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Il tenente dei Lancieri

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III

Tutti erano assai inquieti nel fondaco. Perché la signora Maddalena si era chiusa nello scrittoio con Giacomino? Come mai?

Di solito, quando andava in bestia, strillava come un’anima dannata, anche davanti alla gente, e quella volta non si udiva nemmeno la sua voce!…

– Dio, Dio, Dio! Che cosa gli farà? – gemeva la signorina Cammilla, e diventava pallida pensando a Giacomino. – Che cosa gli dirà? Che cosa gli farà confessare? – pensava alla sua volta il signor Daniele, più stralunato, più arruffato, più giallo che mai, sbirciando alla sfuggita l’uscio del casotto, dove la sua signora si era chiusa col figliuolo.

Pure la Cammilla si consolava un poco quando Gian Maria e Temistocle rispondevano con un’alzata di spalle che quell’altro non aveva paura di nessuno e avrebbe saputo difendersi. Il signor Daniele invece si sentiva sempre più scombussolato e sgomento, sbagliava nel far le somme, gli tremava la mano nel pesare, non capiva più niente.

E aveva ben ragione di essere inquieto; stava peggio lui di Giacomino: l’aveva fatta più grossa.

– Dio, Dio, Dio! Se Giacomino, messo alle strette, minacciato, spaventato, facesse una frittata? Se confessasse che i denari li aveva avuti da suo padre?… Che a giuocare a biliardo, al Biffi, ci andava con suo padre? Se… Dio, Dio, Dio! (e da giallo diventava verde), se Giacomino confessava, tutto il resto!… Se parlava di madamigella Fanny?…

Quando il ritrattino della cavallerizza era saltato fuori dalla tasca di Giacomo, nessuno l’aveva visto, tranne la signora Maddalena. Se il signor Daniele fosse stato presente, sarebbe scappato Dio sa dove!… A Melegnano da’ suoi parenti, e più in là, anche in capo al mondo!

E causa di tutto, l’amor paterno. Un cieco, un eccessivo amor paterno; un misto d’affetto e d’orgoglio pel suo bel ragazzo così ardito, così sano, così prepotente! Insomma così diverso da lui!

Il signor Daniele era la gallina che aveva covato un uovo di aquila; rimaneva come sbalordito e timoroso dinanzi a quel figliuolo, che non pareva dello stesso sangue dagli altri: lo ammirava, nelle sue qualità, ne suoi difetti, nei suoi vizi; e non solo, ma di soppianto dalla madre, lo contentava in ogni capriccio, quasi cedeva alle sue volontà e ne seguiva persino i cattivi esempi.

Dal figliuolo si era lasciato indurre una sera ad entrare al caffè Biffi: passeggiavano da un pezzo sotto la Galleria, quando ad un tratto Giacomo scorse seduti ad un tavolino del caffè alcuni suoi antichi condiscepoli dell’istituto tecnico, e tutti volontari di cavalleria.

Come avrebbe potuto il signor Daniele trattenere quel diavolo di Giacomino, che senza alcun riguardo si era buttato allegramente fra le braccia dei compagni?

– Addio, Moretti!

– Oh, Trebeschi!

– Cosa fai?

– Come stai?

– Sono in cavalleria!

– Anch’io quest’inverno! Anch’io entro in cavalleria! – Ma, per il momento, entrarono invece nella, sala da biliardo, dopo aver traversato rumorosamente il caffè, urtando la gente… e il signor Daniele dietro, trasognato, meravigliato per la disinvoltura e la baldanza del figliuolo.

– Permettete? Facciamo le presentazioni: mio padre.

E Giacomino, con signorile eleganza, appoggiandosi ad una stecca di biliardo, fece tutte le presentazioni speditamente e coi dovuti inchini, mentre il buon Daniele sorrideva come uno stupido e s’imbrogliava nello stringere tutte quelle mani.

– Complimenti!… Servitor suo! – e guardava Giacomino per farsi coraggio.

E proprio lì, proprio in quel maledetto caffè Biffi, sempre per causa di quel diavolo scatenato, una bella sera egli aveva fatto la conoscenza, e aveva parlato la prima volta con madamigella Fanny. Cioè, parlato no. Egli si era contentato di dirle: bon soàr, madamoasèl, quando la signorina si era alzata per andar via. Ma intanto aveva cominciato col pagare il punch frappé… e dopo… dopo non c’era stato più rimedio.

– Se Maddalena venisse a saperlo!… Che finimondo! – E il signor Daniele, tremante, tornava a guardare verso il bugigattolo e l’uscio sempre chiuso. A poco a poco, l’oppressione, l’affanno gli toglievano il respiro.

Gli, pareva a volte che il casotto traballasse, che sua moglie ne scattasse fuori come una bomba, mettendo sossopra tutto il fondaco, tutta la via Lentasio, vomitando ingiurie e vituperi.

E il signor Daniele, riguardoso e delicato, soffriva in cuore suo, anche nel pensare alle brutte parolacce che senza dubbio avrebbero colpito ingiustamente quella gentilissima signorina, così piena di sentimenti dignitosi e disinteressati: con quel piccolo neo dietro l’orecchio, col collo d’avorio, sottile e trasparente nel cravattone rosso, e… e che, gli stringeva la mano con tanta forza da storpiargliela, dicendogli: mon cher ami!

– Babbo! Il Cartolari ha rimandato il conto! Ancora non va bene.

– Chiama Temistocle!… Parla colla Cammilla!

Aveva altro in niente lui che il Cartolari e i conti sbagliati! Seduto in un angolo buio del fondaco, tenendo sempre d’occhio l’uscio dello scrittoio, riandava nella mente tutta la storia di quel suo incontro colla signorina Fanny.

Una storia semplice, del resto e naturalissima nella sua… fatalità.

La signora Maddalena era andata a Lodi per affari, e non sarebbe tornata altro che il giorno dopo: erano in piena libertà… non c’era nemmeno il pericolo che la serva facesse la spia alla padrona, perché era stata mandata via su’ due piedi. Il pranzo lo aveva preparato la Cammilla, e per stare allegri, invece del solito lesso e riso e rape, avevano ordinato maccheroni, polpettone, tortelli; ne avevano fatta una scorpacciata. Temistocle e Gian Maria russavano colla testa giù, sulla tavola. Il signor Daniele sonnecchiava, ma con una certa compostezza; Cammilla, accesa in volto, certo per il calor dei fornelli, rideva e scherzava con Giacomino… Dio santo! Non potevano continuarla così tutta sera, a divertirsi innocentemente?… Signor no! Giacomino, a un tratto, passa vicino al babbo, gli tocca il gomito, gli strizza l’occhio, fa l’atto di tirare un colpo colla stecca del biliardo:

– Si va a prendere una boccata d’aria? Saperlotte! Quattro passi e poi si torna!

Invece, quando il signor Daniele tornò a casa col figliuolo, la mezza era sonata da un’ora. Avevano fatto cinque o sei giri in Galleria, e Giacomo, ad ogni giro si era scostato dal babbo per spiare dai cristalli del caffè Biffi se vedeva il tavolino coi soliti amici: non c’era nessuno.

– Saperlotte!

– Andiamo a dormire: è molto meglio.

Il signor Daniele pareva avesse il presentimento d’una grande disgrazia. Ma il figliuolo entrò diritto nel caffè, e lui, par non lasciarlo solo, gli tenne dietro sospirando.

– Un punch frappè! Molto frappè!

Giacomino allungò le braccia, tirò fuori i polsini dalle maniche, accese una sigaretta e domandò lo Sport illustrato e il Figaro.

Il babbo lo contemplava estatico.

– Fumi troppo, ti farà male – gli disse poi con un tono di voce sommesso e carezzevole.

Giacomo, per tutta risposta, fece passare il fumo della sigaretta per il naso come i Turchi, poi lo inghiottì come gli Spagnuoli; poi, alzando il capo, vide fermarsi poco innanzi al suo tavolino una bella signora, mezzo vestita da uomo, accompagnata da un giovanotto con un soprabitino cortissimo e un berettino di panno bigio; la signora cercava un posto dove sedersi: ma il caffè era tutto pieno.

– Si accomodi, prego – esclamò il giovane Trebeschi alzandosi e inchinandosi con perfetta galanteria. Si alzò quasi subito anche il signor Daniele, ma per la confusione il cappello gli scivolò di mano e andò a cadere sotto il tavolino.

– Merci, monsieur.

Il giovanotto fece un gran saluto col berrettino stendendo il braccio all’inglese, e la signora, – Merci, messieurs – si accomodò fra Giacomo e Daniele.

Quest’ultimo, seduto a mezzo sulla sedia per tenersi il più possibile lontano dalla signora, cominciava a guardarla di sottecchi.

Essa aveva un soprabito come un uomo, ma era un gran bel… soprabito.

Dopo alcune domande, buttate là a caso da Giacomino, si avviò subito un’animatissima conversazione. Il signor Daniele stava attento, a bocca aperta, ma capiva poco perchè parlavano in francese e molto in fretta. Ad un tratto vide Giacomino alzarsi; si alzò subito anche lui, credendo di andar via; invece c’erano le presentazioni: il tic di Giacomino.

– Mon père – poi voltandosi – Mademoiselle Fanny Richard.

– Monsieur Richard, le frère de mademoiselle. – Ah, era suo fratello!…

Il signor Daniele s’inchinò, riafferrò a tempo il vecchio cilindro che gli scappava di mano un’altra volta, poi mentre Giacomo chiamava il cameriere e gli ordinava due altri punch frappès, disse sottovoce al figliuolo che avrebbe preso anche lui un’acqua d’arancio. E fu contento di quella risoluzione. Dinanzi alla sua acqua d’arancio, si sentiva tornare il coraggio, aveva qualche cosa per occupare il tempo e le mani, e, bevendo l’aranciata a sorsi, poteva sbirciare a suo bell’agio madamigella Fanny.

Sotto il soprabito essa aveva la giacchettina e il gilet bianco, la camicia, la cravatta, tutto come un uomo.

– Ah, il giovinetto non era che suo fratello – continuava a pensare il signor Daniele, e guardava la signorina con maggior fiducia.

Quella madamigella era proprio… un bell’ometto!

La grazia femminile risaltava in lei maggiormente per il contrasto dell’abito. I labbruzzi procaci, bagnati dal punch frappé, parean foglie di rosa. Daniele continuava a star attento, a sorridere quando ridevano gli altri e a non capire. Gli pareva che parlassero di cavalli: certo dovevano parlar di cavalli. Giacomino ci prendeva tanto gusto! Giacomino andava matto per i cavalli! Certe volte rimaneva estatico persino dinanzi ai brum di porta Romana. E il babbo, dopo aver guardato con compiacenza il figliuolo, tornava a bere un sorso d’aranciata e tornava a rimirare la signorina. A un tratto egli arrossì, abbassò gli occhi. Madamigella Fanny aveva caldo, si era sbottonata, con una rapida scorsa della mano scintillante di gemme, tutta la giacchettina e lo splendore del gilet bianco aveva abbarbagliato il signor Daniele. Giacomo e gli altri parlavano proprio di cavalli. Figurarsi! Erano due cavallerizzi del Circo Stanislao.

 

Ma niente sottanino corto; «amazzone» e «alta scuola». Madamigella e monsieur Richard erano ricchi proprietari di una scuderia in Inghilterra, artisti per passione; l’ippodromo era uno sport.

Giacomino spiegò tutto questo al babbo, soggiungendo con calore: – E domani sera un gran debutto al Dal Verme!

Domani sera?…

Quel domani sera ricordò al signor Daniele il ritorno della moglie che aveva dimenticato. Il pover’uomo si rannuvolò, sospirò, e fece cenno al figliuolo che era tardi, era ora di tornar a casa.

Ma che! Giacomino faceva il bravo col suo francese!… già aveva sempre preso il dieci anche a scuola; e parlava persino coll’erre!

– Voi dovete essere – come si dice, – molto fiero di vostro figlio – esclamò ad un tratto madamigella Fanny, rivolgendosi a Daniele, sforzandosi di parlar italiano, e guardandolo per la prima volta con certi occhi neri e luccicanti che diventavano sempre più grandi.

Il babbo sorrise: chinò in fretta la testa arruffata e si accostò il bicchiere alle labbra per bere un altro sorso d’aranciata, ma il bicchiere era vuoto..

Dopo aver parlato di cavalli, parlarono di scherma. Un’altra gran passione di Giacomino: ora peraltro non poteva esercitarsi come avrebbe voluto, perché alla palestra non si dava se non una lezione alla settimana.

Il signor Richard gli promise allora d’insegnargli un colpo straordinario: un colpo, col quale a Parigi aveva; passato da parte a parte un certo conte Brakonine, un russo, che si era permesso con sua sorella certi modi che non gli andavano. E parlando mezzo francese e mezzo italiano si voltò a raccontare il fatto al signor Trebeschi, mentre madamigella Fanny, bisbigliando pianino con Giacomo, gli dava appuntamento per la sera dopo al Dal Verme.

Il racconto del signor Richard andava per le lunghe. Aveva già consegnato due schiaffoni al conte Brakonine, lo aveva mandato a gambe all’aria nella «pista», lo aveva già passato da parte a parte più d’una volta, quando la signorina si alzò e dopo essersi fatta promettere una visita per la sera dopo al Dal Verme, cominciò a fissare il signor Daniele… continuò a fissarlo.

E mentre Giacomo impediva a monsieur Richard di pagare, essa strinse la mano del babbo due volte con tanta forza, che il pover’uomo ne rimase scombussolato.

– Bonsoàr, madamoasèl!

Il signor Daniele non seppe dir altro.

Per tutto il giorno dopo il brav’uomo fece il muso lungo con Giacomino, modi bruschi, poche parole condite col voi a tutto spiano; cercava insomma di imitare la cera ed il farà imperioso della moglie.

Ma l’altro non se ne diede per inteso; dopo cena, dietro le spalle della madre che, stanca del viaggio, cascava dal sonno, continuava a strizzar l’occhio e a far l’atto di tirare un colpo colla stecca.

Daniele era sulle spine, temendo che sua moglie si accorgesse di tutta quella mimica.

– Sì!… ho capito!… – diceva Giacomo sottovoce – appena la mamma sarà andata a letto.

Si riservava di fare al figliuolo una solenne paternale per la strada; e infatti, mentre camminavano in via Lentasio per sbucare a porta Romana, ne rimuginava l’esordio, quando a un tratto Giacomino, prendendolo a braccetto colla sua solita monelleria affettuosa, sparò il colpo a bruciapelo:

– Mon père, andiamo al Dal Verme?

– Sei matto?… Siete matto!

E Daniele che aveva pensato tutto il giorno a quel teatro, appunto perché non ci voleva pensare, si staccò a viva forza dal figliuolo.

– Siete matto! È ora di finirla! Dovreste imitare il mio esempio! Lavorare! Andare a letto!

– Allora dammi i denari! andrò io solo – rispose Giacomo arrabbiandosi lui pure, ma sul serio. – Ho dato la mia parola e non voglio mancare. Non voglio aver osservazioni dal signor Richard. Non sono più un bimbo, sono un uomo.

Che c’è di male? Meglio al teatro che in una bisca! – E, borbottando e gesticolando, continuò a camminare in fretta verso il Dal Verme, mentre il signor Daniele, curvo, muto, gli teneva dietro per non saper che fare, per non lasciarlo andar solo, per paura che gli scappasse.

E così Giacomino sempre innanzi, il signor Daniele sempre dietro, si trovarono alla porta del teatro.

– I denari per i biglietti – intimò il giovinotto fermandosi su’ due piedi.

L’altro cercò di qua e di là il portafogli, con una lentezza da far disperare; infino lo trovò, lo apri meticolosamente e non meno meticolosamente scelse il più sudicio fra i biglietti da dieci lire… durò un pezzo a fregarlo colle dita per assicurarsi che non erano due. Poi, scrollando la testa, seguì un po’ alla lontana il figliuolo… e finì col sorridere ancora di compiacenza, vedendo come sapesse farsi largo fra la calca fino al finestrino.

– Pardon messieurs, pardon mesdames, due fauteuils di prima fila, s’il vous plait!

IV

Il signor Daniele era sempre rannicchiato nel cantuccio buio del fondaco; pure, al ricordo di quel suo primo ingresso al Dal Verme, si sentì come avvolto da una gran luce allegra e calda: la folla muta gremiva il teatro: l’orchestra sonava in tono lamentevole la Stella confidente.

Gladiator, montato all’alta scuola da madamigella Fanny, eseguiva il «passo spagnuolo».

Gladiator, come spiegava il manifesto, era il «famoso stallone arabo, regalato alla Stella del Circo Stanislao da Mohamed-pascià»,

– Sediamoci? – aveva detto Daniele a Giacomino, subito quando, a furia di gomitate e di spintoni, erano arrivati ai loro, posti. – Sediamoci?

Il signor Daniele, alla vista di madamigella Fanny, così esposta al pubblico, nell’amazzone nera, attillata, a cavallo di Gladiator, aveva provato come un barbaglio, un senso misto di confusione, di gelosia e di timidezza vereconda: non voleva, non osava guardarla: gli pareva che, seduto, sarebbe stato più nascosto e tornò a domandare al figliuolo:

– Sediamoci?

– Oh! Oh! C’è tutto il Nizza cavalleria! – esclamò Giacomino, che aveva visto gli ufficiali prima ancora di madamigella Fanny, e di corsa, saltando lo steccato e attraversando l’ultimo tratto della pista, andò a salutare il capitano Braganza, un suo amico del caffè Biffi.

– Che fai?..... Che fai?..... Giacomino! Giacomino!

– Giù a sedere – gridò una voce rabbiosa dietro il signor Daniele.

Il signor Daniele si sedette di colpo.

– Cappello! – intimò poco dopo la stessa voce: e il signor Daniele, subito, si tolse anche il cappallo senza voltarsi: guardava sempre Giacomino, aspettando che tornasse, o almeno gli facesse cenno.

Oh sì!… aveva altro in mente il giovinotto! Dopo stretta la destra al capitano, si era avvicinato a M. Richard che, in falda e stivaloni alla scudiera e con un grosso frustino in mano, teneva d’occhio ogni movimento di Gladiator.

– Bellissimo teatro, saperlotte!

– Tutto quello che c’è a Milano, come a Parigi, a Berlino, a Filadelfia!… tutto quello che c’è a Milano di più high-life, anche il generale Piccolomini di Coccorito.

Gladiator, nel frattempo, sempre al suono della Stella confidente, aveva finito il «passo spagnolo» e incominciava la «danza scozzese». Il cavallo mordeva il freno bavoso, sbuffava, nitriva, squassava la criniera, ma pure doveva piegarsi sotto la mano esperta o il ginocchio di ferro di madamigella Fanny e fare lentamente e leggermente tutto il giro del circolo, cullandosi sulle quattro zampe.

– Brava! Benissimo!

Il pubblico applaudiva, e il signor Daniele si faceva piccino nella sua poltrona come per nascondersi. Aveva guardato una volta sola madamigella Fanny, diritta sol cavallo bianco. L’aveva guardata per un attimo, appena entrato in teatro… e dopo tanti giorni, anche allora che ci ripensava in quell’angolo riposto del fondaco Monghisoni, l’aveva ancora stampata negli occhi quella figura viva e procace: ne vedeva ancora il cappello a cilindro, lucentissimo, un po’ sollevato dal grosso volume delle trecce, il solmo candido stretto ai collo delicato, le spalle larghe, il vitino sottile… e il mazzo di garofani rossi sul seno rotondo, sporgente, dentro l’amazzone attillata…

Era stato un incubo per lui lo spettacolo di quella svelta cavallerizza, di quel pubblico applaudente, di tutti quegli ufficiali, di quei giovanotti eleganti, che sorridevano, che scherzavano con lei, che la divoravano col desiderio.

Il buon uomo non vedeva l’ora che finissero gli sgambetti e le giravolte di Gladiator.

Ma ecco un ultimo esercizio. Madamigella Fanny aveva fatto impennare, il cavallo. – Su! su! su! – E il signor Daniele si era sentito un brivido nella ossa. – Su! su! su! – Gladiator tutto diritto, zampava in aria furiosamente… Madamigella Fanny si aggrappava alla criniera… Poi «hop» aveva gridato colla vocina acuta, ridente, prendendo la rincorsa; una frustata schioccante di M. Richard, e via, aveva saltato lo steccato fra uno scoppio di applausi.

– Brava! Benissimo!

E Giacomino?

Giacomino era in piedi, in mezzo allo stuolo degli ufficiali. Col cappello sulle ventitré e la mazza ficcata in una tasca dei soprabito, approvava e ammirava col gergo di chi se ne intende Gladiator e la Fanny.

– Se Dio vuole, è finito!

Il signor Daniele respirava e si allungava più comodamente nella poltroncina; ma tutto ad un tratto, ricomincia la Stella confidente ed eccola… eccola daccapo!

E un terzo incanto; non più il «bell’omino» dalla sera innanzi, non più la intrepida amazzone di prima: è a piedi, sola in mezzo al Circo immenso, reggendosi con una mano il lungo strascico e coll’altra mandando al pubblico saluti e baci…

Nuovi applausi, nuovo entusiasmo, e un’altra volta, due, tre, la Stella confidente e madamigella Fanny. Ma poi… la storia era continuata… Dopo qualche sera – povera ragazza! – poca gente al Dal Verme e pochi quattrini.

La virtù non è mai premiata a questo mondo: aveva ragione M. Richard.

– Se ma soeur – diceva – fosse come le altre centomila, bisognerebbe tutta le sere allargare il vostro Dal Verme. Invece la mia sorella, alto là, gentilissima, amabilissima, riconoscente a tutte le cortesie, ma… alto là. E di giorno, durante la répétition, e di sera con noi a cena, nessun altro che il generale Piccolomini di Coccorito, vecchio amico, e voi se ci farete l’onore.

Come dir di no?… e, qualche volta di giorno, colla scusa degli affari o della Camera di commercio, e qualche volta la sera, dopo che sua moglie era andata a letto e si era addormentata, il signor Daniele, strigliato, profumato, inguantato da Giacomino, scappava con Giacomino medesimo da madamigella Fanny. – Ma lui ci andava soltanto per sollecitudine paterna: per non lasciar andar solo il figliuolo, per invigilarlo, per impedire all’occorrenza che commettesse uno sproposito.

Proibire il Dal Verme al figliuolo? – Come poteva fare oramai? Giacomino aveva vent’anni e Maddalena aveva torto di volerlo tener sempre cucito alle sue gonnelle e sempre senza un soldo. Il troppo stroppia. E alle volte una simpatia innocentissima poteva salvare… dal pericolo. E pericolo con madamigella Fanny non ce n’era punto. L’intrepida amazzone del Circo Stanislao era a prova di bomba. – Lo diceva lei stessa, nel suo camerino, al signor Daniele, fissandolo con quegli occhi magici, scintillanti come le stelle e penetranti come un coltello – glielo diceva lei stessa sorridendo, sfiorandogli il ciuffo dei capelli arruffati, colla punta del frustino.

– No, no, no!… Quello che dovrà essere lui non è ancora arrivato.

– E il generale?… Piccolomini?

– Il generale? Oh! il generale non è altro che le grand père. Compris?… – Il nonno! E la bella ragazza, accarezzando più forte colla punta del frustino il ciuffo arruffato di Daniele, tornava a sorridere, tornava a guardarlo fisso e tornava a ripetere:

– No, no, no!… Marameo! Quello che dovrà essere lui non è ancora arrivato!

– Birichina! Birichina!

E ripensandoci, il signor Daniele sorrideva: sorrideva anche in quel fondaco melanconico, davanti all’uscio chiuso dello scrittoio della moglie.

– Birichina!… Birichina!…

Ma… e Giacomo?… Perché Maddalena lo teneva sempre chiuso?… Se Giacomo avesse parlato? Se avesse confessato tutto?

Allora ricominciava la paura e colla paura il pentimento.

Aveva speso troppo: il lunch, come lo chiamava M. Richard, all’ora della prova, e la cenetta dopo il teatro, ingoiavano un mucchio di quattrini. Aveva fatto male a lasciar sempre ordinare e comandare a quei ragazzi.

 

E poi i fiori? E poi il frustino per la beneficiata?… E l’astuccio dalle spagnolette che dovevano regalare a madamigella Fanny quel giorno alla prova, o quella sera a cena… appena insomma avrebbero potuto svignarsela?

Aveva fatto male; anzi malissimo. Era stato imprudente. Avrebbe dovuto subito, fino dalla prima sera, obbligare Giacomino ad andarsene a letto, proibire il Dal Verme, proibire le lezioni di scherma di monsieur Richard, le passeggiate a cavallo di Gladiator… proibire le spagnolette, le ostriche, il cognac, la omelette soufflée!

E coi pentimenti e coi rimorsi gli riappariva dinanzi, più che mai terribile, minaccioso il fantasma della moglie, quando a un tratto si spalancò l’uscio dello scrittoio e Giacomino – finalmente! – Giacomino ne uscì in libertà!

Daniele, subito, gli passò accanto in mezzo al buio e gli domandò sottovoce:

– Hai parlato? Hai confessato?

– Io? Per chi mi prendi? La mamma non sa nulla: règolati. Bada di non cascarci tu. Senti? La mamma ti chiama. E il ragazzo, un po’ pallido, ma sicuro, attraversò il fondaco per salire in casa.

Temistocle, l’altro fratello, e più di tutti la Cammilla, gli giravano attorno, inquieti, ansiosi, per interrogarlo.

– Niente! Niente! Una sfuriata delle solite – rispose Giacomo con un’alzata di spalle e passò via in fretta, – mentre anche il babbo, ormai rassicurato, lo seguiva e lo accarezzava con uno sguardo amoroso. – Come lo avrebbe abbracciato volentieri!

– Daniele! Taartaruga!

Alla voce della signora Maddalena, Daniele si voltò di colpo, traballando:

– Eccomi! Eccomi! – e corse affannosamente fin sull’uscio dello scrittoio.

– Dentro – gl’intimò la moglie.

– Eccomi – ed entrò.

– Chiudete.

Il signor Daniele, chiuse d’uscio, sgraffiandosi anche un dito tra per la fretta e la confusione.

– Bisogna mandare questa lettera alla posta, sul momento – strillò la signora Maddalena mostrandogli la lettera scritta al Rosasco. – Ma alla posta centrale. È più sicura.

– Dammela, la porto io. – Al signor Daniele non pareva vero di cavarsela così a buon mercato.

– Un momento. Dovete prima sapere anche voi di che; si tratta – rispose la signora Maddalena, che nelle occasioni più solenni dava sempre del voi a tutti. – Scrivo al signor Rosasco – soggiunse con voce, alquanto velata e interrotta da una tossetta secca – per avvisarlo che gli mando… gli mando… quel bel mobile.

– Giacomino?

– Sissignore; Giacomino, che tutti quanti avete guastato, viziato, resa insopportabile, pericoloso!

Pareva a Maddalena, coll’andare in furia, di scaricare addosso agli altri, in tutto o in parte, la gravita e l’odiosità della risoluzione presa.

– Vuoi mandare Giacomino a Genova?

– Appunto a Genova; per imbarcarsi.

– Imbarcarsi?… Per dove?

– Per dove, pur dove… per dove sarà.

La signora Maddalena voleva far presto, finirla. Aveva le guance rosse, era in orgasmo, sbuffava.

Le domande, le spiegazioni, le chiacchiere, la rimescolavano ancora più del solite.

– Mi sono abbastanza fatto il sangue guasto con… quello là! Se non vi siete proprio messi in testa di farmi crepare, abbiate; un po’ di carità, e meno discorsi.

– Ma, scusa – insisteva il signor Daniele sommessamente – deve cominciare l’anno di volontariato fra pochi mesi.

– Il volontariato lo farà invece Gian Maria. È un tanghero che ha bisogno di svegliarsi e di rinforzarsi. Del resto, quando io, colla, mia testa, e io l’ho sempre avuta sulle, spalle, ho pensato una cosa, vuol dire che tutte le altre… le ho già messe, in regola.

Il signor Daniele diventava, pallido, taceva succiandosi il dito spellato.

– E voi, invece di fare opposizione, dovreste ringraziarmi… e benedirmi.

– Io non faccio nessuna opposizione – balbettò Daniele dopo un momento. – Soltanto vorrei capire meglio la tua idea. Vuoi imbarcarlo? Per dove?… Come?… Vuoi farne… un marinaio?

E a, mano a mano anche Daniele si riscaldava, alzava la voce. Per la prima volta sentiva in sè quasi un soffio di ribellione; il suo cuore si rivoltava, e anche la sua coscienza: non poteva, non doveva abbandonare Giacomino. Giacomino, che sarebbe stato punito così ingiustamente, così barbaramente, perché aveva taciuto, perché lo aveva salvato.

No! no! Doveva difenderlo; doveva salvarlo alla sua volta; lo doveva come padre e come galantuomo.

– Vuoi allontanarlo dalla famiglia, dalla casa? – ripigliò, dopo un momento, vincendo il tremito e l’affanno che gli soffocavano la voce. – In fine, non ha commesso nessun delitto.

Il petto poderoso della signora, Maddalena ebbe un sussulto, che essa fermò e represse a fatica, colle due mani.

Poi rispose colla, bocca amara e colle labbra asciutte, sforzandosi di parer calma:

– Tu non hai due dita di comprendonio, ma io sì, ne ho per tutti quanti, e per ciò, io non voglio aspettare a correggere quando non si sarebbe più in tempo, quando ci avrà sciupato mezzo patrimonio. – Si avvicinò al signor Daniele e gli bisbigliò all’orecchio: – Quel ragazzo fa debiti, ha delle amanti, giuoca! Via, via presto!

– Come me! Come me! – gemeva in cuor suo il povero Daniele; e dopo un breve silenzio riprese più umile, per riuscire più persuasivo: – Scusami, Maddalena, ma… per il momento… per il momento ripensiamoci.

– È un anno che io ci penso e ripenso.

– Tu sì, ma io no… e vorrei anch’io assuefarmi a questa… idea.

«Finché c’è tempo c’è fiato» e il signor Daniele, debole e incerto, aspettava sempre molto dal tempo.

– Se non ci avete pensato – la signora Maddalena ricominciava col voi – è colpa vostra. Non è la prima volta che io vi metto a parte di questa mia idea, che vi propongo d’imbarcare… – cercò un epiteto per non voler dire il nome, poi borbottò: – Giacomino.

– Ma io credeva non fosse altro che una minaccia, per ischerzo! – rispose il signor Daniele.

– Scherzo? Io non scherzo mai! Quando avrei tempo di scherzare, con tutti i fastidi, i dispiaceri che mi date? Ad ogni modo, adesso lo sapete: non è uno scherzo: basta così.

Daniele si risentì. Aveva la pelle dura, ma soltanto per sè: qui trattavasi di suo figlio.

– No, non basta – rispose facendosi bianco come un cencio lavato e con voce bassa, occhi bassi, capo basso, quasi aspettando di essere fulminato, ma risoluto a tener fermo – no, non basta: in vent’anni ho accettato tutto, non ho mai rifiutato: ma adesso si tratta del mio sangue; c’è di mezzo il cuore.

Alla Maddalena scintillavano gli occhi e tremavano le labbra; e chissà in quali parole stava per prorompere: ma quel giorno faceva miracoli, e si frenò ancora.

– È anche per il suo bene – rispose dopo un momento. – Io posso giudicarne perché ci vedo da lontano. E in quanto al cuore – qui tornò ad alzare la voce – ho ereditato quello di mio padre, il che vuol dire che ne ho più di tutti. Ma cuore – e così dicendo si batteva forte sul petto resistente, – vero cuore, non sugo… di pomodoro! – Poi, calmandosi daccapo e fingendo di crederlo oramai convinto, par togliergli il coraggio di risponder altro, gli tornò a porgere la lettera.

– Va, va; porta questa lettera alla posta. Un giorno mi ringrazierai.

Il povero signor Daniele sudava freddo e gli tremavano i ginocchi.

– I miei figliuoli… io… io non domando altro. Ho sempre taciuto, non sono mai stato padrone di niente, ma i miei figliuoli… li voglio con me!

Ciò detto, chiuse gli occhi, si era al finimondo.

– Hai sempre taciuto? Che cosa avevi da dire? – domandò la signora Maddalena, più ancora maravigliata, quasi, che offesa. – Non hai mai domandato niente? Non sei mai stato padrone di niente? Ma… sei mio marito, sì o no? – E chi ti ha fatto padrone della casa, tal quale come me?

– No, non è vero! Non è vero! Io servo; sono un servo. Come prima! Come sempre! Padrone di niente! Padrone di niente! Ma dei miei figli, questo poi, sì, dei miei figli sono padrone anch’io, voglio essere padrone anch’io!

E per la prima volta in vita sua, trovata la via dello sfogo, il signor Daniele, balbettando e tremando, tirava innanzi senza finir più, ripetendo continuamente le stesse cose, le stesse parole.

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