Il Giudice E Le Streghe

Текст
Автор:
0
Отзывы
Читать фрагмент
Отметить прочитанной
Как читать книгу после покупки
Il Giudice E Le Streghe
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

Guido Pagliarino

Il Giudice e Le Streghe

Romanzo

Copyright © 2017 Guido Pagliarino

All rights reserved

E-book published by Tektime

Tektime S.r.l.s. - Via Armando Fioretti, 17 - 05030 Montefranco (TR)

ISBN 9788873043249

I mmagine di copertina: “Le streghe si recano al Sabba”, olio,1878, di Luis Ricardo Falero

Guido Pagliarino

Il Giudice e Le Streghe

Romanzo

4a Edizione, distribuita da Tektime nei formati E-book e Libro

Copyright © 2017 Guido Pagliarino

ISBN E-book 9788873043249

Stesura del manoscritto: dall'anno 1990 all'anno 1992

Opera riveduta e variata dall'autore nell'anno 2016

Edizioni del romanzo:

1a Edizione, solo in libro fisico, sotto il titolo “Un’indagine del ‘500", Copyright © 2002-2006 Prospettiva editrice sas

2a Edizione, solo in libro fisico, sotto il titolo “Il giudice e le streghe”, Copyright © 2006-nov.2011 Prospettiva editrice sas - Da dicembre 2011 Copyright © Guido Pagliarino

3a Edizione, riveduta e variata e munita di postfazione dell’autore, pubblicata sotto il titolo “Il giudice e le streghe (Un’indagine del ‘500)”, in ebook Smashwords e in libro cartaceo Create Space, Copyright © 2016 Guido Pagliarino

4a Edizione, conforme alla 3a, distribuita da Tektime Copyright © 2017 Guido Pagliarino

Indice

Prefazione dell'autore alle due precedenti edizioni cartacee

Guido Pagliarino, Il giudice e le streghe, romanzo:

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III

Capitolo IV

Capitolo V

Capitolo VI

Capitolo VII

Capitolo VIII

Capitolo IX

Capitolo X

Capitolo XI

Capitolo XII

Capitolo XIII

Capitolo XIV

Capitolo XV

Capitolo XVI

Capitolo XVII

Capitolo XVIII

Capitolo XIX

Capitolo XX

Capitolo XXI

Capitolo XXII

Capitol o XXIII

Postfazione dell’autore a lla terza edizione e a questa quarta edizione

PREFAZIONE DELL’AUTORE ALLE PRECEDENTI DUE EDIZIONI CARTACEE

È questo un romanzo ambientato in un’epoca di isterie religiose, di caccia alle streghe e della donna considerata come una cosa, nonostante lo sbandierato precetto cristiano di amare il prossimo e l’affermazione neotestamentaria che “non c’è più uomo, non c’è più donna, ma tutti sono eguali davanti a Cristo”.

Anche se si tratta di un’opera di narrativa, ho tentato d’immergermi nella mentalità del ‘500. Come gli storici sanno, nel guardare al passato bisogna eliminare, il più possibile, il sentire contemporaneo, ché altrimenti si rischierebbero giudizi astorici. Ad esempio la pena capitale, oggi, è normalmente giudicata cosa atroce, nel ‘500 era considerata ovvia punizione e si pensava che l’assassino pentito scontasse con la morte tutti i suoi peccati, salendo così al Paradiso. Come vedremo, già c’era invece chi si batteva contro la tortura, ben prima del Beccaria.

Intervengono nella narrazione personaggi di fantasia e altri realmente vissuti. Il protagonista stesso è figura storica, il cui nome è rimasto per un suo trattato contro la stregoneria. Si sa che era avvocato. Non risulta che fosse giudice pontificio come io immagino. L’ho dipinto uomo privo di auto ironia. Ho cercato d’infilare io ironia e – nero – umorismo involontari, in certi suoi atteggiamenti e in certe sue descrizioni e considerazioni. L’avvocato Ponzinibio e il tremendo domenicano Spina sono anch’essi realmente esistiti, oltre che, naturalmente, le grandi figure storiche che richiamo nell’opera. Pure l’indemoniato Balestrini è veramente vissuto, solo che risiedeva in Piemonte e non nel Lazio: un caso che oggi si potrebbe dire di mitomania e schizofrenia con istinto suicida. Il giovane vescovo Micheli è invece personaggio fantastico, anche se è immagine di alcuni alti prelati che furono accusati di eresia perché predicavano la carità evangelica, i cardinali Pole, Sadoleto e Morone. Pure sono di fantasia, oltre a figure minori, Mora, il cavalier Rinaldi, il principe di Biancacroce. Quest’ultimo ho mantenuto sempre sullo sfondo, incombente.

L’idea del romanzo m’era sorta dopo una ricerca sulla caccia alle streghe per capire, almeno, le ragioni storico – sociali di tanta barbarie al culmine dell’epoca rinascimentale. Quanto avevo trovato è sintetizzato nelle considerazioni dell’avvocato Ponzinibio, del vescovo Micheli, del cavalier Rinaldi e, da un certo punto dell’opera, del protagonista.

Nel XVI secolo persisteva la forma allocutiva voi, ma ormai accanto al lei che, anzi, la stava soppiantando: ho preferito questa perché naturale tanto per me quanto per la maggioranza dei lettori, dato che il voi sopravvive solo in alcune zone del meridione d’Italia. Ho tentato, a volte con l’intento di far sorridere, una lingua che, pur essendo di gran norma moderna, richiamasse in qualche luogo quella del XVI secolo.

Guido Pagliarino

Guido Pagliarino

Il Giudice e Le Streghe

Romanzo

Capitolo I

Nell’anno del Signore 1517, giovane di ventisei anni, io, Paolo Grillandi giurisperito, fui nominato giudice a latere nel Tribunale di Roma, dove cominciai ad apprendere, dal Giudice Generale Astolfo Rinaldi, la pratica dei procedimenti contro i criminali tutti e, primariamente, contro le servitrici del male dette strigi.

Da molto prima del mio ingresso in magistratura, da quando Innocenzo VIII, nel 1484, aveva promulgato la bolla Summis Desiderantes sancendo ufficialmente la guerra a maligni e maligne e precisando i criteri per distinguerli, innumeri processi per stregoneria, quanti mai prima, erano stati celebrati. Sua Santità aveva compreso che di molto era aumentato il numero di persone, maschi e soprattutto femmine, dedite a pratiche di magia e aveva perciò dichiarato "assolutamente necessario non essere pietosi e indulgenti verso di loro". Felice ne era stato l'esito, con gran condanne di assatanati, resi inoffensivi con l'imprigionamento o con il rogo.

 

D'insostituibile aiuto era stato, e rimaneva per noi, Il Martello delle Streghe, che i dotti domenicani Sprenger e Kramer avevano scritto nel 1486, su incarico di Innocenzo VIII, dove ogni caso era previsto e che dava le direttive per la scoperta e la punizione dei maligni. Purtroppo, nonostante i successi, maggiormente il diavolo s'era impegnato e in numero più grande ancora aveva suscitato streghe e stregoni: essi parevano tanto più aumentare quanto maggiormente numerosi divenivano i processi. Così, almeno, io credevo. Infatti la maggioranza degl'inquisiti confessava senza bisogno di tortura; e addirittura un’imputata, quell’Elvira che mai io potrò obliare, aveva ceduto innanzi a me senza nemmeno riceverne minaccia. Ci era stata consegnata con la solita formale richiesta di grazia. Noi sapevamo bene che non s'aveva da tenerne conto perché, altrimenti, noi stessi saremmo stati sottoposti a giudizio: si trattava soltanto, una volta avuta la confessione, di scegliere la pena. La donna era stata denunciata per una fattura su tal Remo Brunacci, come lei villano in Grottaferrata. Preziosa era stata la testimonianza del curato piovano, tanto che, a parte la vittima, non era stato necessario interrogare altri paesani: il Brunacci aveva avuto il membro virile sottratto con magia dalla strega e se n'era confidato con l’arciprete. Questi gli aveva allora chiesto di abbassarsi le brache e aveva personalmente verificato: effettivamente, come aveva poi testimoniato, il membro non c'era. Aveva allora invitato il fedele a fare penitenza: digiunare e bere acqua benedetta, pregando il Cielo per riottenere il maltolto. Perché meglio potesse concentrarsi nella preghiera, aveva chiuso il penitente, fornendolo d'un secchio di quell’acqua, in una stanzetta vuota della canonica e ve l'aveva tenuto per un giorno e una notte. Quando finalmente gli aveva riaperto, il piovano aveva eseguito su di lui un nuovo controllo ed era apparso a entrambi il virile membro, con gran gioia e meraviglia di Remo che, appena congedato, aveva raccontato la storia a tutto il borgo. Era dunque arrivata una lettera anonima all'Inquisizione, cui era seguita quella ufficiale dell’arciprete.

In quel tempo assumevo tali denunzie con partecipata indignazione. Anche la mia famiglia, infatti, aveva dovuto subire mali estremi da una strige. Avevo nove anni e, dopo aver appreso a leggere, scrivere e fare di conto, ero ormai a bottega da mio padre, mastro spadaio, quando mia madre, colma di salute per tutta la vita, era stata improvvisamente presa da febbre maligna ed era morta. Ero figlio unigenito, nonostante i miei avessero desiato numerosa prole da avviare all’arte di famiglia. Tante volte la mamma, lacrimando, aveva ripetuto a mio padre che doveva essere stata la levatrice che m’aveva tratto al mondo a impedirlo: era venuta a diverbio con lei, qualche mese dopo la mia nascita, per una questione di panni sgocciolanti, e quella donna doveva averle fatto fattura: è di pubblico dominio che guaritrici e levatrici son streghe sospette per il solo fatto dell'arte loro; lo stesso Martello delle Streghe indica quelle donne come potenziali maligne. Temendo vendetta pure su di me, i miei genitori ne avevano parlato sempre e solo fra di loro. Purtroppo una sera, essendo come sempre a tavola con noi, qual parte del loro salario, i due garzoni di bottega, il mio genitore aveva bevuto piuttosto ed era caduto preda di gravissima tristezza. La lingua gli si era sciolta e aveva svelato il segreto. Se non entrambi, uno dei due doveva averlo raccontato in giro. Così mia madre, due giorni dopo, era stata affrontata sull’uscio di casa dalla levatrice che, viperina, le aveva soffiato che a una come lei, che andava a spargere voci, stavano bene disgrazie. Un mese dopo, colpita da sortilegio di quella lurida strega, la mamma era defunta. Mio padre, perso il lume per il lutto e il rimorso d’aver provocato la ritorsione della maliarda, aveva per prima cosa picchiato i garzoni, nemmeno che questo avesse potuto cambiare la sorte dell’amatissima moglie e non fosse stato il suo bere la prima causa dell’accaduto. Gonfio di odio, perduto ogni timore, al funerale aveva denunziato pubblicamente la levatrice; d’altronde, il fatto stesso ch’ella non fosse stata là presente, a pregare per la morta, era d’accusa. Il curato aveva avvisato l’Inquisizione; tuttavia la strige, avvertita da qualcuno, s’era supposto dal diavolo stesso, s’era eclissata per sempre e non aveva avuto punizione. Sino a quel punto, io avevo solo alternato pianto a silenzio. Conosciuta la fuga dell’assassina, ero esploso: “La troverò io!” avevo gridato a mio padre: “Punirò col rogo lei e tutte quelle come lei!” Non avevo demorso, e tanto avevo detto per giorni e settimane che il genitore, anche lui bramoso di giustizia, aveva chiesto consiglio al curato. Così ero stato avviato agli studi da giurisperito. Avevo però continuato a lavorare nella bottega Grillandi ogni volta ch’era stato possibile. Per questo, a forza di battere spade, il mio braccio destro era divenuto muscoloso, col tempo, quasi il doppio del mancino. Dopo un paio di anni, mio padre s’era risposato con una vedova senza figli. Dopo solo alcuni mesi, la consorte era stata colta da violentissimi dolori al ventre e, di lì a pochi giorni, era morta. Il mio genitore s’era sposato una terza volta, con una cugina. Con lei aveva concepito una bambina, ma nel venire alla luce questa aveva rivelato l’orrore di due teste e, durante l’atroce parto, tanto madre che figlia erano decedute, la prima insanabilmente squarciata dal doppio capo della nascente, la seconda per non aver preso a respirare. La strega, di lontano, aveva continuato a lanciare maleficio su tutte le femmine della famiglia. Il nostro odio per lei era, se possibile, aumentato. Quand’ero giunto al dottorato, come nell’uso mio padre aveva comprato, coi buoni uffici del prete e gran somma da distribuire fra potenti, la mia carica di giudice. Pure il curato aveva avuto donazione. Al mio genitore non erano rimasti né pecunia, né argenteria, né armi, così che, per acquistare le materie con cui fabbricare nuove spade, aveva dovuto chiedere prestito a un banco. Avrei però, negli anni, compensato il suo sacrificio, lasciandogli un decimo di ogni mio stipendio.

Mai l’assassina di mia madre e delle mie matrigne era stata trovata, ma ad ogni arresto di strega il mio cuore aveva esultato. Ricordo che, la volta che ci avevano portato Elvira, avevo esclamato innanzi ad Astolfo Rinaldi: "Cavare augello a un galantuomo! Ah! Ma sarà fatta giustizia." Al principale era sfuggito un breve sorriso, che io avevo inteso come: "Sì, adesso ci pensiamo noi"; e aveva detto: "Boccaccio". Sapevo ch'egli era grande estimatore del Decamerone, testo che allora, prima che nel 1559 Paolo IV introducesse l'Indice dei Libri Proibiti, era di libera lettura; ma non conoscevo ancora quell'opera e non avevo capito quanto il giudice aveva sottinteso; né avevo osato chiedere lume, per non apparire incolto. Per me, amavo opere severe e, soprattutto, l'Inferno di Dante che mi pareva quasi un simbolo dell'eroica opera mia contro il maligno e chi s’era intricato ne la sua “selva oscura”.

Elvira era stata catturata e imprigionata secondo la prassi. Il capo dei gendarmi, con due guardie armate e un domenicano inquisitore, aveva bussato alla sua porta. Non appena aperto, senza neppure darle il tempo di parlare l'avevano imbavagliata, legata, condotta a Roma e qui segregata a pane e acqua in una cella dell’Inquisizione, in attesa del procedimento. Dopo la condanna religiosa, ci era stata consegnata per il processo secolare, cui erano stati presenti, oltre a me e al Rinaldi, l'inquisitore e i due testimoni, il Brunacci e il piovano, già da noi interrogati. Tutti eravamo celati all'imputata, ma in modo di poterla vedere e parlare con lei per apposite aperture. La strega aveva innanzi solo gli aguzzini. Subito, su ordine del Rinaldi, avevo puntato alla prova suprema, la confessione. L'inquisita era già stata legata, ignuda, in posizione tale da poter raggiungere con tormenti qualsiasi parte del suo corpo. Non appena udita la mia voce e prima ancora ch'io avessi minacciato tortura, Elvira aveva tutto confessato. Non me n’ero stupito: sapevamo che pure presso l’Inquisizione, s’era comportata così. Mi aveva detto d'essere strega da ormai quattordici anni e, rispondendo a mie precise domande secondo la casistica del Martello delle Streghe, aveva ammesso d'aver ucciso e danneggiato bestiame e coltivazioni; d'essere assassina di uomini e infanti maschi; che s'ungeva la vergogna con magico grasso, quivi infilzava il manico d’una ramazza e, grazie a quegli artifici, volava al sabba dei diavoli, cui il principe nero in persona partecipava e vi era adorato da lei e da altre scellerate; e che il maligno, dopo che l’assistente al deretano gli aveva alzato la coda e ogni presente gli aveva debitamente reso omaggio baciandogli la putente cloaca, con ciascuna delle streghe si congiungeva, secondo e insieme contro natura tramite il suo biforcuto organo maschile; e ch'ella maliarda teneva in una gabbia, invisibili a ognuno fuor che a lei e al demonio, i membri virili di tutti gli uomini che aveva stregato, oltre venti, i quali si muovevano come uccelli vivi e mangiavano avena e grano; e che il diavolo veniva ogni tanto da lei a rimirarli per divertimento. Le avevo infine domandato se lucifero le si fosse manifestato nella famigerata forma del “bel Lodovico”, cioè “uomo in tutte le membra, eccetto ne’ piedi, li quali sempre parevano piedi di oca, rivoltati a dietro e riversati per cotal modo che era rivolto a dietro quel lo suole esser davanti”. Aveva risposto di sì. Rea confessa di peccati e, insieme, di reati d'ogni sorta, primi l'omicidio e la mutilazione di cristiani, come si sarebbe potuto non abbruciarla? D'altronde, avend’ella subitamente confessato, le s’era concessa la grande misericordia d'essere strangolata prima dell'accensione del fuoco. Ciò nonostante, una volta al palo, appena prima d’essere strozzata dal boia con la corda che le cingeva la gola, aveva maledetto tutti noi. Io allora non me n'ero dato pena, sapevo che la confessione era prova suprema; ed ero stato, come sempre, orgoglioso del buon servizio reso a Dio e, in lui, alla memoria di mia madre.

Talmente ero rimasto sicuro del gravissimo pericolo della stregoneria che, tempo dopo, nel 1525, avevo pubblicato un Tractatus de Sortilegis quale documentazione e ammonimento. Quest’opera aveva accresciuto, ahimè! la mia buona fama presso l'Inquisizione papale monastica.

Una cosa però devo aggiungere, in nome della verità: non ho inteso, manifestando doglianza, che sempre i fenomeni diabolici fossero e siano mera apparenza. Anzi, io in persona, agghiacciato, assistetti una volta a un fatto di possessione indubitabile, che più avanti narrerò; e di sicuro un processo, di cui pure dirò, vide imputati dei verissimi servi di satana. Sono ormai certo tuttavia che, per la maggiore parte, streghe e stregoni non furono tali e, dunque, che errai quasi ogni volta.

Capitolo II

Il dubbio cominciò a nascere cinque anni dopo la pubblicazione del mio tomo.

Era il secondo pomeriggio d'una tepida giornata di fine inverno, ormai quasi al tramonto. Tornando a casa, al mio solito a piedi, m'ero soffermato nel gran mercato di alimenti e tessuti che occupa tutta la piazza del tribunale. Era quella l'ora in cui le bancarelle smobilitano e si può trovare cibo a minor prezzo. Comprata una bella pollastrina viva, che m’ero fatta uccidere, me la conducevo verso casa pendula innanzi, tenendola per le zampe nel pugno destro, mentre nel sinistro stringevo, come sempre quando incedevo, l'elsa della mia spada. Intendevo apparire, come ogni volta, fiero e potente nonostante l'imbarazzo di quel pennuto; e debitamente ognuno m'aveva fatto ala e tanto di cappello, sia sulla piazza sia nel resto della via; salvo... Ebbene, un infante sconosciuto, ero ormai quasi a la porta della mia dimora, non s'era scansato! Anzi, m’aveva urtato ed era corso via senza chiedere venia nonostante un mio offeso: “Poffarre!”; di più, quand’era ormai di molte braccia lontano confuso nella folla, avevo dovuto subire l’onta vile d’una certissima pernacchia. Solo poi avrei compreso ch'era stato quello un segno del Cielo contro la mia superbia e, fors'anche, della visita che, di lì a poco, avrei ricevuto; ma al momento, m’ero illividito.

 

Una volta a casa, un appartamento nei pressi del tribunale dove abitavo solo e con un solo servitore, dismessa l’ira col bagnarmi la testa d’acqua fredda, raccomandai al servo l'attenta cottura arrosto della pollastrina. Non era stagione, altrimenti avrei comandato di friggerla nel sugo di quel novissimo frutto che alcuni chiamano il pomo di oro1 ma in realtà, quando giustamente maturo, è rosso inferno, tanto che, come mi era stato riferito mesi prima da una spia, il popolino, ben inteso quando sa di non essere udito, usa chiamare quello splendido piatto “er pollo a la dimonia”1 ma i demonologi, subito da me interpellati, assaggiato quel cibo con assoluto scrupolo, ripetutamente, avevano concluso che in quell'ottima pietanza il maligno non aveva dimora e che ogni cristiano poteva mangiarne senza peccato, purché non con gola.

M'ero appena infilato a mio comodo entro la veste da camera e, assiso sulla scranna del mio studio, attendendo il desinare m'accingevo a riprendere una tralasciata lettura de L’Orlando Furioso, quando bussarono all'uscio.

Il servitore m'annunciò la visita dell'avvocato Gianfrancesco Ponzinibio. Era questi il malfamato autore d'un trattato contro la caccia alle streghe, stampato una decina d'anni prima, che io non avevo letto ma conoscevo dai veementi attacchi del teologo Bartolomeo Spina, domenicano gran cacciatore di maligne, contenuti nella sua Quaestio de Strigibus, pubblicata un biennio dopo quell’empio tomo. Le critiche del monaco molto avevano posto a rischio lo sciocco avvocato, anche perché lo Spina era importante e ascoltato funzionario del Medici da Milano che, proprio in quel 1523, era stato eletto papa col nome di Clemente VII e che l’aveva presto levato a cardinale e, dopo non molto, a Grande Inquisitore.

Va ora detto che io non ero più un inesperto magistrato ma tutto ormai, quale Giudice Generale, mi stava sottoposto nel tribunale di Roma, poi che anch’io ero aumentato, tre anni prima, nella stima di Clemente. Infatti, durante il gran sacco dell'Urbe attivato dagli Imperiali nel 1527, m’ero adoperato, a rischio della vita, per porre a salvamento i documenti dei processi in corso e di quanto possibile dei passati. Proprio per questo mio potere nel tribunale, come avrei inteso, il Ponzinibio s'era rivolto a me. Ciò aveva osato perché, ormai, egli era forte della protezione di un altro domenicano, l'austero monsignor Gabriele Micheli, ventiseienne soltanto ma assai dotto, potente e stimatissimo nell'Urbe.

Per rispetto al vescovo, che oltretutto già allora godeva fama di santo, ricevetti il Ponzinibio.

Nel suo trattato l'avvocato aveva negato la realtà dei sabba e delle cavalcate volanti e condannato lo strumento della tortura per le confessioni. Ebbene, pare incredibile ma, non appena dopo i saluti, senz'altri convenevoli, egli esordì: "Persino lei, Signoria, confesserebbe d'essere uno stregone se le martoriassero i testicoli con tenaglie roventi!"

Me ne indignai massimamente: come osava parlarmi così, senza cortesi preamboli, senza il dovuto rispetto, senza perifrasi? Tenaglie roventi a me?! "Sappia per certo, mio dotto signore", gli risposi scuro in volto, ma non senza cortesia nella voce e senza affatto scompormi, "che molte streghe confessano non solo senza avere subito tortura, ma non avendone ancora ricevuto la minaccia." Avevo esagerato, perché solo Elvira s'era comportata in tal modo; ma rammentavo l'assoluta conferma che aveva saputo dare alla mia, peraltro già sicura, coscienza.

"Se permette, dottissimo giudice", continuò il vagheggione come se neppure avesse udito, "andrò indietro di secoli, perché meglio possa capire."

Una nuova impertinenza! Ebbi l'impulso di farlo cacciare dal mio servitore; ma pensando alla nobile figura del suo protettore, mi trattenei.

"Andiamo all'inizio del decimo secolo", proseguì, a un manoscritto del monaco Regino di Prüm, oggi a mani del saggio padre monsignor Micheli, cioè alla trascrizione del Canon Episcopi, a sua volta di molti secoli precedente."

"Il Canon Episcopi?" feci eco, cominciando a prendere interesse: "Dei primi secoli della Chiesa?"

"Sì. Potrà leggerlo presso il suo attuale possessore, del quale io sono qui messaggero; ma intanto, se permette, gliene farò accenno."

L'avevo sino ad allora tenuto in piedi, sulla porta del mio studio. Avendolo saputo ambasciatore di tanto protettore, ed essendomi ormai incuriosito, lo feci accomodare e mi accomodai.

"Magia e stregoneria", continuò non appena sedutosi, "seguono la storia dell'uomo, da ben prima del Cristianesimo. Riti stregoneschi son descritti nell'antica letteratura, come in Apuleio, or novamente oggetto di lettura e studio da parte di letterati distinti; e la scoperta inoltre e l'indagine su vecchissimi testi, quali l'Hermetica e la Cabala, da parte del Ficino, del Pico della Mirandola..."

L'interruppi, di nuovo infastidito: "Mio sapiente signore, queste cose sono vere, ahinoi! e ben note anche a poveri insipienti come questo Giudice Generale che pazientemente la sta ascoltando; ma esse di più portano, semmai, a vegliare e a difendersi. Certamente il demonio è attivo in tutta la storia! Pensa di dirmi qualcosa di nuovo? e crede non sappia, ad esempio, dell’antichissima strega di Endor, che predisse la sventura al re Saul?" aggiunsi a mostra del mio sapere, citando il primo caso che mi era venuto alla mente; e, storcendo all'ingiù la bocca, lo fissai negli occhi onde fargli abbassare lo sguardo; ma egli non l'abbassò affatto, e mi sorrise; poi chinò la testa assentendo come a scusarsi e, subito levatala, riprese: "Mi perdoni, mio giudice, ma voleva essere solo un'innocente premessa. Non dubitavo affatto del suo sapere."

Mostrai d'accettare le scuse abbassando, ma più brevemente di lui, il capo per un attimo: "Venga al Canon Episcopi", gl'intimai, "o non la tratterrò oltre"; e cominciai, per buon peso, a tamburellare sul bracciolo del mio seggiolone colle dita della man destra.

Accelerando allora fin quasi a unire tra loro le parole, il Ponzinibio seguitò: "Il Canone, chiedo venia, Signoria, afferma che esistono cattive femmine che credono di cavalcar animali di notte con la dea Diana e di coprire gran distanze in breve tempo e in luoghi segreti svolgere con spiriti incarniti cerimonie blasfeme, ma sottolinea che si tratta soltanto di allucinazioni o di sogni, provocati dal diavolo per impossessarsi della mente delle persone; e sa quali sono i rimedi stabiliti?" Non mi lasciò il tempo di parlare e proseguì: "Penitenza e preghiera. Così è detto nel Canone e così opera la Chiesa fin verso il 1000; poi, bastano pochi anni: un secolo dopo, come risulta da altri documenti presso monsignor Micheli, la gran parte del clero accetta invece, ormai, la realtà esterna di quei fatti, mentre il popolo tutto ne ha l'assoluta certezza; e la magia del diavolo, il suo apparire in persona, visibile, ad adunanze di streghe e stregoni diviene nei secoli cosa sempre più indubitabile."

"Infatti, indubitabile è; e può costare assai caro il pensare altrimenti", replicai severissimo. Stavo per aggiungere una maggior minaccia verso il Ponzinibio, quando mi risovvenni del suo potente protettore e, avendo ormai capito ch’egli pure la pensava così malamente, tacqui.

Nel mio tacere, l'avvocato replicò: "Eppure, mio giusto signore, il mite atteggiamento del Canon Episcopi indicherebbe, forse, che gli antichi nostri padri erano sprovveduti? Possibile che, mentre fino all'undicesimo secolo, sin quando la tortura fu illegale e a tutti gl’inquisiti si garantì un processo giusto", il Ponzinibio, guardandomi dritto negli occhi, calcò la voce su quel giusto, "streghe e stregoni fossero fenomeno assolutamente di secondaria importanza e invece, dopo, vie più ne sia aumentato il numero fino ad essere considerati oggi uno dei più grandi pericoli? Ciò che appare rimedio non sarà invece causa? Come dissi, chi potrebbe resistere al dolore o, anche solo, alla sua attesa certa senza dirsi colpevole? Possibile che negli ultimi secoli, che tanto mostrano di tenere in gloria la sapienza, e in questo particolarmente, si sia persa la ragione, gloria del Cristianesimo nel primo millennio?" Finalmente concluse: "Monsignor Micheli prega per lei e desidera ardentemente vederla, signor Giudice Generale. Egli l'attende giovedì nella sua casa, due ore dopo il levar del sole. Cosa devo riferirgli?"

"La mia obbedienza verso monsignore è assoluta. Gliela manifesti e gli dica che verrò."

Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»