Бесплатно

I pescatori di balene

Текст
Автор:
0
Отзывы
iOSAndroidWindows Phone
Куда отправить ссылку на приложение?
Не закрывайте это окно, пока не введёте код в мобильном устройстве
ПовторитьСсылка отправлена

По требованию правообладателя эта книга недоступна для скачивания в виде файла.

Однако вы можете читать её в наших мобильных приложениях (даже без подключения к сети интернет) и онлайн на сайте ЛитРес.

Отметить прочитанной
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

XIX. CACCIA AI BUOI MUSCHIATI

A quale punto della costa americana erano giunti i due audaci balenieri? Era impossibile saperlo, ma secondo i loro calcoli dovevano trovarsi fra l’Yucon, grande fiume che sbocca verso l’ovest, e il Makenzie, altro grande fiume che sbocca all’est. Del resto nè il tenente nè il fiociniere per il momento si preoccupavano di ciò; a loro bastava di essere giunti a quella costa tanto sospirata e che per loro era la salvezza.

Forse molto cammino dovevano ancora percorrere e forse molti pericoli dovevano ancora affrontare, ma che importava? L’America era lì, a pochi passi di distanza, e non chiedevano di più. In seguito avrebbero pensato a raggiungere qualche tribù di eschimesi o d’indiani o meglio ancora qualcuno degli stabilimenti che la Compagnia della Baia d’Hudson fondò in gran numero in quella regione, per il commercio delle pelliccie.

Ansiosi di porre i piedi su quella terra così miracolosamente e quasi senza fatica raggiunta, non perdettero un solo istante e, attaccatisi alla slitta con una lunga correggia, si spinsero risolutamente innanzi.

Disgraziatamente il cammino non era più facile. Il ghiaccio, sconvolto e sollevato dagli urti degli «icebergs», dei «palks» e degli «streams», presentava per ogni dove larghi crepacci o punte aguzze e scricchiolava in modo inquietante come se fosse sempre lì lì per aprirsi. La slitta, non trovando modo di scivolare su quel terreno irregolare e malfermo, ora si sprofondava ed ora si rovesciava facendo andare in bestia il fiociniere il quale sudava, quantunque il termometro segnasse ancora 12° sotto lo zero.

Non fu che alle 8 che i due balenieri stanchi, colle vesti lacerate dalle punte dei ghiacci e le scarpe assai malandate, poterono raggiungere la cima della sponda americana.

I loro sguardi percorsero ansiosamente il paese che si stendeva a loro dinanzi, colla speranza di scoprire qualche capanna o qualche colonna di fumo che segnalasse la presenza di una creatura umana, ma invano.

La regione era assolutamente deserta e desolata. Una pianura coperta di ghiacci e di nevi, frastagliata da piccoli laghetti gelati e da crepacci profondi, s’apriva dinanzi a loro, chiusa verso sud da alcune montagne che sembravano dirupate e molto difficili a scalarsi e le cui vette sparivano dentro una fitta nebbia.

Qualche meschina pianticella, dei miseri salici artici non più alti di venti centimetri, qualche macchia di licheni detti di «roccia trippa» e un pò di muschio apparivano qua e là sulla bianca distesa di neve, ma nessuno di quei «settlements» che s’incontrano talvolta in mezzo a quei deserti delle terre d’Hudson, nessun villaggio di eschimesi, nessuna capanna e nessun animale.

– Era brutto il nostro banco di ghiaccio, ma questa costa non mi sembra migliore! – disse Koninson.

– Credevi forse di riposare in un soffice letto stasera? – chiese il tenente ridendo.

– No, ma credevo di vedere qualche volto umano.

– Ne vedremo e fra non molto forse.

– Ma più a sud.

– E perchè più a sud? Forse che gli eschimesi hanno paura del freddo per spingersi fin qui? Essi salgono molto più a nord e mi ricordo che alcuni furono trovati così lontani dalle terre abitabili da ignorare l’esistenza di altri popoli. James Ross, per esempio, che nel 1818 intraprese una campagna polare, trovò una tribù di questi strani individui al 78° di latitudine, in un lembo di terra da tutti ignorato e che da secoli e secoli vivevano credendo di essere i soli rappresentanti della razza umana. Vedi bene che non hanno paura di spingersi verso nord.

– E chi li aveva condotti là?

– Chi può saperlo? Forse in un’epoca assai lontana una piccola tribù era emigrata fino a quella elevata latitudine.

– Ditemi, signor Hostrup, da dove si crede che siano venuti gli eschimesi?

– Dirlo sarebbe molto difficile, ma si suppone, e con ragione, che siano venuti dall’Asia.

– Infatti mi sembra la via più breve e la più facile, esistendo fra i due continenti il lungo arcipelago delle isole Aleutine. Ed è molto tempo che questo popolo si conosce?

– Si conosceva prima ancora che Cristoforo Colombo scoprisse l’America.

– Eh? – fè Koninson, al colmo della sorpresa.

– Sì, fiociniere, ciò che dico è vero; ma non intendo con ciò scemare il grande merito spettante al celebre navigatore italiano, poichè se si sapeva che esistevano verso nord delle terre abitate, non si sapeva che all’occidente dell’Europa esistesse l’America.

– E chi furono i primi navigatori ad avere relazioni con quei figli delle nebbie e dei ghiacci?

– Gli Scandinavi, che fino dal secolo IX si spinsero verso nord fondando colonie nell’Islanda e nella Groenlandia.

– Avevano dell’audacia, i nostri vecchi!

– Infatti ne ebbero molta, poichè non si accontentarono di sbarcare in Groenlandia, ma si spinsero più oltre verso l’occidente sbarcando su di una costa che pare fosse l’attuale Labrador e dove fondarono ricche e numerose colonie.

– Fino nel Labrador? Ma se oggi è un vero deserto di ghiaccio, appena abitabile dagli eschimesi!

– Oggi sì, ma pare che in quei tempi godesse un clima abbastanza mite, tanto è vero che vi cresceva la vite e appunto per questo chiamarono quella terra Vinlandia, ossia «terra del vino».

– E come scomparvero quelle colonie?

– Non lo si sa. Nei primi anni della scoperta della Vinlandia molti Scandinavi s’imbarcarono per quel paese e anche molti Islandesi, fondando su diversi punti della costa grandi stabilimenti e mandando in Europa molti vascelli carichi di pelliccie; poi, a poco a poco le relazioni coll’Islanda e coi paesi scandinavi si rallentarono, finchè cessarono totalmente, forse a causa dei ghiacci che sempre più scendevano verso sud, forse per altre cause che restarono per sempre ignote. Il fatto è che tutte quelle colonie, un tempo così fiorenti, disparvero senza lasciar traccie. Anzi, taluni opinano che la Vinlandia non fosse il Labrador, ma l’isola di Terra Nuova; così incerte sono le memorie lasciate da quegli intrepidi naviganti e coloni.

– Che siano stati tutti uccisi dagli eschimesi?

– Non si sa, Koninson. Fors’anche dalla fame causata dal crescente freddo apportato dai ghiacci che distrusse i loro raccolti, forse da guerre civili, forse da qualche epidemia e, potrebbe anche darsi, dagli eschimesi.

– E non potrebbero essersi invece fusi cogli eschimesi?

– È possibile; anzi, molti scienziati sono del tuo parere, poichè è stato più volte osservato che talune tribù eschimesi sotto i loro strati di olio e di pittura hanno la pelle bianca. Ma lasciamo lì gli eschimesi e pensiamo ad accamparci. Domani, se il tempo, lo permetterà, ci dirigeremo verso quella catena di monti che chiudono l’orizzonte meridionale.

– E poi? – chiese Koninson.

– Poi continueremo ad avanzare verso sud finchè incontreremo il Porcupine. Quando saremo là, penseremo a raggiungere il fiume Makenzie e quindi il lago del Grand’Orso.

– Perchè andremo fino a quel lago?

– Perchè là appunto si trova un forte della Compagnia della Baia d’Hudson.

– Allora ci andremo. Le nostre gambe sono buone malgrado la lunga prigionia subita in quella dannata capanna. Ora accampiamoci e mettiamo sotto i denti qualche cosa, poichè mi sento una fame diabolica.

Staccarono la vela dalla slitta, rizzarono una specie di tenda sostenuta dall’albero e dal pennoncino e coprirono il suolo colle pelli che avevano portato con loro per ripararsi dal freddo e combattere l’umidità.

Koninson, accesa la lampada, fece bollire un pò di pesce secco mescolandovi dei fagiuoli, gli ultimi che ancora possedeva, e quando tutto fu pronto invitò il tenente al magro desco. Dopo una fumata, turarono per bene la tenda e si coricarono cercando di addormentarsi.

Avevano appena chiuso gli occhi che udirono, a breve distanza, un lungo urlo che aveva un non so che di lugubre.

– Che razza di bestia si avvicina? – chiese Koninson, allungando la destra verso il suo fucile.

– Mi pare che fosse l’urlo d’un lupo! – disse il tenente, punto spaventato.

– Brutta compagnia, signor Hostrup. Forse che quei famelici animali si spingono fin sulle rive dell’oceano artico?

– Nella buona stagione s’incontrano anche su queste coste. Probabilmente hanno fiutato l’odore del nostro pasto e si sono affrettati a dirigersi a questa volta. Metti fuori il capo e guarda.

Koninson alzò la tela e strisciò all’aperto portando con sè il fucile.

Un grande lupo dal mantello grigio urlava verso alcuni grossi animali assai villosi, che per le loro forme somigliavano ai buoi e che passavano ad un chilometro di distanza dirigendosi verso la catena di monti.

– Signor Hostrup, uscite, uscite! – esclamò egli. – Vedo dei buoi.

– Dei buoi? – disse il tenente. – Sei pazzo, giovanotto mio?

– No, no, affrettatevi che se ne vanno.

Il tenente uscì e dovette proprio convincersi che Koninson non aveva del tutto torto.

– Sono buoi muschiati – disse, dopo aver attentamente guardato i ruminanti che galoppavano rapidamente verso sud. – E sono molti.

– Una ventina per lo meno – aggiunse Koninson. – Sono buoni da mangiare?

– Sì, fiociniere.

– Che appartengano a qualche tribù di eschimesi?

– No, non vivono che allo stato selvaggio e s’incontrano di rado, poichè la loro razza va a poco a poco scomparendo.

– Se li inseguissimo?

– Sarebbe fatica sprecata, poichè corrono e molto più rapidamente di noi.

– Ma volete lasciarli andare? – insistette il fiociniere che si era fitto in capo di regalarsi, per l’indomani, delle succolente bistecche

– Per ora sì, ma domani cercheremo di sorprenderli in qualche vallata e vedrai che qualcuno cadrà sotto le nostre palle. Oggi è inutile spaventarli.

Il fiociniere dovette a malincuore arrendersi. D’altronde i buoi muschiati, che forse avevano fiutato qualche pericolo sia da parte dei due balenieri che dei lupi, si erano affrettati ad allontanarsi, ed in breve sparvero in mezzo alle colline di neve.

 

Il tenente e il suo compagno ritornarono sotto la tenda e si riaddormentarono, ma furono ancora risvegliati, e parecchie volte, dalle urla dei lupi, di cui alcuni vennero a ronzare non solo attorno alla slitta, ma anche attorno alla tenda.

All’indomani, un pò prima delle 6, erano tutti e due in piedi, pronti a mettersi in caccia.

La giornata era splendida. Al disopra dei monti di ghiaccio che chiudevano l’orizzonte settentrionale, brillava un superbo sole il quale aveva portato la temperatura a soli 9° sotto lo zero.

Per l’aria, vere nuvole di uccelli passavano e ripassavano mandando allegre grida, e sui campi di neve della terra americana si vedevano galoppare in tutti i sensi gran numero di volpi bianche occupate a cacciare i piccoli sorci di neve che cominciavano a lasciare le loro tane.

La grossa selvaggina non mancava. In lontananza, fra gli «icebergs» e gli «hummocks», dei lunghi corpi nerastri si avvoltolavano in mezzo alle nevi, godendosi i tiepidi raggi di sole che li inondavano; erano foche e trichechi che, forato il ghiaccio, venivano a «respirare una boccata d’aria» come diceva Koninson.

– Partiamo! – disse il tenente, dopo essersi riempite le tasche di palle e di polvere ed essersi caricato del fucile e di una scure. – I buoi muschiati non devono essere molto lontani.

– E la slitta la lasceremo qui? – chiese Koninson.

– Partiremo domani per il sud. Oggi ci dedicheremo alla caccia.

– Non chiedo di meglio. Avanti, signor Hostrup; io ho un vivissimo desiderio di far conoscenza coi buoi muschiati.

Chiusero alla meglio la tenda affinchè durante la loro assenza i lupi non facessero man bassa sui viveri, inforcarono gli occhiali per difendere gli occhi dal riflesso delle nevi percosse dai raggi solari e si misero animosamente in cammino, dirigendosi verso la catena di montagne, le cui valli non potevano essere lontane più di quattro o cinque miglia.

Sul principio la marcia non fu difficile, quantunque la neve, cominciando a sciogliersi, rendesse il cammino faticoso; ma ben presto divenne aspra a causa del terreno che diventava sempre più malagevole, ora interrotto da larghi crepacci dai quali saliva una fitta nebbia che tosto si disperdeva, ora da profondi letti di neve che cedeva subito sotto i piedi, ed ora da certe collinette brulle i cui fianchi, coperti di ghiaccio, mal si prestavano per le ascensioni.

Soffermandosi però di quando in quando per riprendere lena, verso le 10 del mattino i due cacciatori giungevano all’entrata di una stretta ma molto profonda e tortuosa vallata, interrotta qua e là da alte roccie sui cui fianchi germogliavano stentatamente alcuni campioni della famiglia delle sassifraghe, pochi salici artici e licheni di roccia.

Il tenente, che di quando in quando si arrestava per guardare la neve, scoprì numerose traccie di buoi muschiati che si perdevano in fondo alla valle.

– Siamo vicini alla grossa selvaggina – disse a Koninson. – Prepara il fucile e bada di non mancare il colpo, poichè i buoi muschiati hanno delle solide corna.

– Assalgono i cacciatori? – chiese il fiociniere.

– Qualche volta sì, e allora diventano pericolosi; più d’un eschimese è stato sventrato come un «toreador» spagnuolo, se non peggio. Avanti e silenzio.

Armarono i fucili e s’addentrarono nella valle cercando di evitare gli stagni e i piccoli corsi d’acqua per non fare rumore calpestando il ghiaccio che li copriva e cercando pure di mantenersi nascosti più che era possibile, allo scopo di non allarmare subito la selvaggina che forse pascolava a breve distanza.

Avevano percorso in quella guisa oltre mezzo miglio, quando udirono dietro alcune roccie dei sonori muggiti.

– Adagio, Koninson! – mormorò il tenente trattenendo il compagno che stava per slanciarsi innanzi. – Giriamo pian piano le roccie.

Si gettarono a terra e, strisciando a mò di serpenti, avanzarono lentamente finchè giunsero a una piccola rupe, dietro la quale potevano vedere e sparare senza correre pericolo.

La scalarono e guardarono dall’altra parte: i buoi muschiati, che la sera innanzi avevano attraversata la pianura inseguiti dai lupi, stavano loro dinanzi, a meno di duecento passi.

XX. ATTRAVERSO LE MONTAGNE

Erano tredici, meno grandi dei bufali e dei buoi comuni, ma d’aspetto ferocissimo, col loro lunghissimo pelo color bruno scuro che scendeva quasi fino a terra, gli occhi selvaggi e le lunghe corna minacciosamente allargate all’infuori.

Formavano una specie di cerchio attorno a due buoi che avevano forme più massicce, corna molto più lunghe e statura molto più elevata, senza dubbio due maschi, e che si guardavano ferocemente come se fossero lì lì per precipitarsi l’uno contro l’altro.

– Facciamo fuoco? – chiese Koninson, che tormentava il grilletto del suo fucile.

– Non ancora, – rispose il tenente.

– Perchè, signor Hostrup? Se ci scappano?

– Non ci scapperanno, fiociniere. Hanno ben altro da fare ora.

– E cosa mai?

– Se non m’inganno, stiamo per assistere ad un duello fra quei due maschi, cosa che succede di frequente fra questi intrattabili ruminanti.

– E perchè mai?

– Per disputarsi le femmine. Sta zitto e guarda.

I due maschi infatti stavano per impegnare una di quelle lotte che quasi sempre finiscono colla morte di uno degli avversari e qualche volta di tutti e due.

Avevano abbassato i solidi cranii, mostrando le corna che sembravano assai aguzze e d’una durezza a tutta prova e dimenavano le brevi code con crescente rapidità, indizio certo della grande irritazione che li animava. Le femmine, dal canto loro, si erano affrettate a ritirarsi da una parte, onde lasciare maggior campo ai due campioni.

Ad un tratto, i due combattenti mandarono un muggito lungo, sonoro, che si ripercosse stranamente per la stretta valle, e si scagliarono l’un contro l’altro con rabbia estrema e colla testa bassa.

L’urto fu terribile: entrambi non ressero all’incontro e caddero l’un sull’altro; ma tosto si rialzarono con un’agilità che non si sarebbe supposta in quei corpi, tornando a caricarsi con maggior furore e avventandosi tremende cornate che laceravano la pelle e producevano profonde ferite dalle quali il sangue sgorgava a rivi.

Per un buon quarto d’ora combatterono con varia fortuna mescendo i muggiti ai cupi colpi delle lunghe corna, poi uno, il più piccolo, cadde dibattendosi fra le convulsioni della morte. Dal ventre squarciato per un lungo tratto, assieme ad una vera pioggia di sangue, uscivano gli intestini.

Il vincitore però non si arrestò, e quantunque pur lui ridotto a mal partito, colla fronte quasi interamente scoperta dalla quale pendevano brani di pelle sanguinolenta, un occhio levato e il petto sfondato, si scagliò un’ultima volta sul vinto, percuotendolo rabbiosamente cogli zoccoli e colle corna.

– Ah brigante! – mormorò Koninson, che non poteva più star fermo. – Ora ti accomodo io.

Stava per puntare il fucile, quando la banda tutta d’un tratto fece un rapido voltafaccia slanciandosi attraverso la valle, seguita, dopo una breve esitazione, anche dal vincitore.

Il tenente e Koninson balzarono sulla roccia che li aveva fino allora nascosti e fecero fuoco dietro ai fuggiaschi che non si arrestarono, quantunque uno fosse stato veduto fare uno scarto e vacillare.

– Inseguiamoli! – gridò il fiociniere.

– È inutile, – disse il tenente. – Non vedi come trottano? Ci vorrebbero dei cavalli per raggiungerli.

– Ma in qualche luogo si fermeranno.

– Sì, ma dove e quando? Sono capaci di attraversare la catena di monti e di slanciarsi verso le pianure del sud.

– Quegli animali si arrampicano anche sui monti?

– Sì e come le capre.

– Ma ditemi, signor Hostrup, perchè si chiamano buoi muschiati?

– Perchè la loro carne è impregnata di muschio.

– Sicchè noi mangeremo delle bistecche…

– Muschiate e molto muschiate, mio caro fiociniere.

– Bah! Purchè sia carne fresca, non domando altro.

– Non ne mangerai molta, te l’assicuro.

– Ma se gli eschimesi la mangiano…

– Gli eschimesi vi sono abituati e poi, sai bene che hanno dei ventricoli capaci di tollerare qualunque cibo nauseante, come pesci corrotti, olio di foca e di balena, ecc. Orsù, andiamo a tagliare qualche pezzo di carne e poi torniamo alla tenda.

Si diressero verso il bue che aveva terminato di agitarsi e a colpi di scure gli aprirono il ventre, staccandogli sei o sette costole. Koninson però non si accontentò e si impadronì anche della lingua che doveva essere eccellente.

Raccolte le armi, si misero in cammino e verso le 6 pomeridiane giungevano alla tenda attorno alla quale trovarono numerose traccie di lupi, segno evidente che avevano tentato di entrarvi, ma senza riuscirvi.

La lampada fu accesa e la pentola messa a bollire con un bel pezzo di carne che non pesava meno di due chilogrammi; ma i due balenieri per quanto si sforzassero e per quanta voglia avessero di porre sotto i denti un pò di quel manzo, fecero poco onore al pasto. Carne e brodo erano impregnati di muschio in siffatto modo, che un vero affamato avrebbe esitato lunga pezza.

– Al diavolo i buoi e il loro muschio! – esclamò Koninson, – Non valeva la pena di fare tanta strada per guadagnarci questo pasto,

– Te l’avevo detto – disse il tenente. – Ma ci hanno guadagnato le nostre gambe che avevano bisogno di una bella passeggiata per prepararsi alla gran marcia.

– Quando partiremo?

– Domani, se il tempo lo permetterà.

– Allora buona notte, signor Hostrup.

Richiusero la tenda, tirando per maggior precauzione la slitta dinanzi all’entrata e s’avvolsero nelle loro coperte dopo aver però caricato le armi onde essere pronti a qualsiasi assalto.

Il mattino del 23 il tenente dava il segnale della partenza. Egli aveva fretta di allontanarsi da quelle spiaggie che non offrivano alcuna risorsa e che, stante la vicinanza della catena di montagne, le cui cime dovevano essere ricche di ghiacciai pronti a spezzarsi ai primi calori, potevano diventare pericolosissime.

Piegata la tenda e insaccati i viveri, i due intrepidi balenieri si recarono sulla spiaggia a dare un ultimo sguardo a quel mare gelato nelle cui profondità dormivano i loro disgraziati compagni e che forse non dovevano mai più rivedere.

I campi di ghiaccio erano ancora là, colle nevi che il sole non era ancora riuscito a intaccare e colle loro montagne dalle cime bizzarramente frastagliate, ma non presentavano più quella superficie compatta che avrebbe sfidato le mine e lo sperone delle corazzate dei due mondi. Qua e là, immensi crepacci si erano aperti ed in fondo a questi si vedeva il mare alzarsi ed abbassarsi e poi tornare a montare, quasi fosse stanco di quella lunga ed opprimente prigionia.

Ogni qual tratto, un «iceberg» mal solido, o scosso dai continui urti di ghiacci minori, capitombolava con un fragore immenso che si ripercuoteva a grandi distanze in quell’atmosfera limpida e secca, o s’apriva improvvisamente, con uno scricchiolìo che si perdeva in lontananza, un largo crepaccio dentro il quale si rovesciavano confusamente colonne, cupole e piramidi che tosto scomparivano sotto lo spumeggiante oceano. Altre volte invece, una vera montagna di ghiaccio, sfondando col proprio peso il banco, scompariva e poi riappariva con un salto immenso lanciando, in mezzo ai ghiacci che l’attorniavano, degli enormi sprazzi di acqua che correvano in tutte le direzioni, formando qua e là dei torrenti e dei laghetti ove calavano subito a bagnarsi, gettando strida gioconde, bande di uccelli marini.

– È pur sempre bello questo strano spettacolo che solamente qui si può ammirare – disse il tenente.

– Bello sì, ma io vorrei esserne ben lontano – disse Koninson. – Vivessi mille anni mi ricorderò sempre di questa disgraziata campagna.

– Non parliamone, amico mio, e partiamo.

– Avete ragione, signor Hostrup. È meglio lasciar dormire i tristi ricordi e mettere la prua verso sud. Animo, Koninson, se vuoi salvare la pelle.

Il fiociniere e il tenente, dato un ultimo sguardo all’oceano polare, si attaccarono alla slitta a cui avevano legato delle corde e si misero animosamente in marcia cercando di mantenere una via, più che era possibile, retta.

La grossa crosta di ghiaccio che ancora copriva la terra, si prestava assai allo scivolamento del veicolo, ma le frequenti screpolature, manifestatesi qua e là, e di cui talune raggiungevano qualche metro di larghezza, i frequenti incontri di strati di neve non ancor ben solidificata o in via di scioglimento, entro i quali i due balenieri sprofondavano fino alle anche, e talvolta anche più, rallentavano e rendevano penoso il cammino. Ma la tenacia del tenente e la robustezza di Koninson la vinsero sugli ostacoli, ed a mezzogiorno la slitta si trovava già nella valle che menava direttamente ai monti. Colà si trovava ancora il bue muschiato ucciso il giorno innanzi, ma ridotto ormai uno scheletro dai denti degli affamati lupi.

 

Fecero una breve fermata onde mangiare un boccone, indi ripresero il faticoso cammino, reso ancor più difficile dal notevole innalzarsi del terreno e dall’incontro di enormi lastre di ghiaccio staccatesi senza dubbio da qualche vicino ghiacciaio e scivolate fin là.

La valle era deserta e selvaggia. A destra e a sinistra, bizzarre roccie di natura granitica, come lo sono tutte quelle che si incontrano in quelle gelate regioni, rivestite di neve e di ghiaccio, s’alzavano capricciosamente frastagliate e per lo più coi fianchi così ripidi da rendere impossibile una scalata. Qua e là gran numero di massi enormi coprivano il terreno e disposti in così strana guisa che parevano scagliati da qualche improvviso scoppio di uria poderosa mina ed in mezzo a quelli, piccole piante, magri licheni, mezzi divorati dai buoi muschiati o dalle renne, ranuncoli, sassifraghe e graminacee.

Non un animale, non un uccello si scorgevano in quella brutta valle e regnava un silenzio profondo, triste, che faceva una strana impressione.

– Che brutto luogo! – disse Koninson. – Si direbbe che stiamo per attraversare un cimitero. Ma dove si sono cacciati i lupi e i buoi muschiati?

– Non lo so meglio di te – rispose il tenente. – Ma, se devo dirti il vero, non mi trovo bene in questa valle.

– E perchè? Temete qualche cosa?

– Forse, Koninson; ma andiamo innanzi.

Continuarono ad avanzare, salendo sempre e raddoppiando gli sforzi, senza incontrare nè un lupo, nè una volpe, animali questi che si vedono dappertutto in quelle lontane regioni. Il tenente, man mano che procedeva, diventava più inquieto; l’assenza di quegli animali, anzichè tranquillizzarlo, lo rendeva pensieroso.

Erano già giunti a due soli chilometri da un’alta montagna, i cui fianchi, coperti da immensi ghiacci tramandavano, sotto i riflessi del sole, una luce acciecante, quando il tenente si arrestò improvvisamente afferrando le braccia di Koninson.

– Ascolta! – disse.

Lassù, verso la montagna, si udiva uno strano rumore; pareva che si staccasse o si fendessse del ghiaccio e che poi scivolasse producendo dei lunghi fischi.

– Cosa succede? – chiese Koninson.

– Non v’è più dubbio, ci troviamo dinanzi ad un grande ghiacciaio – rispose il tenente.

– E così?

– Questi scricchiolii e queste sorde detonazioni indicano la imminente caduta dei ghiacci. Stiamo in guardia, Koninson.

– Volete che pieghiamo verso est?

– Credo che sarà meglio per noi.

Piegarono a destra e si cacciarono dietro una lunga linea di roccie che potevano ripararli. Era tempo!

Tutt’a un tratto, sulla montagna che giganteggiava dinanzi a loro, s’udirono spaventevoli detonazioni seguite da lunghi fischi e dall’alto si videro scivolare con straordinaria rapidità degli immensi blocchi di ghiaccio i quali, rovesciando e polverizzando gli innumerevoli «hummoks» formati dalla neve, si scagliavano attraverso alla valle come altrettanti treni diretti, alcuni filando verso nord in direzione del mare ed altri spaccandosi contro le roccie che nell’urto perdevano tutto il loro rivestimento invernale.

A quella prima discesa ne tenne dietro una seconda, poi una terza, una quarta, una quinta ad intervalli di pochi minuti, empiendo l’aria di mille fragori e la valle di massi di ghiaccio.

I due balenieri, riparati dalle roccie che si dirigevano verso est senza interruzioni, camminavano rapidamente per tema che altri ghiacci, passando sopra ai caduti, non finissero col sorpassare la linea che li proteggeva e che non era molto alta.

Di quando in quando, dei massi di ghiaccio, rimbalzando a grande altezza, cadevano al di là delle roccie ed uno per poco non sfracellò la testa a Koninson.

– Presto, presto, – ripeteva il tenente, facendo sforzi sovrumani, – o prima di domani nessuno di noi sarà vivo.

– Dannata regione! – borbottava Koninson, che malgrado il freddo cominciava a sudare. – In mare i ghiacci stritolano le navi e in terra mirano le costole degli uomini!

Spronati dal continuo capitombolare dei massi e dalle detonazioni che crescevano d’intensità annunciando altre e più pericolose cadute, verso le otto della sera, affranti, affamati, giungevano dinanzi ad una seconda montagna più bassa, meno irta e i cui fianchi non offrivano alla vista alcun ghiacciaio.

– Alt! – disse il tenente. – Accampiamoci qui.

– Saremo sicuri?

– Lo credo, Koninson; però dormiremo con un solo occhio.

Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»