l’Ascesa

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Из серии: Le Cronache dell’invasione #3
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CAPITOLO QUATTRO

Kevin rabbrividì quando Puro Xan entrò nella stanza in cui si trovavano lui e Chloe. Stare lì appeso, solo e senza sorveglianza era già di per sé orribile, ma in qualche modo sapeva che non poteva essere peggio di quello che gli alieni avrebbero deciso di fare loro adesso.

“La paura è una debolezza,” disse Puro Xan, le parole che arrivavano con leggero ritardo per mezzo del suo traduttore. “Semplicemente una delle tante che noi abbiamo sconfitto.”

“Cosa intendi dire?” chiese Kevin. Cercò di tenere a bada la paura che provava, perché non voleva che l’alieno la notasse.

Chloe sembrava sufficientemente spaventata per entrambi, ma pareva anche arrabbiata. Se non ci fosse stata la gravità distorta che li teneva attaccati alle cornici, Kevin immaginava che avrebbe tentato di attaccare l’alieno.

“Un tempo eravamo essere più deboli,” disse Puro Xan, facendo un gesto così che un sezione della parete divenne uno schermo che mostrava cose simili ai Puri, ma allo stesso tempo diverse. Non avevano la pelle così liscia, l’aspetto così aggraziato e perfetto, e di certo non possedevano quel senso di fredda implacabilità che era loro tipico. Erano proprio il genere di cose che i Puri dovevano essere stati molto tempo prima.

“Abbiamo lottato e fatto la guerra tra noi. Abbiamo trasformato il nostro mondo in un posto quasi invivibile con le armi che abbiamo usato.”

L’immagine sullo schermo mutò, mostrando un mondo che si presentava inizialmente verde e lussureggiante, ma dove poi le piante appassivano e morivano e le esplosioni devastavano la superficie, con fuoco e venti sferzanti che si dispiegavano dal centro delle città.

“Abbiamo dovuto trovare dei modi per adattarci.”

“Attaccando la gente di altri mondi,” disse Kevin. “Ingannandoci per indurci a farvi entrare e poter poi controllare le menti della gente.”

“Siete malvagi,” aggiunse Chloe. “Non siete nient’altro che dei mostri.”

Puro Xan li guardò con un abbozzo di emozione. Kevin dubitava che la creatura fosse capace di provarne, e questo in qualche modo faceva ancora più paura di quanto Chloe aveva affermato. Quelle creature erano perfide, o piene di odio, o determinate a spazzare via tutto ciò che temevano. Agivano con la calma e freddezza di un ghiacciaio che rotola schiacciando una città, senza curarsi delle vite presenti.

“I vostri mondi non hanno importanza,” disse Puro Xan. “Voi non appartenete all’Alveare. Non fate parte dei Puri.”

“Pensate veramente di essere le uniche cose importanti dell’universo?” chiese Chloe.

“Siamo i Puri,” rispose Xan, come se ciò desse risposta a tutto. “Abbiamo creato l’Alveare per risolvere le guerre del nostro mondo. Nel metterci insieme, abbiamo imparato ad andare oltre le debolezze delle emozioni. Abbiamo imparato dai mondi più vicini come trasformare gli inferiori in ciò che vogliamo. Abbiamo costruito le navi Alveare per portarci a raccogliere materiali con cui rigenerare il nostro mondo per i Puri.”

“Quindi non fate altro che prendere e prendere, e non date niente in cambio,” disse Kevin.

“Tutto il resto è inferiore,” disse Puro Xan. “È tutto nostro.”

“Fino a che non vi fermeremo,” disse Chloe, lottando contro la gravità che la teneva ferma. Se era come quella che bloccava Kevin tenendolo attaccato al pannello di vetro, sapeva benissimo che non aveva alcuna possibilità di liberarsi, ma immaginò che dirglielo non l’avrebbe persuasa a fermarsi. Se non altro avrebbe probabilmente solo peggiorato le cose.

“Voi siete deboli. Non potete fermare l’Alveare,” disse Puro Xan.

“E allora perché siamo ancora qui?” chiese Kevin. “Se pensi che siamo così deboli e inutili, perché non ci avete uccisi nel momento in cui siamo arrivati sulla vostra… nave?”

“Non distruggiamo ciò che è utile,” disse Pur Xan. “Lo raccogliamo. È il nostro scopo.”

Utile. Kevin non era sicuro che l’idea di essere utile a una cosa come quella gli piacesse. Da quello che aveva visto accadere alle altre creature che gli alieni avevano trovato utili, essi non facevano che rimodellare le loro carni, trasformandoli. Aveva già provato il dolore dovuto al processo con cui gli alieni gli avevano rovistato tra i pensieri. Le visioni che aveva avuto del mondo alieno erano state ancora peggio.

“Io non voglio esservi utile,” disse Kevin.

“Non hai altra scelta,” disse Puro Xan. “Dovresti esserci riconoscente. I prescelti di un mondo vengono generalmente distrutti, per evitare che diventino… un pericolo per noi. Voi siete sopravvissuti perché vi abbiamo permesso di farlo.”

“Perché?” insistette Kevin.

Puro Xan non rispose per un momento o due. Si mosse invece nella stanza, sistemando alcune cose attorno a un macchinario.

“Intendono guardare ancora nelle nostre teste, Kevin,” disse Chloe, terrorizzata all’idea. “Useranno ancora quelle cose con i tentacoli.”

“Non su di te,” disse Puro Xan con voce quasi sprezzante. “Ti sarai abbastanza intrigante da dissezionare e rimettere insieme. La tua mente è piuttosto interessante, ma non tanto da continuare a lavorarci.”

“Non potete vivisezionare Chloe!” gridò Kevin, lottando contro la gravità che lo imprigionava. Per quanto si dimenasse per liberarsi, la forza lo teneva attaccato alla cornice. La pressione lo teneva sdraiato, come se avesse avuto un peso di piombo schiacciato contro il petto.

“Noi facciamo quello che ci pare e piace,” disse Puro Xan. “Se questo è l’uso migliore che possiamo fare della donna per il bene dell’Alveare, allora è ciò che accadrà. Saremo generosi però. Potrai decidere ciò che le succederà.”

“Allora scelgo che non venga vivisezionata!” disse Kevin.

“Dopo che avremo finito,” disse Puro Xan. “Dopo che ti sarai unito al nostro Alveare.”

“Cosa?” disse Kevin scuotendo la testa. “Non se ne parla.”

L’alieno gli si avvicinò, i dispositivi con i tentacoli pronti alla mano.

“Il tuo cervello ha delle capacità che l’Alveare richiede,” disse Puro Xan. “Quindi verrai con noi.”

L’alieno lo fece suonare come un fatto innegabile, come se fosse semplicemente il modo in cui andava il mondo. Fece suonare l’idea ovvia e naturale, come dire che l’acqua è bagnata, o che il sole è caldo. Ma non c’era niente di naturale nelle cose con i tentacoli che Puro Xan teneva in mano.

“E allora?” chiese Kevin, più che altro perché ogni occasione per ritardare la situazione gli appariva come una buona idea. “Intendete trasformarmi in un Puro come voi? Perderò tutti i capelli e mi verranno quegli occhi assurdi?”

Magari, se Kevin fosse riuscito a infastidire abbastanza l’alieno, lo avrebbe potuto distrarre da ciò che intendeva fare. Ovviamente poi quello avrebbe potuto decidere di fargli cose totalmente peggiori, ma in quel momento a Kevin non veniva in mente niente di peggio che essere trasformato in uno di loro.

“Non appartieni ai Puri,” disse Puro Xan. “Ma puoi essere trasformato in uno dell’Alveare. Diventerai un nostro emissario, uno dei nostri prescelti. Dovresti essere felice dell’onore che ti riserviamo.”

“Pensate che per Kevin sia un onore avere il cervello invaso?” chiese Chloe.

“Non sarà un’invasione,” disse Puro Xan. “Kevin ci accoglierà. Accetterà di diventare uno di noi.”

“Perché dovrei accettare?” chiese Kevin. “Perché non lo fai e basta, visto che intendi comunque farlo, invece di continuare con i tuoi giochetti?”

L’alieno parve quasi offeso, anche se Kevin dubitava che potesse provare anche quella emozione. Dubitava che potesse provare qualsiasi cosa.

“Noi non facciamo nessun giochetto,” disse. “I cervelli della nostra specie sono delicati però, e ci serve che il tuo sia intatto per i compiti che l’Alveare ha in serbo per te. Se ti ribelli troppo durante il processo, c’è la possibilità che il tutto resti… danneggiato.”

“Mi ribellerò di certo,” promise Kevin. “Morirei piuttosto che fare qualsiasi cosa per aiutarvi.”

L’alieno rimasse fermo a fissarlo, apparentemente non comprendendo ciò che aveva appena detto. Guardò Kevin con un leggero cipiglio, piegando la testa di lato come se stesse ascoltando qualcosa che solo lui riusciva a sentire. Kevin aveva la sensazione che stesse cercando di capirlo, per decidere nel frattempo il da farsi.

“La tua affermazione è da sciocchi,” disse Puro Xan. “Cedere è a tuo totale vantaggio. Così potrai continuare ad esistere.”

“Tanto morirò comunque,” disse Kevin, pensando per un momento a quando il dottore gli aveva diagnosticato la sua malattia, dicendogli quanto poco tempo gli restasse da vivere. “Pensi che le tue minacce mi importino?”

L’alieno lo fissò per un altro momento o due, e di nuovo Kevin ebbe la sensazione che stesse ricevendo consigli dagli altri della sua specie.

“Possiamo salvarti,” disse, lasciando cadere lì le parole come pesi di piombo.

Lo shock di quell’affermazione assalì Kevin come una secchiata di acqua fredda. I migliori scienziati che la Terra avesse da offrire avevano tentato di aiutarlo, fallendo. Ora questi alieni gli stavano offrendo di farlo stare bene come se non fosse niente.

“Stai mentendo,” rispose. Doveva credere che stessero mentendo. “Hai già mentito su tante cose. Pensi che ti crederò?”

Pensò a tutti i modi in cui avevano mentito per indurlo ad aiutarli con la loro invasione della Terra. Gli avevano detto di essere dei rifugiati provenienti da un altro pianeta e in cerca di salvezza. Gli avevano raccontato che erano loro quelli che stavano sfuggendo alla distruzione, non coloro che l’avevano causata.

“Hai visto quello che possiamo fare,” disse Puro Xan. “Possiamo manipolare la carne in modi che la tua mente umana non può neanche immaginare. I Puri dell’Alveare sono preservati in maniera quasi indefinita. Abbiamo ogni motivo per volerti in vita. Potremmo guarirti, se appartenessi all’Alveare.”

 

Cosa poteva dire Kevin di fronte a quel genere di tentazione? Era tutto ciò che aveva desiderato dal momento in cui il dottore gli aveva detto quello che gli stava succedendo. Quando era stato all’istituto della NASA, aveva segretamente sperato che uno degli scienziati lì potesse trovare un qualche modo per aiutarlo, per far fermare tutti i tremori e il dolore. Aveva pensato di poter dare praticamente ogni cosa pur di stare di nuovo bene. Fu uno sforzo enorme per lui ora scuotere la testa.

“Se devo morire impedendo quello che volete, allora è quello che farò,” disse. Lo intendeva sul serio. Voleva vivere, aveva sperato in una cura, ma ormai aveva avuto un sacco di tempo per accettare quello che gli stava succedendo. Se morire poteva aiutare a fermare gli alieni… beh, non voleva, ma l’avrebbe fatto.

“E cosa mi dici delle altre cose che l’Alveare ha da offrirti?” gli chiese Puro Xan. “Ci dicono che la vostra specie dà importanza a genitori e amici. In quanto appartenente a noi, potresti decidere cosa fare di coloro che controlliamo.”

Kevin deglutì, pensando a sua madre, pensando a Luna. C’erano così tante persone che conosceva sulla Terra, ora così lontana da non essere più visibile sullo schermo. Se avesse potuto aiutarli… no, se gli alieni volevano qualcosa da lui, questo non li avrebbe aiutati per niente.

“E poi c’è la questione della tua amica qui,” disse Puro Xan. “Come ho detto, in quanto appartenente all’Alveare, potresti determinare il suo destino. Se non lo fai, la donna subirà degli esperimenti, proprio davanti ai tuoi occhi.”

Kevin rimase impietrito, spostando lo sguardo da Chloe all’alieno più volte.

“No, Kevin. Non farlo,” disse Chloe. Kevin poteva sentire la sua disperazione. “Lascia che mi uccidano. Che facciano quello che serve!”

Kevin poteva percepire la sincerità nella sua voce, ma… non poteva farlo. Non poteva starsene lì a guardare mentre Chloe moriva. Sapeva che l’avrebbero fatto. C’era qualcosa nel modo freddo e privo di emozione in cui Xan aveva posto la sua minaccia che la rendeva qualcosa di diverso: non esattamente una minaccia, ma più una semplice dichiarazione di ciò che sarebbe successo.

“Ti modificheremo comunque,” disse Puro Xan. “È semplicemente questione di quanto ti ribelli, e di quanto faccia male. Prendi la tua decisione, Kevin McKenzie.”

“Ribellati a loro, Kevin,” disse Chloe. “Non cedere!”

Kevin la guardò, cercando di non pensare a tutte le cose che gli alieni avrebbero potuto farle. Era impossibile però fare qualsiasi cosa che non fosse immaginarsi quello che le sarebbe successo quando avessero iniziato ad eseguire esperimenti su di lei. Poteva davvero starsene a guardare mentre iniziavano a farla a pezzi per vedere come funzionava, o si mettevano a trasformarla in qualcosa che non era umano? Poteva farlo, quando questo li avrebbe solo portati a trasformarlo con la forza?

Non poteva, e lo sapeva bene.

“Va bene,” disse, odiando ogni singola parola. “Fatelo.”

“Lo avremmo fatto comunque,” gli assicurò Puro Xan. “Farà più male, tanto più ti ribellerai.”

“Kevin,” disse Chloe. “Ti prego, ribellati. Devi restare te stesso. Devi restare forte.”

Quella era sicuramente la loro unica speranza. Non potevano liberarsi. Non potevano lottare fisicamente. L’unica possibilità era diventare uno dell’Alveare e in qualche modo sperare di conservare qualcosa di sé…

Non portò neppure a termine quel pensiero che Puro Xan gli applicò i tentacoli sulla testa, e l’Alveare entrò invisibile nel suo cervello.

Kevin gridò di dolore, un dolore netto e improvviso, come se una stalattite gli fosse stata piantata in mezzo alla mente. Pensava di essersi abituato al dolore con la sua malattia; aveva pensato di aver imparato cosa fosse, ma ora si rendeva conto che non era proprio niente confronto a ciò che gli stava succedendo adesso. Poteva sentire i tentacoli che frugavano tra i suoi pensieri e i suoi ricordi, la spiacevole sensazione, fin troppo familiare ormai, di quando gli alieni gli avevano testato la mente la prima volta.

Ma questo pareva in qualche modo diverso, perché questa volta gli alieni non stavano solo guardando.

Kevin poteva sentire l’Alveare dentro ai suoi pensieri, mente sopra a mente, tutte unite e potenti. Era caldo e freddo e doloroso, tutto allo stesso tempo. Era come vetro smerigliato lavorato in mezzo ai suoi pensieri. Poteva sentire il lavaggio dei controllati ai confini, non proprio parte reale del tutto. Poteva sentire le menti affilate di cose avvezze alla guerra, e i pensieri più morbidi e lenti di bestie da soma. Poi c’erano i Puri e i loro schiavi, scie luccicanti che spiccavano in mezzo a tutta quella rete.

Vieni a noi, lo incalzavano, le voci profonde e seducenti. Diventa uno di noi.

Kevin cercò di divincolarsi, e lo sforzo gli fece più male di quanto avesse potuto immaginare. Si sentì gridare, ma il suono parve venire da lontano. C’erano come degli artigli che lo tenevano fermo, conficcati nel suo cervello, troppo potenti per poterli ignorare.

Lo stesso Kevin continuò a lottare. Poteva sentire l’Alveare che si muoveva dentro di lui, prelevando parti della sua mente nel modo in cui un esercito invasore avrebbe potuto saccheggiare campi e città. Kevin iniziò a nascondere parti di se stesso, ricordando il modo in cui nascondeva la propria paura per il bene di sua madre, cercando di nascondere quello che poteva mentre gli alieni continuavano ad avanzare all’interno del suo cervello. Se fosse riuscito a resistere abbastanza, magari avrebbe trovato un modo per tenersi staccato dall’Alveare. Per rimanere se stesso.

Sentì il momento in cui lo collegarono all’Alveare, passando dal vedere tutte le scie separate ad esserne una parte. Poteva sentire i messaggi e i pensieri degli altri, gli ordini dei Puri e l’obbedienza del resto.

Una mente che divide le cose, pensò un Puro nei suoi confronti.

Una mente che è proprio quello che ci serve, confermò un altro.

Kevin poteva sentire la presenza di Puro Xan accanto a sé. Svegliati, Kevin, entra nella tua nuova vita.

Kevin aprì gli occhi di scatto. Non ricordava di averli chiusi. Il mondo attorno a lui sembrava strano, avvolto in uno scintillio di nuovi colori, dettagli che non avrebbe mai notato prima con i suoi occhi. Era come se fosse capace di concentrarsi su ogni movimento della polvere o cambiamento di colore.

Si guardò attorno osservando i macchinari, e l’Alveare dentro di lui gli spiegò a cosa servisse ciascuno di essi. Era riuscito a trattenere una parte di sé? Kevin non lo sapeva. Si sentiva ancora come fosse se stesso, anche se tutto il resto nel mondo gli appariva strano. Sembrava allo stesso tempo più vivo e più connesso di quanto avrebbe potuto credere possibile.

Puro Xan si portò accanto a lui, operando sui controlli della cornice, così che Kevin sentì la gravità riportarlo verso il pavimento, non più bloccato al pannello di vetro.

“Benvenuto nell’Alveare, Emissario Kevin,” lo accolse Puro Xan.

CAPITOLO CINQUE

Luna e i motociclisti scappavano dai controllati che man mano si avvicinavano. Scattarono verso le moto, cercando di arrivarvi prima che la maggiore velocità di quegli alieni li portasse loro addosso. Luna corse verso il punto dove si era fermata la sua motocicletta, ora riversa sul fianco con il sidecar verso l’alto, ovviamente buttata a terra dal caos che aveva fatto seguito al momento in cui l’avevano catturata.

Cercò di raddrizzarla, spingendovi contro tutto il corpo, ma sentendosi come se stesse premendo contro un muro di pietra. La sentì spostarsi leggermente mentre continuava a spingere, e poi finalmente la raddrizzò sollevando una piccola nuvola di polvere quando il sidecar andò a colpire la strada.

“Entra, Bobby,” gridò al cane, che era ancora impegnato a ringhiare all’orda di controllati in avanzata, come se potesse riuscire a respingerli. “Sbrigati!”

Luna indicò il sidecar e il cane colse il messaggio, saltandovi dentro e accomodandosi, guardandosi attorno ancora con i denti digrignati. Guardando alle sue spalle, Luna capì il motivo: i controllati erano davvero vicini, correndo a una velocità tale che a ogni battito di ciglio avevano guadagnato sempre maggior vantaggio. Luna fece per accendere la motocicletta, determinata a mettere più distanza possibile tra lei e i controllati…

Non partiva.

“Non ora,” disse a denti stretti mentre il motore borbottava e sputacchiava. “Andiamo!”

Saltò con tutto il proprio peso sul pedale dell’accensione, una volta e poi un’altra ancora. Vedeva i controllati sempre più vicini, a venti metri, poi a dieci. Luna sentì salire la paura. Non aveva davvero alcuna intenzione di venire a scoprire cosa facessero i controllati a qualcuno che non fosse più dei loro.

Saltò ancora una volta sul pedale, spingendo con tutto il suo peso, e la moto rombò avviandosi. Luna non esitò e accelerò il più forte possibile staccandosi dall’ondata di gente controllata che ormai incombeva su di lei. Sentì un peso mentre una mano priva di sensibilità si aggrappava alla sua moto, una donna con le pupille velate che si teneva con tutte le sue forze mentre la motocicletta la trascinava, facendola scivolare sul terreno.

Luna cercò di ricordare se avesse visto quella donna mentre erano stati tutti costretti a lavorare. Si trovò a pensare alla persona che probabilmente era ancora intrappolata da qualche parte dietro a quegli occhi, la persona che quasi sicuramente stava lottando contro quel corpo anche mentre tentava di afferrare Luna. Luna ora sapeva perfettamente quanto orribile fosse essere un controllato, e sapeva che non c’era nulla che la persona lì potesse fare per fermarsi.

D’altro canto sapeva anche che non sentivano dolore.

“Scusa,” le disse prendendo a calci alla donna fino a farla cadere in mezzo alla strada, permettendo alla moto di scattare in avanti. Luna stessa dovette tenersi con forza per non farsi sbalzare all’indietro.

Attorno a lei Luna vide i membri del Circolo Motociclistico di Capopolvere che prendevano le loro motociclette e partivano in formazione, le moto che disegnavano un’ampia V, come se potessero essere capaci di schiacciare qualsiasi cosa si fosse messa loro davanti. Vide Ignazio che saltava dietro a Orso, sempre tenendo stretta in pugno la sua preziosa pistola a vapore.

C’erano altri controllati che sbucavano dalle strade laterali ora, lanciandosi addosso alle motociclette da ogni direzione. L’unica speranza sembrava quella di continuare a dare gas ai motori, sperando che la pura velocità li portasse a superare la massa di gente controllata prima che questi potessero travolgerli come l’acqua che si riversa in un lavabo. A Luna non dispiaceva andare più forte. Avere paura della velocità era decisamente meglio che pensare alla prospettiva di essere fatti a pezzi dai controllati.

“Non vi fermate!” gridò Luna agli altri, con la voce più alta che poté in modo che le sue parole si potessero udire nonostante il rumore assordante dei motori. “Dobbiamo scappare!”

Continuarono a guidare il più velocemente possibile. Con i controllati che si avvicinavano da dietro e dai lati, le moto sbucarono dalla massa come un tappo dal collo di una bottiglia. In un istante si trovarono nello spazio aperto, lanciati a pazza velocità in mezzo a Sedona, cercando di allontanarsi il più possibile dall’orda di controllati. Ora la loro velocità era nettamente superiore a quella dei loro inseguitori, e si poterono dirigere senza ulteriori ostacoli verso i confini della città.

“Penso che ce ne siamo sbarazzati,” disse Lupetto con un sorriso che lasciava intendere quanto fosse felice di essere libero dal controllo degli alieni.

Luna gli sorrise, perché era ugualmente contenta di avercela fatta. Ed era contenta che anche lui fosse stato salvato. Non avrebbe per niente gradito l’idea di Lupetto che restava lì mentre lei e gli altri scappavano. Portò la moto vicino alla sua, pronta a chiamarlo, anche se non aveva un’idea chiara di cosa gli avrebbe detto. Magari che era contenta che lui fosse lì, o forse qualcosa di più.

Qualsiasi cosa stesse per dire, le parole le si bloccarono in gola quando il bagliore di qualcosa in cielo colse la sua attenzione, diventando ogni momento più grande.

 

“Una navicella!” gridò Luna mentre la vedeva scendere.

La navicella era una di quelle più piccole, ma questa aveva un aspetto in qualche modo più affusolato rispetto alle altre, e sembrava più pericolosa. Se le altre erano api operaie costruite per trasportare cose sulla nave più grande, questa assomigliava più a un calabrone, con i contorni spigolosi e dall’aspetto letale, progettata per uccidere qualsiasi cosa le si mettesse davanti.

“Sta venendo da questa parte!” gridò Luna.

Stava scendendo rapidamente e Luna si trovò a chiedersi da dove fosse saltata fuori. La navicella più grande sopra a Sedona era sparita. Addirittura la navicella madre che c’era prima in cielo ora se n’era andata, svanita tanto rapidamente quanto era arrivata. Questa doveva essere arrivata da una delle altre navicelle che stavano ancora sospese sopra ad altri paesi e città per prendere ciò che potevano. Dalla velocità a cui stava avanzando, probabilmente stava spingendo i suoi motori al massimo della loro potenzialità.

“Hanno mandato una navicella da un’altra città per prenderci?” gridò Lupetto.

Non aveva senso che una navicella fosse arrivata lì tanto velocemente, o che loro potessero essere tanto importanti per gli alieni. Eppure non le veniva in mente nessun altro motivo per cui una navicella spaziale come quella venisse così velocemente verso di loro, o così bassa, a una trentina appena di metri da terra. Forse il fatto che si erano risvegliati dalla condizione di controllati aveva fatto arrabbiare gli alieni più di qualsiasi cosa avessero potuto fare.

“Devono aver percepito che delle persone si sono liberate dal loro controllo,” gridò Luna.

“Ho scoperto che i controllati si affrettano ad andare dove ho operato con la mia pistola,” spiegò Ignazio dalla moto di Orso. “Penso stiano tentando di fermare i miei tentativi di aiutare la gente.”

Luna pensò agli alieni che l’avevano controllata. Come avrebbero potuto reagire a gente che si liberava di loro? Come avrebbero risposto a qualsiasi perdita di controllo quando tutto ciò che parevano volere era prendere sempre di più?

A Luna parve di vedere qualcosa che iniziava a brillare nella parte frontale della navicella, un arancione vivo che dava l’idea che qualcuno avesse dato fuoco alla punta del muso del velivolo. Luna cercò di decidere se si trattasse di un trucco della luce, e poi un pensiero ancora più orribile le venne in mente.

“Sparpagliatevi tutti!” gridò, tirando la motocicletta di lato così repentinamente che le ci volle uno bello sforzo per tenerla dritta.

La strada davanti alla loro piccola carovana eruppe in un’esplosione di energia che sbrecciò l’asfalto, sollevando pietra e terra che volarono in ogni direzione. Luna vide una delle moto scivolare e capovolgersi, il motociclista che rotolava a terra mentre la terra scompariva sotto di lui.

Luna andò fuoristrada, ignorando i salti e gli scossoni provocati dal terreno irregolare mentre rocce e buche minacciavano di sbalzarla di sella. Attorno a lei vide gli altri motociclisti che la seguivano, percorrendo il terreno brullo, restando alla larga dalla linea dritta della strada mentre la navicella aliena fischiava sopra le loro teste. Un altro blocco di terra e pietra si sollevò con un secondo sparo, e poi la navicella passò oltre, virando nettamente e preparandosi a tornare verso di loro.

Così allo scoperto erano un bersaglio facile. Luna poteva vedere la navicella aliena che si allontanava da loro, ma solo per prendere la rincorsa e tornare all’attacco. Se avesse sparato loro contro da quella distanza, avrebbe avuto un sacco di tempo per prendere la mira e colpirli per bene. Dovevano trovare un riparo, e dovevano farlo ora.

Luna si guardò attorno e poi indicò verso le valli di roccia rossa nei pressi di Sedona.

“Lì!” gridò. “È la nostra unica speranza.”

Spinse il motore, la motocicletta che scattava in avanti con gli altri al seguito. La terra esplose ancora attorno a loro a un altro passaggio della navicella, e per un momento o due Luna non poté vedere nulla davanti a sé. Quando la nuvola di polvere si diradò tanto da consentirle di vedere, dovette virare di scatto a sinistra per evitare i resti di un albero, strappato dal terreno dall’ultima esplosione. Luna sperava solo di condurre gli altri nella giusta direzione.

Si diressero verso la valle, imboccandola a tutta velocità e continuando a premere sugli acceleratori. Dei lampi di energia andarono a colpire le pareti delle montagne, sollevando in aria la terra e facendo franare le rocce, costringendo così Luna a virare e schivare per evitarle. Le pietre rotolavano e rimbalzavano con grosso frastuono; una le passò vicino alla testa, tanto vicina da costringerla ad abbassarsi per schivarla.

“Sta scendendo di più!” gridò Lupetto da qualche parte vicino a Luna. Luna sapeva di dover tenere gli occhi fissi sulla vallata davanti a sé, ma non poté fare a meno di arrischiare un’occhiata alle proprie spalle.

La navicella aliena stava volando quasi rasoterra, spostandosi nella valle e cercando di approntare lo sparo successivo.

“Più veloci,” gridò Luna.

“Non riusciamo a seminarla,” esclamò Lupetto.

“Non dobbiamo seminarla,” gridò Luna. “Dobbiamo solo scoprire quanto velocemente può svoltare.”

Vide Lupetto sorridere: aveva capito. Il gruppo di motociclisti continuò ad avanzare, inoltrandosi nella valle.

“Tieniti duro, Bobby,” disse Luna.

Luna si teneva stretta alla motocicletta, prendendo le svolte e le curve alla massima velocità, poi ancora più veloce. Le rocce rosse dei versanti torreggiavano sopra di lei come cumuli malformi, con pietre che cadevano quando venivano colpite da lampi di energia, un promemoria di quanto tutto questo potesse andare storto. Una curva presa troppo di corsa, uno scatto del manubrio nella direzione sbagliata, e lei Bobby sarebbero finiti di peso contro le pareti delle montagne, con troppa forza per poter sopravvivere.

Luna tenne stretto il manubrio, vi si chinò sopra e diede ancora più gas.

Osò lanciarsi un’occhiata alle spalle. La navicella aliena era ancora lì, che girava e svoltava insieme a loro, sparando a caso quando non riusciva a puntare un tiro perfetto. Oscillava da una parte e dall’altra sfrecciando in mezzo alla vallata. Poi, senza preavviso, Luna vide che andava a sfregare con un lato contro la parete.

“Attenzione!” gridò, mentre la navicella rimbalzava da una parete all’altra, sforzandosi di correggere la traiettoria mentre veniva deviata come la pallina di un flipper, le scintille che volavano a ogni colpo, assumendo pian piano un’angolazione che puntava verso il fondale della valle.

Il rumore quando colpì il terreno sembrò riempire il mondo, la polvere che volava mentre il velivolo si piantava di muso e tutto il resto veniva annebbiato. Luna e gli altri dovettero continuare a correre a tutta birra per guadagnare distanza dal disastro. Però lo spazio stava finendo, perché la vallata si stava chiudendo, sigillata da una parete di roccia che era traforata solo dalle aperture generate dalla grata di una caditoia. Luna corse verso quella parte, sperando che la navicella si fermasse prima di schiacciarli tutti contro la parete rocciosa. Accostò accanto a un muro di pietra, rabbrividendo mentre la navicella si avvicinava sempre più.

Gradualmente però rallentò, cigolando e grattando contro il suolo.

Luna si fermò davanti ad essa, gli altri che si aprivano attorno a semicerchio, i motori ancora accesi. Sentì un sibilo di aria decompressa e un portellone vicino alla sommità si aprì. Luna rimase scioccata osservando una figura che usciva barcollante.

Non era uno dei controllati. Non c’era niente di umano nella figura allampanata e simile a un insetto che si tirò fuori dal portellone, placche spinose simili a quelle di un’armatura – un’armatura rotta però – con perdite che lasciavano gocciolare un fluido trasparente a terra mentre avanzava.

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