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L'innocente

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La voix vous fut connue (et chère?)

Mais à présent elle est voilée

Comme une veuve désolée…

Elle dit, la voix reconnue,

Que la bonté c’est notre vie…

Elle parle aussi de la gloire

D’etre simple sans plus attendre,

Et de noces d’or et du tendre

Bonheur d’une paix sans victoire.

Accueillez la voix qui persiste

Dans son naïf épithalame.

Allez, rien n’est meilleur à l’âme

Que de faire une âme moins triste!

Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:

– Tu… potresti dimenticare?

Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:

– Silenzio.

Entrò mia madre annunziando la visita della signora Tàlice, in quel punto. Io lessi nel volto di Giuliana il fastidio, e anch’io fui preso da un’irritazione sorda contro l’importuna. Giuliana sospirò:

– Oh mio Dio!

– Dille che Giuliana riposa – io suggerii a mia madre con un accento quasi supplichevole.

Ella mi accennò che la visitatrice aspettava nella stanza contigua. Bisognò riceverla.

Questa signora Tàlice era d’una loquacità maligna e stucchevole. Mi guardava di tratto in tratto con un’aria curiosa. Come mia madre per caso, nel corso della conversazione, disse ch’io tenevo compagnia alla convalescente dalla mattina alla sera quasi di continuo, la signora Tàlice esclamò con un tono d’ironia manifesta, guardandomi:

– Che marito perfetto!

La mia irritazione crebbe così che mi risolsi, con un pretesto qualunque, ad andarmene.

Uscii di casa. Incontrai per le scale Maria e Natalia che tornavano accompagnate dalla governante. Mi assalirono secondo il solito, con un’infinità di moine; e Maria, la maggiore, mi diede alcune lettere che aveva prese dal portiere. Tra queste riconobbi sùbito la lettera dell’Assente. E allora mi sottrassi alle moine, quasi con impazienza. Giunto su la strada, mi soffermai per leggere.

Era una lettera breve ma appassionata, con due o tre frasi d’una eccessiva acutezza, quali sapeva trovare Teresa per agitarmi. Ella mi faceva sapere che sarebbe stata a Firenze tra il 20 e il 25 del mese e che avrebbe voluto incontrarmi là «come l’altra volta». Mi prometteva notizie più esatte pel convegno.

Tutti i fantasmi delle illusioni e delle commozioni recenti abbandonarono a un tratto il mio spirito, come i fiori d’un albero scosso da una folata gagliarda. E come i fiori caduti sono per l’albero irrecuperabili, così furono per me quelle cose dell’anima: mi divennero estranee. Feci uno sforzo, tentai di raccogliermi; non riuscii a nulla. Mi misi a girare per le strade, senza scopo; entrai da un pasticciere, entrai da un libraio; comprai dolci e libri macchinalmente. Scendeva il crepuscolo; s’accendevano i fanali; i marciapiedi erano affollati; due o tre signore dalle loro carrozze risposero al mio saluto; passò un amico a fianco della sua amante che portava tra le mani un mazzo di rose, camminando presto e parlando e ridendo. Il soffio malefico della vita cittadina m’investì; risuscitò le mie curiosità, le mie cupidigie, le mie invidie. Arricchito in quelle settimane di continenza, il mio sangue ebbe come un’accensione subitanea. Alcune imagini mi balenarono lucidissime dentro. L’Assente mi riafferrò con le parole della sua lettera. E tutto il mio desiderio andò verso di lei, senza freno.

Ma quando il primo tumulto si fu placato, mentre risalivo le scale della mia casa, compresi tutta la gravità di quel che era accaduto, di quel che avevo fatto; compresi che veramente, poche ore prima, avevo riallacciato un legame, avevo obbligata la mia fede, avevo data una promessa, una promessa tacita ma solenne a una creatura ancóra debole e inferma; compresi che non avrei potuto senza infamia ritrarmi. E allora io mi rammaricai di non aver diffidato di quella commozione ingannevole, mi rammaricai di essermi troppo indugiato in quel languore sentimentale! Esaminai minutamente i miei atti e i miei detti di quel giorno, con la fredda sottigliezza d’un mercante subdolo il quale cerchi un appiglio per sottrarsi alla stipulazione di un contratto già concordato. Ah, le mie ultime parole orano state troppo gravi. Quel «Tu… potresti dimenticare?» pronunziato con quell’accento, dopo la lettura di quei versi, aveva avuto il valore di una conferma definitiva. E quel «Silenzio» di Giuliana era stato come un suggello.

«Ma» io pensai «questa volta ha ella proprio creduto al mio ravvedimento? Non è ella stata sempre un poco scettica a riguardo dei miei buoni moti?» E rividi quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. «Se ella dentro di sé non avesse creduto, se anche la sua illusione fosse caduta subitamente, allora forse la mia ritirata non avrebbe molta gravità, non la ferirebbe né la sdegnerebbe troppo; e l’episodio rimarrebbe senza conseguenza, e io rimarrei libero come prima. Villalilla rimarrebbe nel suo sogno.» E rividi l’altro sorriso, il sorriso nuovo, impreveduto, credulo, che le era comparso su le labbra al nome di Villalilla. «Che fare? Che risolvere? Come contenermi?» La lettera di Teresa Raffo mi bruciava forte.

Quando rientrai nella stanza di Giuliana, m’accorsi al primo sguardo che ella mi aspettava. Mi parve lieta, con gli occhi lucidi, con un pallore più animato, più fresco.

– Tullio, dove sei stato? – mi domandò ridendo.

Io risposi:

– Mi ha messo in fuga la signora Tàlice.

Ella seguitò a ridere, d’un limpido riso giovenile che la trasfigurava. Io le porsi i libri e la scatola delle confetture.

– Per me? – esclamò, tutta contenta, come una bambina golosa; e si affrettò ad aprire la scatola, con piccoli gesti di grazia, che risollevavano nel mio spirito lembi di ricordi lontani. – Per me?

Prese un bonbon, fece l’atto di portarlo alla bocca, esitò un poco, lo lasciò ricadere, allontanò la scatola; e disse:

– Poi, poi…

– Sai, Tullio, – m’avvertì mia madre – non ha ancóra mangiato nulla. Ha voluto aspettarti.

– Ah, non t’ho ancóra detto… – proruppe Giuliana, divenuta rosea – non t’ho ancóra detto che c’è stato il dottore, mentre eri fuori. Mi ha trovata molto meglio. Potrò alzarmi giovedì. Capisci, Tullio? Potrò alzarmi giovedì…

Soggiunse:

– Fra dieci, fra quindici giorni al piú, potrò anche mettermi in treno.

Soggiunse, dopo una pausa pensosa, con un tono minore:

– Villalilla!

Ella non aveva dunque pensato ad altro, non aveva sognato altro. Ella aveva creduto; credeva. Io duravo fatica a dissimulare la mia angoscia. Mi occupavo, con soverchia premura, forse, dei preparativi pel suo piccolo pranzo. Io medesimo le misi su le ginocchia la tavoletta.

Ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole che mi faceva male. «Ah, se ella potesse indovinare!» D’un tratto, mia madre esclamò, candidamente:

– Come sei bella stasera, Giuliana!

Infatti, un’animazione straordinaria le avvivava le linee del volto, le accendeva gli occhi, la ringiovaniva tutta quanta. All’esclamazione di mia madre, ella arrossì; e un’ombra di quel rossore le rimase per tutta la sera su le gote.

– Giovedì mi alzerò – ripeteva. – Giovedì, fra tre giorni! Non saprò più camminare…

Insisteva col discorso su la sua guarigione, su la nostra partenza prossima. Chiese a mia madre alcune notizie su lo stato attuale della villa, sul giardino.

– Io piantai un ramo di salice vicino alla peschiera, l’ultima volta che ci fummo. Ti ricordi, Tullio? Chi sa se ce lo ritroverò…

– Sì sì, – interruppe mia madre, raggiante – ce lo ritroverai; è cresciuto; è un albero. Domandalo a Federico.

– Davvero? Davvero? Dimmi dunque, mamma…

Pareva che quella piccola particolarità in quel momento avesse per lei un’importanza incalcolabile. Ella divenne loquace. Io mi meravigliavo ch’ella fosse così a dentro nell’illusione, mi meravigliavo ch’ella fosse così trasfigurata dal suo sogno. «Perché, perché questa volta ella ha creduto? Come mai si lascia così trasportare? Chi le dà questa insolita fede?» E il pensiero della mia infamia prossima, forse inevitabile, mi agghiacciava. «Perché inevitabile? Non saprò dunque mai liberarmi? Io debbo, io debbo mantenere la mia promessa. Mia madre è testimone della mia promessa. A qualunque costo, la manterrò.» E con uno sforzo interiore, quasi direi con una scossa della conscienza, io uscii dal tumulto delle incertezze; e mi rivolsi a Giuliana, per un moto dell’anima quasi violento.

Ella mi piacque ancóra, eccitata com’era, vivace, giovine. Mi rammentava la Giuliana d’un tempo, che tante volte in mezzo alla tranquillità della vita familiare io aveva sollevata d’improvviso su le mie braccia, come preso da una follia repentina, e portata di corsa nell’alcova.

– No, no, mamma; non mi far più bere – ella pregò, trattenendo mia madre che le versava il vino. – Già ho bevuto troppo, senza accorgermene. Ah questo Chablis! Ti ricordi, Tullio?

E rise, guardandomi dentro le pupille, nell’evocare il ricordo d’amore su cui ondeggiava il fumo di quel delicato vino amaretto e biondo ch’ella prediligeva.

– Mi ricordo – io risposi.

Ella socchiuse le palpebre, con un leggero tremolio dei cigli. Disse poi:

– Fa caldo qui. È vero? Ho gli orecchi che mi scottano.

E si strinse la testa fra le palme, per sentire il bruciore. Il lume, che ardeva a lato del letto, rischiarava intensamente la lunga linea del viso; faceva rilucere tra il folto de’ capelli castagni alcuni fili d’oro chiaro, ove l’orecchio piccolo e fine, acceso alla sommità, traspariva.

A un punto, mentre io aiutavo a sparecchiare (mia madre era uscita, e la cameriera anche, per un momento, e stavano nella stanza attigua), ella chiamò sottovoce:

 

– Tullio!

E, con un gesto furtivo attirandomi, mi baciò su una gota.

Ora, non doveva ella con quel bacio riprendermi interamente, anima e corpo, per sempre? Quell’atto, in lei così sdegnosa e così fiera, non significava che ella voleva tutto obliare, che aveva già tutto obliato per rivivere con me una vita nuova? Avrebbe potuto ella riabbandonarsi al mio amore con più grazia, con maggior confidenza? La sorella ridiventava l’amante a un tratto. La sorella impeccabile aveva conservato nel sangue, nelle più segrete vene, la memoria delle mie carezze, quella memoria organica delle sensazioni, così viva nella donna e così tenace. Ripensando, quando mi ritrovai solo, ebbi interrottamente alcune visioni di giorni lontani, di sere lontane. «Un crepuscolo di giugno, caldo, tutto roseo, navigato da misteriosi profumi, terribile ai solitarii, a coloro che rimpiangono o che desiderano. Io entro nella stanza. Ella è seduta presso alla finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell’attitudine di chi sia per venir meno. – Giuliana! – Ella si scuote, si risolleva. – Che fai? – Risponde: – Nulla. – E un’alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passa nei suoi occhi troppo neri.» Quante volte, dal giorno della triste rinunzia, ella aveva patito nella sua povera carne quelle torture? Il mio pensiero s’indugiò intorno alle imagini suscitate dal piccolo fatto recente. La singolare eccitazione mostrata da Giuliana mi rammentò certi esempi della sua sensibilità fisica straordinariamente acuta. La malattia, forse, aveva aumentata, esasperata quella sensibilità. Ed io pensai, curioso e perverso, che avrei veduto la debole vita della convalescente ardere e struggersi sotto la mia carezza; e pensai che la voluttà avrebbe avuto quasi un sapore di incesto. «Se ella ne morisse?» pensai. Certe parole del chirurgo mi tornavano alla memoria, sinistre. E, per quella crudeltà che è in fondo a tutti gli uomini sensuali, il pericolo non mi spaventò ma mi attrasse. Io m›indugiai ad esaminare il mio sentimento con quella specie di amara compiacenza, mista di disgusto, che portavo nell›analisi di tutte le manifestazioni interiori le quali mi paressero fornire una prova della malvagità fondamentale umana. «Perché l›uomo ha nella sua natura questa orribile facoltà di godere con maggiore acutezza quando è consapevole di nuocere alla creatura da cui prende il godimento? Perché un germe della tanto esecrata perversione sàdica è in ciascun uomo che ama e che desidera?»

Questi pensieri, più che il primitivo spontaneo sentimento di bontà e di pietà, questi pensieri obliqui mi condussero in quella notte a raffermare il mio proposito in favore della illusa. L›Assente mi avvelenava anche di lontano. Per vincere la resistenza del mio egoismo, ebbi bisogno di contrapporre all›imagine della deliziosa depravazione di quella donna l›imagine di una nuova rarissima depravazione che io mi promettevo di coltivar con lentezza nella onesta securità della mia casa. Allora, con quell›arte quasi direi alchimistica che io aveva nel combinare i varii prodotti del mio spirito, analizzai la serie degli «stati d’animo» speciali in me determinati da Giuliana nelle diverse epoche della nostra vita comune, e ne trassi alcuni elementi i quali mi servirono a construrre un nuovo stato, fittizio, singolarmente adatto ad accrescere l’intensità di quelle sensazioni che io voleva esperimentate. Così, per esempio, allo scopo di rendere più acre quel «sapore d’incesto» che m’attraeva eccitando la mia fantasia scellerata, io cercai di rappresentarmi i momenti in cui più profondo era stato in me il «sentimento fraterno» e più schietta mi era parsa l’attitudine di sorella in Giuliana.

E chi s’indugiava in queste miserabili sottigliezze di maniaco era l’uomo medesimo che poche ore innanzi aveva sentito il suo cuore tremare nella semplice commozione della bontà, al lume di un sorriso impreveduto! Di tali crisi contradittorie si componeva la sua vita: illogica, frammentaria, incoerente. Erano in lui tendenze d’ogni specie, tutti i possibili contrarii, e tra questi contrarii tutte le gradazioni intermedie e tra quelle tendenze tutte le combinazioni. Secondo il tempo e il luogo, secondo il vario urto delle circostanze, d’un piccolo fatto, d’una parola, secondo influenze interne assai più oscure, il fondo stabile del suo essere si rivestiva di aspetti mutevolissimi, fuggevolissimi, strani. Un suo speciale stato organico rinforzava una sua speciale tendenza; e questa tendenza diveniva un centro di attrazione verso il quale convergevano gli stati e le tendenze direttamente associati; e a poco a poco le associazioni si propagavano. Il suo centro di gravità allora si trovava spostato e la sua personalità diventava un’altra. Silenziose onde di sangue e d’idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o ad un tratto, anime nuove. Egli era multanime.

Insisto su l’episodio perché veramente segna il punto decisivo.

La mattina dopo, al risveglio, non conservavo se non una nozione confusa di quanto era accaduto. La viltà e l›angoscia mi ripresero appena ebbi sotto gli occhi un›altra lettera di Teresa Raffo, con cui ella mi confermava il convegno a Firenze pel 21, dandomi istruzioni precise. Il 21 era sabato, e giovedì 19 Giuliana si levava per la prima volta. Io discussi a lungo, con me stesso, tutte le possibilità. Discutendo, incominciai a transigere. «Sì, non c›è dubbio: è necessaria una rottura, è inevitabile. Ma in che modo io romperò? con quale pretesto? Posso io annunziare il mio proposito a Teresa con una semplice lettera? La mia ultima risposta era ancóra calda di passione, smaniosa di desiderio. Come giustificare questo mutamento subitaneo? Merita la povera amica un colpo tanto inaspettato e brutale? Ella mi ha molto amato, mi ama; ha sfidato per me, un tempo, qualche pericolo. Io l›ho amata… l›amo. La nostra grande e strana passione è conosciuta; invidiata anche; insidiata anche… Quanti uomini ambiscono a succedermi! Innumerevoli.» Numerai rapidamente i rivali più temibili, i successori più probabili, considerandone le figure imaginate. «C›è forse a Roma una donna più bionda, più affascinante, più desiderabile di lei?» La stessa accensione repentina, avvenuta la sera innanzi nel mio sangue, mi percorse tutte le vene. E il pensiero della rinunzia volontaria mi parve assurdo, inammissibile. «No, no, non avrò mai la forza; non vorrò, non potrò mai.»

Sedata la turbolenza, proseguii il vano dibattito, pur avendo in fondo a me la certezza che, giunta l›ora, non avrei potuto non partire. Ebbi però il coraggio, uscendo dalla stanza della convalescente, essendo ancóra tutto vibrante di commozione, ebbi il supremo coraggio di scrivere a quella che mi chiamava: «Non verrò». Inventai un pretesto; e, mi ricordo bene, quasi per istinto lo scelsi tale che a lei non sembrasse troppo grave. – Speri dunque che ella non curi il pretesto e t›imponga di partire? – chiese qualcuno dentro di me. Non sfuggii a quel sarcasmo; e un›irritazione e un›ansietà atroci s›impadronirono di me, non mi diedero tregua. Facevo sforzi inauditi per dissimulare, al conspetto di Giuliana e di mia madre. Evitavo studiosamente di trovarmi solo con la povera illusa; e ad ogni tratto mi pareva di leggere nei suoi miti umidi occhi il principio di un dubbio, mi pareva di veder passare qualche ombra su la sua fronte pura.

Il giorno di mercoledì ebbi un telegramma imperioso e minaccioso (non era quasi aspettato?): «O tu verrai o non mi vedrai più. Rispondi». E io risposi: «Verrò».

Sùbito dopo quell›atto, commesso con quella specie di sovreccitazione inconsciente che accompagna tutti gli atti decisivi della vita, io provai un particolare sollievo, vedendo gli avvenimenti determinarsi. Il senso della mia irresponsabilità, il senso della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere divennero in me profondissimi. «Se, pur conoscendo il male che io faccio e pur condannandomi in me medesimo, io non posso fare altrimenti, segno è che obbedisco a una forza superiore ignota. Io sono la vittima di un Destino crudele, ironico ed invincibile.»

Nondimeno, appena misi il piede su la soglia della stanza di Giuliana, sentii piombarmi sul cuore un peso enorme; e mi soffermai, vacillante, fra le portiere che mi nascondevano. «Basterà ch›ella mi guardi per indovinar tutto» pensai smarrito. E fui sul punto di tornare indietro. Ma ella disse, con una voce che non m›era mai parsa tanto dolce:

– Tullio, sei tu?

Allora feci un passo. Ella gridò, vedendomi:

– Tullio, che hai? Ti senti male?

– Una vertigine… M›è passata già – risposi; e mi rassicurai pensando: «Ella non ha indovinato».

Ella, infatti, era inconsapevole; e a me pareva strano che così fosse. Dovevo io prepararla al colpo brutale? Dovevo parlare sinceramente o architettare qualche menzogna pietosa?

Oppure dovevo partire all›improvviso, senza avvertirla, lasciandole in una lettera la mia confessione? Qual era il modo preferibile per rendere meno grave a me lo sforzo e meno cruda in lei la sorpresa?

Ahimè, nel dibattito difficile, per un tristo istinto io mi preoccupavo d›alleggerir me più di lei. E certo avrei scelto il modo della partenza improvvisa e della lettera, se non mi avesse trattenuto il riguardo per mia madre. Era necessario risparmiare mia madre, sempre, ad ogni patto. Anche questa volta non sfuggii al sarcasmo interiore. «Ah, ad ogni patto? Che cuore generoso! Ma pure, via, è così comodo per te il vecchio patto, ed anche sicuro… Anche questa volta, se tu vorrai, la vittima si sforzerà di sorridere sentendosi morire. Confida in lei, dunque, e non ti curare d’altro, cuore generoso.»

L’uomo trova nel sincero e supremo disprezzo di sé medesimo qualche volta, veramente, una particolare gioia.

– A che pensi, Tullio? – mi domandò Giuliana, con un gesto ingenuo appuntandomi l’indice tra l’uno e l’altro sopracciglio come per fermare il pensiero.

Io le presi quella mano, senza rispondere. E il silenzio stesso, che parve grave, bastò a modificare di nuovo l’attitudine del mio spirito; la dolcezza che era nella voce e nel gesto della inconsapevole mi ammollì, mi suscitò quel sentimento snervante da cui hanno origine le lacrime; che si chiama pietà di sé. Provai un acuto bisogno d’essere compassionato. Nel tempo medesimo qualcuno mi suggeriva dentro: «Approfitta di questa disposizione d’animo, senza fare per ora alcuna rivelazione. Esagerandola, tu puoi facilmente giungere fino al pianto. Tu sai bene che straordinario effetto abbia su una donna il pianto dell’uomo amato. Giuliana ne sarà sconvolta; e tu sembrerai essere travagliato da un dolore terribile. Domani poi, quando tu le dirai la verità, il ricordo delle lacrime ti rialzerà nell’animo di lei. Ella potrà pensare: – Ah, dunque per questo ieri piangeva così dirottamente. Povero amico! – E tu non sarai giudicato un egoista odioso; ma sembrerai aver combattuto con tutte le tue forze invano contro chi sa qual potere funesto; sembrerai essere tenuto chi sa da quale morbo immedicabile e portare nel tuo petto un cuore lacerato. Approfitta, dunque, approfitta».

– Hai qualche cosa sul cuore? – mi domandò Giuliana, con una voce sommessa, carezzevole, piena di confidenza.

Io tenevo il capo chino; ed ero, certo, commosso. Ma la preparazione di quel pianto utile distrasse il mio sentimento, ne arrestò la spontaneità e ritardò quindi il fenomeno fisiologico delle lacrime. «Se io non potessi piangere? Se non mi venissero le lacrime?» pensai con uno sgomento ridicolo e puerile, come se tutto dipendesse da quel piccolo fatto materiale che la mia volontà non bastava a produrre. E intanto qualcuno, sempre il medesimo, soffiava: «Che peccato! Che peccato! L›ora non potrebbe essere più favorevole. Nella stanza ci si vede appena. Che effetto, un singhiozzo nell›ombra!».

– Tullio, non mi rispondi? – soggiunse Giuliana, dopo un intervallo, passandomi la mano su la fronte e su i capelli perché io alzassi la faccia. – A me tu puoi dire tutto. Lo sai.

Ah, veramente, dopo d›allora io non ho mai più udita una voce umana di quella dolcezza. Neppure mia madre ha mai saputo parlarmi così.

Gli occhi mi si inumidirono, e io sentii tra i cigli il tepore del pianto. «Questo, questo è il momento di prorompere.» Ma non fu se non una lacrima; e io (umiliante cosa ma pur vera; e in simili meschinità mimiche si rimpicciolisce la maggior parte delle commozioni umane nel manifestarsi) io alzai il viso perché Giuliana la scorgesse e provai per qualche attimo un›ansietà smaniosa temendo che nell›ombra ella non la scorgesse luccicare. Quasi per avvertirla, ritirai il fiato in dentro, forte, come si fa quando si vuol contenere un singhiozzo. Ed ella avvicinando il suo volto al mio per guardarmi da presso, poiché rimanevo muto, ripeté:

 

– Non rispondi?

E intravide; e, per accertarsi, mi afferrò la testa e me l›arrovesciò, con un gesto quasi brusco.

– Piangi?

La sua voce era mutata.

E io mi liberai all›improvviso, mi levai per fuggire, come uno che non possa più reggere la piena dell›affanno.

– Addio, addio. Lasciami andare, Giuliana. Addio.

E uscii dalla stanza, a precipizio.

Quando fui solo, ebbi disgusto di me.

Era la vigilia d›una solennità per la convalescente. Qualche ora dopo, come mi ripresentai a lei per assistere al piccolo pranzo consueto, la ritrovai in compagnia di mia madre. Appena mi vide, mia madre esclamò:

– Dunque domani, Tullio, giorno di festa.

Io e Giuliana ci guardammo, ambedue ansiosi. Poi parlammo del domani, dell›ora in cui ella avrebbe potuto alzarsi, di tante minute particolarità, con un certo sforzo, un poco distratti. E io m›auguravo, dentro di me, che mia madre non si assentasse.

Ebbi fortuna, perché una sola volta mia madre uscì e rientrò quasi sùbito. Nel frattempo, Giuliana rapidamente mi chiese:

– Che avevi, dianzi? Non me lo vuoi dire?

– Nulla, nulla.

– Vedi, così tu mi guasti la festa.

– No, no. Ti dirò… ti dirò… poi. Non ci pensare, ora; ti prego.

– Sii buono!

Mia madre rientrava con Maria e Natalia. Ma l›accento con cui Giuliana aveva proferito quelle poche parole bastò per convincermi che ella non sospettava la verità. Pensava ella forse che quella tristezza mi venisse da un›ombra del mio passato incancellabile e inespiabile? Pensava che io fossi torturato dal rammarico di averle fatto tanto male e dal timore di non meritare tutto il suo perdono?

Fu ancóra una commozione viva, la mattina dopo (per compiacere il desiderio di lei aspettavo nella stanza prossima), quando mi sentii chiamare dalla sua voce squillante.

– Tullio, vieni.

Ed entrai; e la vidi in piedi, che sembrava più alta, più snella, quasi fragile. Vestita d›una specie di tunica ampia e fluida, a lunghe pieghe diritte, ella sorrideva, esitando, reggendosi appena, tenendo le braccia discoste dai fianchi come per cercare l›equilibrio, volgendosi ora a me ora a mia madre.

Mia madre la guardava con una indescrivibile espressione di tenerezza, pronta a sorreggerla. Io stesso tendevo le mani, pronto a sorreggerla.

– No, no, – ella pregò – lasciatemi, lasciatemi. Non cado. Voglio andare da me fino alla poltrona.

Ella avanzò il piede, fece un passo, pianamente. Aveva nel viso il candore d›una gioia infantile.

– Bada, Giuliana!

Fece ancóra due o tre passi; poi, assalita da uno sbigottimento repentino, dal timor pànico di cadere, esitò un attimo tra me e mia madre, e si gittò nelle mie braccia, sul mio petto, abbandonandosi con tutto il suo peso, sussultando come se singhiozzasse. Ella rideva, invece, un poco soffocata dall›ansia; e, come ella non portava busto, le mie mani la sentirono tutta esile e pieghevole a traverso la stoffa, il mio petto la sentì tutta palpitante e morbida, le mie nari aspirarono il profumo dei suoi capelli, i miei occhi rividero sul suo collo il piccolo segno bruno.

– Ho avuto paura – ella diceva interrottamente, ridendo e ansando – ho avuto paura di cadere.

E, come ella arrovesciava la testa verso mia madre per guardarla, senza staccarsi da me, io scorsi un poco della sua gengiva esangue e il bianco degli occhi e qualche cosa di convulso in tutto il viso. E conobbi che tenevo fra le braccia una povera creatura inferma, profondamente alterata dall›infermità, con i nervi indeboliti, con le vene impoverite, forse insanabile. Ma ripensai la sua trasfigurazione in quella sera del bacio inaspettato; e l›opera di carità e d›amore e d›ammenda, a cui rinunziavo, ancóra una volta m›apparve bellissima.

– Conducimi tu alla poltrona, Tullio – ella diceva.

Sostenendola col mio braccio alle reni, io la condussi piano piano; l›aiutai ad adagiarsi; disposi su la spalliera i cuscini di piume, e mi ricordo che scelsi quello di tono più squisito perché ella vi appoggiasse la testa. Anche, per metterle un cuscino sotto i piedi, m›inginocchiai; e vidi la sua calza di colore gridellino, la sua pianella esigua che nascondeva poco più del pollice. Come in quella sera, ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole. E io m’indugiavo. Accostai un piccolo tavolo da tè, sopra ci posai un vaso di fiori freschi, qualche libro, una stecca d’avorio. Senza volere, mettevo in quelle mie premure un po’ di ostentazione.

L’ironia ricominciò. «Molto abile! Molto abile! È utilissimo quel che fai, sotto gli occhi di tua madre. Come potrà ella sospettare, dopo avere assistito a queste tue tenerezze? Quel po› di ostentazione, anche, non guasta. Ella non ha la vista troppo acuta. Séguita, séguita. Tutto va a meraviglia. Coraggio!»

– Oh come si sta bene qui! – esclamò Giuliana con un sospiro di sollievo, socchiudendo i cigli. – Grazie, Tullio.

Qualche minuto dopo, quando mia madre uscì quando rimanemmo soli, ella ripeté, con un sentimento più profondo:

– Grazie.

E alzò una mano verso di me, perché io la prendessi nelle mie. Essendo ampia la manica, nel gesto il braccio si scoperse fin quasi al gomito. E quella mano bianca e fedele, che portava l›amore, e l›indulgenza, la pace, il sogno, l›oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, tremò un istante nell›aria verso di me come per l›offerta suprema.

Credo che nell›ora della morte, nell›attimo stesso in cui cesserò di soffrire, io rivedrò quel gesto solo; fra tutte le imagini della vita passata innumerabili, rivedrò unicamente quel gesto.

Quando ripenso, non riesco a ricostruire con esattezza la condizione nella quale mi trovai. Posso affermare che anche allora io comprendevo l›estrema gravità del momento e lo straordinario valore degli atti che si compivano ed erano per compiersi. La mia perspicacia era, o mi pareva, perfetta. Due processi di conscienza si svolgevano dentro di me, senza confondersi, bene distinti, paralleli. In uno predominava, insieme con la pietà verso la creatura che io stava per colpire, un sentimento di acuto rammarico verso l›offerta ch›io stava per respingere. Nell›altro predominava, insieme con la cupa bramosia verso l›amante lontana, un sentimento egoistico esercitato nel freddo esame delle circostanze che potevano favorire, la mia impunità. Questo parallelismo portava la mia vita interna ad una intensità e ad una accelerazione incredibili.

Il momento decisivo era venuto. Dovendo partire al dimani, non potevo temporeggiare più oltre. Perché la cosa non sembrasse oscura e troppo subitanea, era necessario in quella mattina stessa, a colazione, annunziare la partenza a mia madre e addurre il pretesto plausibile. Era necessario anche, prima che a mia madre, dare l›annunzio a Giuliana perché non accadessero contrattempi pericolosi. «E se Giuliana prorompesse, alfine? Se, nell›impeto del dolore e dello sdegno, ella rivelasse a mia madre la verità? Come ottenere da lei una promessa di silenzio, un nuovo atto di abnegazione?» Fino all›ultimo io discussi, dentro di me. «Comprenderà sùbito, alla prima parola? E se non comprendesse? Se ingenuamente mi chiedesse la ragione del mio viaggio? Come risponderei? Ma ella comprenderà. È impossibile che ella non abbia già saputo da qualcuna delle sue amiche, da quella signora Tàlice, per esempio, che Teresa Raffo non è a Roma.»

Le mie forze cominciavano già a cedere. Non avrei potuto più a lungo sostenere l›orgasmo che cresceva di minuto in minuto. Mi risolsi, con una tensione di tutti i miei nervi; e, poiché ella parlava, desiderai che ella medesima mi offrisse l›opportunità di scoccare la freccia.

Ella parlava di molte cose specialmente future, con una volubilità insolita. Quel non so che di convulso in lei, già da me notato prima, mi pareva più palese. Io stavo ancóra in piedi, dietro la poltrona. Fino a quel momento avevo evitato il suo sguardo movendomi ad arte per la stanza, sempre dietro la poltrona, ora occupato a fermare le tende della finestra, ora a riordinare i libri nella piccola scansia, ora a raccogliere di sul tappeto le foglie cadute da un mazzo di rose disfatto. Stando in piedi, guardavo la riga dei suoi capelli, i suoi cigli lunghi e ricurvi, la lieve palpitazione del suo petto, e le sue mani, le sue belle mani che posavano su i bracciuoli, prone come in quel giorno, pallide come in quel giorno quando «soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino».

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