baronetto mi ha dato il permesso di bere un bicchiere, ma sai che i bicchieri della marina sono più grossi delle bottiglie. Vieni ad aiutarmi, piccolo furfante!

Mentre i due amici andavano in cerca del dispensiere di bordo, i marinai non più vestiti da miss, affluivano sulla tolda, ridendo a crepapelle del magnifico tiro giuocato agli equipaggi delle due navi d’alto bordo.

Il Corsaro era rimasto sul ponte di comando ed esplorava, con una certa ansietà, l’azzurra superficie del mare, che la grande corrente dei Golfo increspava. I due velieri erano ormai scomparsi, tuttavia il baronetto appariva inquieto.

 

– Ci spiano di lontano? – si chiedeva. – Ho veduto un punto nero che potrebbe essere una scialuppa lasciata appositamente indietro per sorvegliarci. Il giuoco potrebbe, da un momento all’altro, farsi molto serio.

Il signor Howard, che lo osservava attentamente e che aveva indovinato le inquietudini del baronetto, disse:

– Abbiamo il vento abbastanza favorevole per deviare verso le coste della Florida. Qualche giorno perduto non sarà la rovina degli americanoidi.

Si era fermato. Improvvisamente la fronte spaziosa del Corsaro si corrugò.

– Signor Howard, – disse questi con voce alterata – volete chiamarmi il comandante della giunca che ho fatto affondare? Desidererei rivederlo.

– Siete molto strano, sir William – disse il luogotenente.

– Eh! voi non sapete quali tempeste devastino il mio cuore… Lo aspetto nel quadro.

Scese dal ponte, lanciò un ultimo sguardo nell’Oceano scintillante di azzurro e di luce, poi a lenti passi entrò nel quadro e sedette dinanzi al tavolino su cui stava sempre una bottiglia.

Il suo pugno da marinaio piombò, come un colpo di tuono sul tavolino, mentre dalle sua labbra usciva una rabbiosa imprecazione:

– Maledetti i battiti del mio cuore!… Follie, dicono! Ah, no! Alla mia età non sono né follie né fantasie… Dove finirebbe la gioventù? Eppur Testa di Pietra è mille volte più felice di me! Ma non tutti possono nascere topi della cala.

Sospirò a lungo, si alzò con un moto brusco, fece un gesto come se avesse voluto stritolare qualche cosa, poi si mise a passeggiare per la saletta nervosamente.

Ad un tratto sì fermò.

Un uomo era entrato seguito dal luogotenente Howard. Era d’aspetto imponente, già un po’ avanzato negli anni, con una lunga barba grigia che gli scendeva fino a mezzo il petto e gli occhi d’un azzurro profondo e d’una strana limpidezza nel medesimo tempo.

– Mi desiderate, sir William? – chiese.

– Si, colonnello Moultrie, – rispose il baronetto. – Desidero che mi ripetiate ciò che vi ha detto Mary di Wentwort.

– Mi pare di avervelo detto, sir Mac Lellan

– Che cosa volete? Ho sempre timore d’aver udito male.

– Che Mary di Wentwort, se non andrete a liberarla, malgrado l’assedio e la pioggia di palle infuocate e di bombe che gli americani scagliano contro le mura di Boston, diverrà la moglie del marchese d’Halifax.

– Mai! Mai! – urlò il baronetto. – Ella ha giurato fede eterna a Mac Lellan.

– Lo so – rispose il colonnello americano. – Me lo ha confessato. Disgraziatamente per voi, il marchese d’Halifax la tiene in sua mano e potrebbe approfittare dell’assedio per costringerla a diventare sua moglie.

– Credete impossibile, a uomini risoluti a tutto, di entrare in Boston? – chiese il baronetto, tergendosi la fronte che si era coperta di sudore.

– Forse, passando per la galleria sotterranea che conduce ai ridotti del Corno.

– Sarà ben guardato quel passaggio?

– Certo, sir William, – rispose il colonnello.

– Non importa; sapremo forzarlo ed entreremo nella piazza a dispetto di tutti.

Si era alzato in preda ad una viva agitazione, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte tempestosa.

– Chi avrebbe mai detto – disse poi, con voce irata – che il mio fratellastro potesse giungere al punto di rapirmi la fidanzata? Eppure colonnello, è proprio così,

– Voi non siete figlio del marchese d’Halifax? – chiese l’americano.

– Sì, mio padre, rimasto vedovo e passato in Francia, s’innamorò di una giovane e bellissima castellana, la quale gradì subito i suoi omaggi. Nacqui nel momento in cui ferveva la guerra nelle Fiandre. Mio padre cadde sul campo di battaglia. Mia madre poco dopo moriva, lasciandomi solo al mondo, ma possessore d’un castello nella Turenna e di vaste tenute. Un vecchio scudiero, che era stato in gioventù famoso spadaccino, si occupò della mia educazione. Col tempo però quel paese mi divenne odioso, ed avendo ereditato anche un piccolo castelluccio in Bretagna, andai a stabilirmi sulle rive del mare. A quindici anni ero un valente marinaio, oltre ad essere un abile uomo d’armi.

«Quante volte ho guidato le barche dei contrabbandieri! E quante volte, durante la guerra, ho dato la caccia alle orde spagnuole fino in mezzo al mare di Biscaglia!».

«Avevo venticinque anni e spadroneggiavo la Manica col mio Tuonante, che avevo armato a mie spese e che batteva colori di Francia. Un giorno, mentre riposavo nel mio castelluccio, di ritorno da una lunga crociera, venne a trovarmi un gentiluomo inglese incaricato di rimettermi documenti da parte del marchese d’Halifax».

«Fino allora ben poco avevo saputo intorno a mio padre ed ignoravo che avesse avuto un figlio dalla sua prima moglie, la duchessa d’Argyle. Il marchese mi rimetteva la mia nomina di baronetto inglese, sotto il nome di William. Mac Lellan, firmata dal Re d’Inghilterra, come mio padre ne aveva espresso il desiderio nel suo testamento, e nel medesimo tempo m’invitava a lasciare la marina francese e raggiungerlo nel suo castello d’Alstal, situato in un’isola delle Ebridi. Fino allora avevo creduto di avere nelle mie vene sangue puramente francese».

«Mio fratello, arrivato che fui nel vecchio castello dei duchi d’Argyle, mi fece comprendere che, non dovevo portare le armi contro il paese di mio padre».

«La mia fama di fortunato corsaro era già notissima in Inghilterra e la mia corvetta era ben conosciuta su quelle coste. Acconsentii a non ritornare mai più in Francia per riprendere le armi contro la mia nuova patria, e mi rimisi in mare sotto la bandiera inglese.

«Passarono alcuni anni, e durante le tempeste invernali, che battevano i fianchi delle Ebridi con una furia formidabile, ritornavo al mio nido, al castello d’Argyle, la cui baia era profonda e sicura. Appunto durante uno di quei ritorni conobbi Mary di Wentwort, una gentildonna scozzese imparentata ai duchi di Fife e di Lorme, le due più alte nobiltà dell’Inghilterra settentrionale. Vederla ed amarla fu per me una sola cosa. Mi sapeva corsaro intrepido e mi amò».

«Il marchese d’Halifax, come seppi poi, aveva già messo gli occhi su quella pallida perla del nord. Egli credeva che il bastardo non potesse competere con lui. Invece il corsaro vinse e fu deciso il nostro matrimonio. Ignoravo allora che mio fratello, fratello per modo di dire, amasse alla follia la fanciulla.

«Tutto era pronto per il matrimonio, poiché Mary Wentwort mi aveva giurato, di fronte al mare, durante le notti di luna, il suo amore».

«Ah! quella notte!… Abbracciati sotto il raggio della luna che sorgeva sull’orizzonte, ascoltavamo il ritmo sonoro delle onde. Voi, colonnello, non siete mai stato marinaio e non potete comprendere la grande poesia del mare. È una musica divina».

Sir William, il quale pareva in preda ad una grande eccitazione, si era bruscamente fermato, poi fece, un gesto largo, piantò la sinistra sulla sua sciabola d’abbordaggio, e riprese, con voce rotta di quando in quando da un singhiozzo:

– Ero partito per Edimburgo, dove volevo acquistare gioielli per colei che doveva diventare la mia sposa. Non l’avessi mai fatto! Quel viaggio, durato appena una settimana, spezzò la mia vita.

– Perché? – domandò il colonnello Moultrie.

– Perché quei sette giorni bastarono al marchese d’Halifax per compiere il più infame tradimento.

Si era nuovamente interrotto.

– Signor Howard, – disse con voce rauca – datemi da bere. Ardo.

Il luogotenente prese da una mensola tre bicchieri ed una bottiglia piena d’un liquido color dell’ambra e dopo averla sturata, versò.

Il Corsaro afferrò uno dei tre bicchieri, lo vuotò d’un colpo, stette alcuni istanti ancora muto, cogli occhi fissi sulla spumeggiante scia che si lasciava indietro la corvetta, poi si volse bruscamente verso il colonnello ed il luogotenente.

– Me l’aveva rapita – gridò – cinque giorni prima del mio ritorno ed era partito per l’America insieme col generale Howe, che conduceva laggiù fanti tedeschi, assoldati nell’Assia e nel Brunswick.

– Brigante! – esclamò il colonnello.

È inutile che vi dica quale schianto provò il mio cuore. Chiamai a raccolta i miei uomini e veleggiai alla volta di Boston, poiché avevo saputo che le forze che conduceva Howe erano destinate a rinforzare quel presidio. Fu una corsa folle attraverso l’Atlantico, ma quando giunsi alle Bermude le forze inglesi erano già sbarcate e gli americani avevano assediata la piazza. Rinnegai la mia nuova patria e ritornai corsaro, sfogando il mio dolore in continui combattimenti contro le navi che inalberavano un vessillo ormai da me odiato. Siete venuto a dirmi, colonnello, che Mary di Wentwort a giorni sarà costretta a sposare il marchese d’Halifax e che spera da me un aiuto. Accada quello che accada, entrerò a Boston.

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