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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2

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Pare che immediatamente dopo questo congresso, qualche improvviso evento richiedesse la presenza dell'Imperatore nella Pannonia. Lasciò egli a' suoi Generali la cura di compiere la distruzione degli Alemanni o col ferro, o col più sicuro mezzo della fame. Ma l'attiva disperazione ha spesso trionfato dell'indolente confidenza nella fortuna. Vedendo i Barbari ch'era impossibile traversare il Danubio ed il campo Romano, ruppero i posti della retroguardia, ch'erano, o più debolmente, o meno diligentemente difesi, e con incredibil prestezza, ma per diverso cammino, ritornarono verso i monti dell'Italia32. Aureliano, che riguardava la guerra come affatto finita, ricevè la mortificante notizia della fuga degli Alemanni e della devastazione da essi fatta nel territorio di Milano. Fu alle legioni ordinato di seguitare con tutta la speditezza, di cui erano capaci quei gravi corpi, la rapida fuga di un nemico, l'infanteria e la cavalleria del quale si muovevano quasi con egual celerità. Pochi giorni dopo, l'Imperatore istesso mosse al soccorso dell'Italia conducendo uno scelto corpo di ausiliari (fra i quali vi erano gli ostaggi e la cavalleria dei Vandali) e tutte le guardie Pretoriane, che avevano servito nelle guerre fatte già sul Danubio33.

Essendosi le truppe leggiere degli Alemanni sparse dalle Alpi agli Appennini, la continua vigilanza di Aureliano e dei suoi Uffiziali fu occupata in discoprire, assaltare e perseguitare i numerosi loro distaccamenti. Non ostante l'irregolarità di questa guerra, vengono menzionate tre considerabili battaglie, nelle quali le forze principali delle due armate si azzuffarono ostinatamente34. Fu vario il successo. Nel primo combattimento vicino a Piacenza, i Romani riceverono un colpo sì forte, che, secondo l'espressione di uno scrittore parzialissimo di Aureliano, si temè l'immediata ruina dell'Impero35. Gli accorti Barbari, che aveano circondati i boschi, assalirono improvvisamente le legioni nell'oscurità della sera, e (come è molto probabile) dopo la fatica e il disordine di una lunga marcia. Non poterono i Romani resistere alla furia del loro assalto, ma finalmente, dopo una terribile strage, la paziente costanza dell'Imperatore riordinò le suo truppe, e ristabilì in qualche modo l'onore delle armi sue. La seconda battaglia s'ingaggiò vicino a Fano nell'Umbria, sul terreno, che cinquecento anni avanti era stato fatale al fratello di Annibale36. Cotanto i fortunati Germani si erano avanzati lungo la via Emilia e Flaminia, con idea di saccheggiare la mal difesa padrona del Mondo! Ma Aureliano, che vigilando alla salvezza di Roma, era sempre loro alle spalle, trovò quivi il decisivo momento di dar loro una totale ed irreparabil disfatta37. Il fuggitivo residuo del loro esercito venne esterminato in una terza ed ultima battaglia vicino a Pavia; e fu l'Italia liberata dalle irruzioni degli Alemanni.

La paura è stata la prima madre della superstizione, ed ogni nuova calamità induce i tremanti mortali a scongiurar lo sdegno dei loro invisibili nemici. Benchè la migliore speranza della Repubblica fosse nel valore e nella condotta di Aureliano, pure fu tale la pubblica costernazione, quando i Barbari erano a momenti aspettati alle porte di Roma, che per decreto del Senato si consultarono i libri Sibillini. Lo stesso Imperatore, per religione o per politica, raccomandò questo salutevole provvedimento, biasimò la lentezza del Senato38, e si esibì di supplire a qualunque spesa, e di dare qualunque animale e qualunque schiavo d'ogni nazione che gli Dei richiedessero. Non ostante questa liberale offerta, non sembra che alcuna vittima umana espiasse col suo sangue i peccati del popol Romano. I libri Sibillini imposero cerimonie più miti: processioni di Sacerdoti in bianche vesti, accompagnati da un coro di giovani e di vergini; lustrazioni della città e dell'adiacente campagna, e sacrifizi la cui potente influenza impedisse ai Barbari il passo nella mistica terra, sulla quale si erano celebrati. Queste superstizioni, benchè puerili in se stesse, servirono al buon esito della guerra; e se nella decisiva battaglia di Fano, gli Alemanni sognarono di vedere un'armata di spettri, combattenti in favor d'Aureliano, egli ricevè un vero ed effettivo aiuto da questo immaginario rinforzo39.

Ma non ostante qualunque fidanza aver si potesse negl'ideali ripari, pure l'esperienza del passato e il timor del futuro, indussero i Romani a costruire fortificazioni di un genere più saldo e più sostanziale. I successori di Romolo aveano circondato i Sette Colli di Roma con un antico muro di più di tredici miglia40. Un recinto sì vasto può sembrare sproporzionato alla forza ed alla popolazione di quello Stato nascente. Ma era necessario di assicurare una vasta estensione di pascoli e di terreno dalle frequenti ed improvvise incursioni dei popoli del Lazio, perpetui nemici della Repubblica. Crescendo la Romana grandezza, si accrebbe a poco a poco la città, e la sua popolazione occupò tutto lo spazio voto, aprì le inutili mura, coprì il campo Marzio, e da ogni parte seguitò le pubbliche strade maestre con lunghi e bei sobborghi41. L'estensione delle nuove mura, erette da Aureliano e terminate sotto il regno di Probo, era magnificato dall'opinione popolare quasi a cinquanta miglia42, ma le accurate misure la ridussero intorno a ventuno43. Era questo un grande, ma tristo lavoro, giacchè i ripari della Capitale svelavano la decadenza della Monarchia. I Romani dei secoli più felici, che affidarono alle armi delle legioni la sicurezza dei campi delle frontiere44, erano ben lontani dal sospettare in alcun modo, che si dovesse mai per necessità fortificare la sede dell'Impero contro le irruzioni dei Barbari45.

 

La vittoria di Claudio su i Goti, e il fortunato successo di Aureliano contro gli Alemanni aveano già restituito alle armi Romane l'antica lor superiorità sopra le Barbare nazioni del Settentrione. Il punire i domestici tiranni, e riunire le smembrate parti dell'Impero era un'impresa riservata all'ultimo di questi bellicosi Imperatori. Quantunque fosse stato riconosciuto dal Senato e dal Popolo, le frontiere dell'Italia, dell'Africa, dell'Illirico e della Tracia ristringevano i confini del suo dominio. La Gallia, la Spagna e la Britannia, l'Egitto, la Siria e l'Asia minore erano tuttavia possedute da due ribelli, che soli di una lista sì numerosa, erano sino allora andati esenti dai pericoli della lor condizione; e per render compita l'ignominia Romana, due donne erano le usurpatrici di quei troni rivali.

S'era veduta nella Gallia una rapida successione di Monarchi, innalzati e caduti. La rigida virtù di Postumo non servì che ad accelerare la sua rovina. Egli dopo d'aver oppresso un competitore, ch'aveva presa in Magonza la porpora ricusò di concedere alle sue truppe il sacco di quella ribelle città; e nel settimo anno del regno suo divenne la vittima della loro delusa avarizia46. La morte di Vittorino, amico e collega di Postumo, fu prodotta la più piccola causa. Le luminose qualità47 di questo Principe erano oscurate da una licenziosa passione, ch'egli soddisfaceva con atti di violenza, senza aver quasi riguardo alle leggi della società, o a quelle ancor dell'amore48. Egli fu trucidato a Colonia da una congiura di gelosi mariti, la cui vendetta potrebbe sembrare più giustificabile, se risparmiato avessero l'innocente suo figlio. Dopo la strage di tanti Principi valorosi, è in certo modo mirabile, che una donna contenesse per lungo tempo le feroci legioni della Gallia, ed è cosa più singolare, che questa donna fosse la madre dell'infelice Vittorino. Coi suoi artifizi e colle sue ricchezze potè Vittoria collocar successivamente sul trono Mario e Tetrico, e regnare con maschio vigore sotto il nome di questi dipendenti Imperatori. La moneta di rame, di argento, e di oro si coniava in suo nome; essa prese i titoli di Augusta e di Madre degli eserciti: il suo potere finì solamente colla sua vita; ma fu questa forse accorciata dalla ingratitudine di Tetrico49.

A. D. 271

Quando ad istigazione dell'ambiziosa sua protettrice assunse Tetrico le regie insegne, egli era Governatore della tranquilla provincia dell'Aquitania, impiego convenevole al suo carattere ed alla sua educazione. Egli regnò per quattro o cinque anni sulla Gallia, sulla Spagna e sulla Britannia, schiavo e Sovrano di un licenzioso esercito, ch'egli temeva, e dal quale era sprezzato. Il valore e la fortuna di Aureliano gli aprirono finalmente la strada alla libertà. Egli si arrischiò a svelare la trista sua situazione, e scongiurò l'Imperatore di affrettarsi a soccorrere il suo infelice rivale. Questa segreta corrispondenza, se fosse giunta all'orecchie dei soldati, molto probabilmente avrebbe costato a Tetrico la vita; nè poteva egli deporre lo scettro dell'Occidente senza commettere un atto di tradimento contro se stesso. Egli finse che vi fosse apparenza di una guerra civile, condusse in campo le sue forze contro Aureliano, le ordinò nella maniera più svantaggiosa, svelò i suoi propri consigli al nemico, e con pochi scelti amici disertò sul principio dell'azione. Le ribelli legioni, benchè disordinate e sconcertate dall'inaspettato tradimento del loro Capo, si difesero però con disperato valore, finchè furono quasi tutte tagliate a pezzi in quella sanguinosa e memorabil battaglia, che seguì vicino a Chalons nella Sciampagna50. La ritirata degli ausiliari irregolari Franchi e Batavi51, che il vincitore presto costrinse o persuase a ripassare il Reno, ristabilì l'universale tranquillità, e l'autorità di Aureliano fu riconosciuta dalla muraglia d'Antonino alle colonne d'Ercole.

Fino dal regno di Claudio la Città di Autun, sola e senza soccorso, avea osato dichiararsi contro le legioni della Gallia. Dopo un assedio di setto mesi esse rovinarono e saccheggiarono quella sfortunata città già desolata dalla fame52. Lione, al contrario, avea resistito con ostinata avversione alle armi di Aureliano. Si legge il castigo di Lione53, ma non si trovano mentovate le ricompense di Autun. Tale in verità è la politica della guerra civile, ricordarsi severamente delle ingiurie, ed obbliare i più importanti servigi. La vendetta è proficua, la gratitudine è dispendiosa.

A. D. 272

Appena Aureliano si fu assicurato della persona e delle province di Tetrico, rivolse le sue armi contro Zenobia, quella celebre Regina di Palmira e dell'Oriente. L'Europa moderna ha prodotte varie femmine illustri, che hanno sostenuto con gloria il peso del regno; nè il nostro secolo è privo di sì distinti caratteri. Ma, eccettuando le dubbie imprese di Semiramide, Zenobia è forse l'unica donna, il cui genio superiore si sia sollevato dalla servile indolenza, imposta al suo sesso dal clima e dai costumi dell'Asia54. Essa vantava la sua origine dai Re Macedoni dell'Egitto, uguagliava in bellezza la sua antenata Cleopatra, e superava d'assai questa Principessa nella castità55 e nel valore. Era Zenobia stimata la più amabile e la più eroica del suo sesso. Era di carnagione bruna (giacchè parlando di una Signora queste piccole cose divengono importanti); i suoi denti erano di una bianchezza di perla, e ne' suoi grandi e neri occhi scintillava un insolito fuoco, temperato dalla più lusinghiera dolcezza. Forte ed armoniosa aveva la voce. Il suo maschio intelletto era rinvigorito ed adornato dallo studio. Non era ella ignara della lingua Latina, e possedeva con ugual perfezione il linguaggio Greco, l'Egiziano e il Siriaco. Avea disteso per suo proprio uso un Epitome della Storia Orientale, e familiarmente paragonava le bellezze di Omero e di Platone dietro la scorta del sublime Longino.

Questa perfetta donna sposò Odenato, che dalla condizione di privato s'innalzò alla Sovranità dell'Oriente. Divenne essa ben tosto amica e compagna di quest'Eroe. Negl'intervalli della guerra si dilettava Odenato estremamente della caccia; egli inseguiva con ardore le fiere dei deserti, leoni, pantere ed orsi; e l'ardor di Zenobia in quel pericoloso divertimento non era punto inferiore. Avea essa avvezzato il suo temperamento alla fatica, sdegnava l'uso di un cocchio coperto, compariva ordinariamente a cavallo in abito militare, e marciava talvolta per molte miglia a piedi alla testa delle sue truppe. I felici successi di Odenato furono attribuiti in gran parte all'incomparabile di lei prudenza e valore. Le illustri loro vittorie sopra il gran Re, che per due volte perseguitarono fino alle porte di Ctesifone, gettarono i fondamenti della comune lor fama e potenza. Le armate, ch'essi comandavano, e le Province ch'aveano salvate, non riconoscevano per Sovrani che i due lor Capi invincibili. Il Senato e il popolo Romano riverivano uno straniero, che vendicato avea il prigioniero loro Imperatore, e l'insensibil figlio di Valeriane riconobbe perfino Odenato come suo collega legittimo.

 

A. D. 267

Dopo una felice spedizione contro i Goti, devastatori dell'Asia, il Principe di Palmira ritornò alla Città di Emesa nella Siria. Invincibile nella guerra, fu ivi ucciso per domestico tradimento, ed il suo favorito divertimento della caccia fu la cagione, o l'occasione almeno della sua morte56. Il suo nipote Meonio pretese di lanciare il suo dardo prima di quel dello zio; e benchè avvertito del fallo, ripetè la medesima insolenza. Fu Odenato irritato come Monarca e come cacciatore: tolse egli al temerario giovane il cavallo, segno d'ignominia tra i Barbari, e lo castigò con un breve confine. Fu presto dimenticata l'offesa, ma non il castigo; e Meonio con pochi arditi congiurati in mezzo ad una gran festa assassinò il suo zio. Erode, figlio di Odenato, benchè non di Zenobia, giovane di carattere dolce ed effemminato57 fu ucciso col padre. Ma Meonio altro non ottenne con questo sanguinoso misfatto, che il piacere di vendicarsi. Ebbe appena tempo di prendere il nome di Augusto, avanti che lo sacrificasse Zenobia alla memoria del suo consorte58.

Con l'assistenza de' suoi più fidi amici essa occupò immediatamente il trono vacante, e governò per più di cinque anni coi suoi virili consigli Palmira, la Siria e l'Oriente. Colla morte di Odenato spirava quell'autorità, che il Senato avea ad esso conceduta soltanto come una personal distinzione; ma la guerriera sua Vedova, disprezzando il Senato e Gallieno, costrinse uno de' Generali Romani, mandato contro di lei, a ritirarsi nell'Europa con la perdita dell'esercito e della sua fama59. In vece di piccole passioni, che agitano così spesso un regno femminile, la salda amministrazione di Zenobia era regolata dalle più giudiziose massime di politica: se era espediente il perdonare, sapeva essa colmare il suo risentimento: se necessario era punire sapeva impor silenzio alle voci della pietà. L'esatta sua economia tacciata fu di avarizia; pure in ogni conveniente occasione si mostrava e magnifica e liberale. I vicini Stati dell'Arabia, dell'Armenia e della Persia temerono la sua inimicizia, e domandarono la sua alleanza. Ai dominj di Odenato, che si estendevano dall'Eufrate alle frontiere della Bitinia, la di lui Vedova aggiunse l'eredità de' suoi antenati, il popolato e fertil regno d'Egitto. L'Imperator Claudio riconobbe il merito di lei, e si contentò, che mentre egli continuava la guerra Gotica, ella sostenesse l'onor dell'Impero in Oriente60. La condotta però di Zenobia fu accompagnata da qualche ambiguità; e non è improbabile, che concepito avesse il disegno di erigere una Monarchia indipendente e nemica. Ella unì alle popolari maniere dei Principi Romani la splendida pompa delle Corti dell'Asia, e pretese da' suoi sudditi le medesime adorazioni, che si prestavano ai successori di Ciro. Dette essa ai suoi figli61 un'educazione Latina, e spesso li presentò alle truppe ornati della Porpora Imperiale. Riservò per se stessa il diadema col magnifico, ma incerto, titolo di Regina dell'Oriente.

A. D. 272

Quando passò Aureliano nell'Asia contro un'avversaria, cui non altro che il sesso render poteva un oggetto di disprezzo, la sua presenza ridusse all'ubbidienza la provincia della Bitinia, già vacillante per le armi e per gl'intrighi di Zenobia62. Avanzandosi alla testa delle legioni egli ricevè la sommissione di Ancira, e pel tradimento di un perfido cittadino fu ammesso in Tiana dopo un assedio ostinato. Il generoso, benchè fiero carattere di Aureliano, abbandonò il traditore al furor dei soldati: una superstiziosa venerazione lo indusse a trattar con clemenza i concittadini del filosofo Apollonio63. Rimase Antiochia deserta al suo avvicinarsi, finchè l'Imperatore con salutevoli editti richiamò i fuggitivi, ed accordò un general perdono a tutti quelli, che per necessità piuttosto che per elezione si erano impegnati al servizio della Regina di Palmira. L'inaspettata moderazione di una tal condotta riconciliò gli animi dei Sirj, e fino alle porte di Emesa i voti dei popoli secondarono il terrore delle armi Imperiali64.

Sarebbe stata Zenobia indegna della sua rinomanza, se avesse indolentemente permesso all'Imperator d'Occidente di avvicinarsi dentro le cento miglia verso la sua Capitale. Il destino dell'Oriente fu deciso in due gran battaglie, tanto simili in quasi tutte le circostanze, che possiamo appena distinguere l'una dall'altra, fuorchè osservando, che la prima seguì vicino ad Antiochia65, e la seconda vicino ad Emesa66. In ambedue, la Regina di Palmira animò gli eserciti con la sua presenza, ed affidò l'esecuzione degli ordini suoi a Zabdas, che già segnalato avea i suoi talenti militari, con la conquista dell'Egitto. Le numerose forze di Zenobia consistevano per la maggior parte in arcieri leggieri ed in cavalleria grave, tutta armata di ferro. I cavalli Mori ed Illirici di Aureliano non poterono resistere all'urto gravissimo dei loro antagonisti. Fuggirono in un vero o simulato disordine; impegnarono i Palmireni in un faticoso inseguimento; gli stancarono con varie piccole scaramucce; e finalmente sconfissero quell'impenetrabile, ma poco agil corpo di cavalleria. L'infanteria leggiera frattanto, quando vote ebbe le faretre, restando senza difesa contro un più stretto assalto, espose i nudi fianchi alle spade delle legioni. Aureliano avea scelto queste truppe veterane ch'erano ordinariamente accampate sulle rive del Danubio superiore, ed il valor delle quali era stato severamente provato nella guerra Alemannica67. Fu impossibile a Zenobia, dopo la disfatta di Emesa, di radunare una terza armata. Fino alle frontiere dell'Egitto le nazioni soggette al suo Impero si erano poste sotto l'insegna del vincitore, che mandò Probo, il più valoroso dei suoi Generali, ad impadronirsi delle province egiziane. Palmira fu l'ultimo asilo della vedova di Odenato. Ritiratasi dentro le mura della sua Capitale, fece ogni preparativo per una vigorosa resistenza, e dichiarò con l'intrepidezza di una Eroina, che l'ultimo momento del suo regno lo sarebbe ancora della sua vita.

In mezzo agli sterili deserti dell'Arabia s'innalzano alcuni pochi pezzi di coltivati terreni, quasi isole di quell'Oceano arenoso. Il nome stesso di Tadmor, o Palmira, nella lingua siriaca e nella latina denotava una moltitudine di palme, che davano ombra e verdura a quella temperata regione. Pura era l'aria; ed il suolo, irrigato da alcuni piccoli ruscelli, era capace di produrre frutti e grano. Un luogo, fornito di vantaggi tanto singolari, e situato in giusta distanza68 tra il golfo Persico ed il Mediterraneo, fu presto frequentato dalle carovane, che portavano alle nazioni Europee una considerabil porzione delle ricche merci dell'India. Palmira divenne insensibilmente una doviziosa ed indipendente città, ed unendo le Monarchie dei Romani e dei Parti cogli scambievoli vantaggi del commercio, potè conservare un'umile indipendenza, finchè alla fine dopo le vittorie di Traiano cadde quella piccola Repubblica in poter di Roma, e fiorì per più di centocinquanta anni nell'onorifico, ma subordinato grado di colonia. Durante questo pacifico periodo, se giudicar si può da poche iscrizioni rimasteci, gli opulenti Palmireni costruirono quei tempj, quei palazzi, quei portici di greca architettura, le cui rovine, sparse per l'estensione di varie miglia, hanno meritata la curiosità dei nostri viaggiatori. Parve che l'esaltazione di Odenato e di Zenobia aggiungesse nuovo splendore alla sua patria, e Palmira per un tempo stette rivale di Roma: ma fu la gara fatale, e molti secoli di prosperità furono sacrificati ad un momento di gloria69.

Nella sua marcia sull'arenoso deserto tra Emesa e Palmira fu Aureliano continuamente infestato dagli Arabi, nè potè sempre difendere il suo esercito, e specialmente il suo bagaglio da quelle volanti truppe di ladri attivi ed arditi, i quali aspettavano il momento della sorpresa, e deludevano il lento perseguire delle legioni. L'assedio di Palmira fu un oggetto assai più pericoloso ed importante, e l'Imperatore istesso, che con continuo vigore animava in persona gli assalti, venne ferito da un dardo. «Il popolo Romano» (dice Aureliano in una lettera originale) «parla con disprezzo della guerra, che io sostengo contro una donna. Egli non conosce il carattere, nè la potenza di Zenobia. È impossibile di enumerare i suoi bellici preparativi di pietre, di dardi, e di ogni sorta di armi lanciabili. Ogni parte delle mura è munita di due o tre baliste, e dalle sue macchine militari escono fuochi artificiali. Il timor del castigo l'ha armata di un disperato coraggio. Pure io confido tuttavia nelle Deità protettrici di Roma, che sono finora state favorevoli ad ogni mia impresa70». Incerto però della protezione degli Dei e dell'esito dell'assedio, Aureliano stimò più prudente consiglio di offerire articoli di una vantaggiosa capitolazione; alla Regina, un magnifico ritiro; ai Cittadini, i loro antichi privilegi. Furono rigettate ostinatamente le sue offerte, e dall'insulto fu accompagnato il rifiuto.

La costanza di Zenobia era sostenuta dalla speranza, che in breve la fame costringerebbe l'esercito Romano a ripassare il deserto; e dalla ragionevole aspettativa, che i Re dell'Oriente, e specialmente il Monarca Persiano, si armerebbero in difesa della loro più naturale alleata. Ma la fortuna e la perseveranza di Aureliano superarono ogni ostacolo. La morte di Sapore, che accadde verso quel tempo71, divise i Consigli della Persia, ed i piccoli soccorsi, co' quali si tentò di sollevare Palmira, furono facilmente intercetti o dalle armi, o dalla liberalità dell'Imperatore. Da ogni parte della Siria, una regolar successione di convogli arrivava sicuramente al campo, che fu aumentato pel ritorno di Probo colle vittoriose sue truppe dalla conquista dell'Egitto. Allora fu che Zenobia risolvè di fuggire. Montò essa sul più veloce de' suoi dromedari72, ed era ormai giunta alle rive dell'Eufrate, quasi sessanta miglia da Palmira, quando fu sopraggiunta dai cavalli leggieri di Aureliano, che l'inseguivano, e presa e ricondotta indietro cattiva ai piedi dell'Imperatore. Subito dopo si arrese la sua Capitale, e fu trattata con inaspettata dolcezza. Le armi, i cavalli e i cammelli, con un immenso tesoro di oro, di argento, di seta e di pietre preziose, tutto fu dato al vincitore, che lasciando solamente una guarnigione di seicento arcieri, ritornò ad Emesa, ed impiegò qualche tempo in distribuire e premj e castighi nel fine di una guerra sì memorabile, la quale restituiva all'ubbidienza di Roma quelle Province, che fino dalla prigionia di Valeriano se n'eran sottratte.

Quando la Regina della Siria fu condotta alla presenza di Aureliano, questi le domandò fieramente, come avesse preteso di armarsi contro gl'Imperatori di Roma? La risposta di Zenobia fu una prudente mescolanza di rispetto e di fermezza. «Perché io sdegnava di riguardare un Aureolo, ed un Gallieno come Imperatori Romani. Riconosco voi solo per mio vincitore e Sovrano73». Ma siccome la fortezza nelle femmine è comunemente artificiale, così rare volte è stabile e consistente. Il coraggio di Zenobia la abbandonò nell'ora del cimento, ella tremò ai rabbiosi clamori de' soldati, che alto chiedevan l'immediata sua morte, obbliò la generosa disperazione di Cleopatra, che si era proposta per suo modello, ed ignominiosamente comprò la vita col sacrifizio della sua fama e dei suoi amici. Ai loro consigli, che governavano la debolezza del suo sesso, essa imputò la colpa dell'ostinata sua resistenza, e sopra le loro teste cader fece la vendetta del crudele Aureliano. La fama di Longino, che fu incluso tra le numerose, e forse innocenti vittime del di lei timore, sopravviverà a quella della Regina, che lo tradì, o del tiranno che lo condannò. La dottrina e l'ingegno erano incapaci di muovere un feroce ed ignorante soldato, ma aveano servito ad elevare ed armonizzare l'animo di Longino. Senza mandare un gemito, seguì egli tranquillamente il carnefice, compiangendo la sua infelice Sovrana, e consolando gli afflitti suoi amici74.

Nel ritornare dalla conquista dell'Oriente, avea Aureliano già attraversato lo Stretto che divide l'Europa dall'Asia, quando fu irritato dalla notizia che i cittadini di Palmira aveano trucidato il Governatore e la guarnigione da esso ivi lasciata, ed inalberata di nuovo l'insegna della ribellione. Senza deliberare un momento egli volse un'altra volta la faccia verso la Siria. Antiochia fu spaventata dalla rapida di lui marcia, e la misera città di Palmira provò l'irresistibile peso del suo risentimento. Abbiamo una lettera di Aureliano medesimo, nella quale egli confessa75, che i vecchi, le donne, i fanciulli e gli agricoltori furono involti in quella terribile esecuzione, la quale avrebbe dovuto ristringersi ai soli armati ribelli; e benchè il suo principale interesse sembri diretto al ristauramento di un tempio del Sole, egli mostra qualche compassione pel rimanente dei Palmireni, ai quali concede la permissione di rifabbricare ed abitare la loro città. Ma è più facile distruggere che ristaurare. La sede del commercio, delle arti, e di Zenobia, divenne a poco a poco un'oscura città, una Fortezza di niun conto, e finalmente un miserabil villaggio. Gli attuali cittadini di Palmira, consistenti in trenta o quaranta famiglie, hanno eretto le fangose loro capanne dentro lo spazioso recinto di un magnifico Tempio.

Un'altra ed ultima fatica si preparava all'instancabile Aureliano, di opprimer cioè un pericoloso, benchè oscuro ribelle, che, durante la sollevazion di Palmira, era insorto sulle rive del Nilo. Fermo, amico ed alleato, com'egli stesso superbamente s'intitolava, di Odenato e Zenobia, altro non era che un ricco mercante dell'Egitto. Nel corso del suo commercio nell'India, egli avea stretto amicizia coi Saraceni e coi Blemmi, la cui situazione sull'una e l'altra costa del mar Rosso porgeva loro una facile introduzione nell'Egitto superiore. Egli infiammò gli Egiziani con la speranza della libertà; ed alla testa di quella furiosa moltitudine entrò a forza nella città di Alessandria, dove prese la Porpora Imperiale, fece batter moneta, pubblicò editti, e levò un'armata, che com'egli vanamente vantavasi, potea mantenere col solo profitto del commercio della carta. Tali truppe furono una debol difesa contro Aureliano; e sembra quasi inutile di riferire che Fermo fu sconfitto, preso, tormentato e posto a morte. Poteva allora Aureliano rallegrarsi col Senato, col popolo e con sè stesso, che in poco più di tre anni avea restituito la pace e l'ordine universale al mondo Romano76.

A. D. 274

Dalla fondazione di Roma in poi, niun Generale avea più degnamente di Aureliano meritato un trionfo; nè mai trionfo alcuno fu celebrato con maggior fasto e magnificenza77. Cominciava la pompa con venti elefanti, quattro tigri reali e più di dugento de' più curiosi animali di ogni clima del Settentrione, dell'Oriente e del Mezzogiorno. Erano questi seguitati da milleseicento gladiatori, destinati al crudel divertimento dell'anfiteatro. Le ricchezze dell'Asia, le armi e le insegne di tante vinte nazioni, e la magnifica argenteria e guardaroba della Regina della Siria eran disposte in esatta simmetria o con artificioso disordine. Gli Ambasciatori delle più lontane parti della terra, dell'Etiopia, dell'Arabia, della Persia, della Battriana, dell'India e della China, tutti riguardevoli per i loro ricchi o singolari vestimenti, mostravano la fama e la potenza del Romano Imperatore, che espose parimente alla pubblica vista i doni da lui ricevuti, e particolarmente un gran numero di corone d'oro, offerte dalle riconoscenti città. Le vittorie di Aureliano erano attestate dal lungo treno di schiavi Goti, Vandali, Sarmati, Alemanni, Franchi, Galli, Sirj ed Egizj, che lor malgrado ne seguitavano il trionfo. Ogni popolo era distinto colla sua particolare iscrizione, ed il titolo di Amazzoni fu dato a dieci marziali Eroine della nazione Gotica, che prese furon con le armi in mano78. Ma tutti gli occhi, senza curare la moltitudine dei prigionieri, erano fissi sull'Imperator Tetrico, e sulla Regina dell'Oriente. Il primo, insieme col suo figliuolo da lui creato Augusto, portava delle bracche all'uso dei Galli79, una tunica gialla ed una veste di porpora. La bella Zenobia era avvinta da ceppi d'oro; una schiava sosteneva l'aurea catena, che circondava il di lei collo, ed ella quasi sveniva sotto l'intollerabil peso dei gioielli. Essa precedeva a piedi il magnifico cocchio, sul quale aveva sperato una volta di entrare nelle porte di Roma. Era questo seguito da due altri cocchi, ancor più magnifici, di Odenato e del Monarca Persiano. Il carro trionfale di Aureliano (avea questo per l'avanti servito ad un Re Goto) era tirato in quella memorabile occasione o da quattro cervi o da quattro elefanti80. I più illustri fra i Senatori, il popolo e l'esercito chiudevano la processione solenne. Una sincera gioia, la maraviglia e la gratitudine aumentavano le acclamazioni della moltitudine; ma la soddisfazione dei Senatori era amareggiata della comparsa di Tetrico; nè poterono impedire un mormorio, in vedere che il superbo Imperatore esponesse così alla pubblica ignominia la persona di un Romano e di un Magistrato81.

Ma benchè, nel trattamento de' suoi infelici rivali, soddisfacesse Aureliano la propria superbia, mostrò per essi tuttavia una generosa clemenza, raramente esercitata dagli antichi vincitori. I Principi, che con infelice successo aveano difeso il lor trono, o la lor libertà, erano sovente strangolati in prigione, subito che la pompa trionfale saliva sul Campidoglio. A questi usurpatori, la cui disfatta gli avea convinti del delitto di tradimento, fu permesso di passare la vita nell'opulenza, ed in un onorevol riposo. L'Imperatore regalò a Zenobia una bellissima villa a Tibure ovvero Tivoli, lontana quasi venti miglia dalla Capitale; la Regina della Siria divenne a poco a poco una Matrona Romana; le figliuole di lei si maritarono con persone di famiglie nobili, e la sua discendenza non era ancora estinta nel quinto secolo82. Tetrico ed il suo figliuolo furono ristabiliti nel loro grado e nei loro beni. Eressero sul Monte Celio un magnifico palazzo, ed appena fu terminato, invitarono a cena Aureliano. Fu egli al suo ingresso dilettevolmente sorpreso da un quadro rappresentante la loro singolare istoria. Erano essi dipinti, prima in atto di offrire all'Imperatore una corona civica e lo scettro della Gallia, e di poi in atto di ricever dalle mani di lui gli ornamenti della Dignità Senatoria. Ebbe quindi il padre il governo della Lucania83, ed Aureliano, che presto ammesse il deposto Monarca alla sua amicizia e conversazione, familiarmente gli domandò, se non era più desiderabile l'amministrare una Provincia dell'Italia, che il regnare di là dall'Alpi? Il figliuolo continuò lungamente ad essere un rispettabil membro del Senato; nè vi fu alcuno tra la Nobiltà Romana più stimato da Aureliano, e dai successori di lui84.

32Stor. Aug. p. 215.
33Dexippo p. 12.
34Vittore Juniore in Aureliano.
35Vopisco nelle Stor. Aug. p. 216.
36Il piccol fiume o piuttosto torrente del Metauro, vicino a Fano, è divenuto immortale per uno Storico, quale è Livio, ed un poeta, quale è Orazio.
37Se ne fa menzione in una iscrizione trovata in Pesaro. Vedi Gruter. CCLXXVI. 3.
38Alcun penserebbe, dic'egli, che voi foste radunati in una Chiesa Cristiana, e non nel tempio di tutti gli Dei.
39Vopisco nella Stor. Aug. p. 215, 216 fa una lunga descrizione di queste cerimonie, estratta dai Registri del Senato.
40Plinio Stor. nat. III. 5. Per confermare la nostra idea, è da osservarsi, che per lungo tempo il monte Celio fu un bosco di quercie, ed il monte Viminale fu coperto di salci; che nel quarto secolo l'Aventino era un disabitato e solitario ritiro; che fino al tempo di Augusto l'Esquilino rimase un insalubre cimitero; e che le numerose ineguaglianze, osservate dagli antichi nel Quirinale, provano sufficientemente, che non era coperto di fabbriche. Dei Sette Colli, il Capitolino ed il Palatino solamente, con la valli adiacenti, furono la primiera abitazione del popolo Romano. Ma questo soggetto richiederebbe una dissertazione.
41Exspatiantia tecta multas addidere urbes, è l'espressione di Plinio.
42Stor. Aug. p. 222. Lipsio, ed Isacco Vossio hanno di buona voglia adottata questa misura.
43Ved. Nardini Roma antica, l. I. c. 8.
44Tacito Stor. IV. 23.
45Intorno alla muraglia di Aureliano, vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 216, 222. Zosimo, l. I. p. 43. Eutrop. IX 15. Aurel. Vittore in Aureliano, Vittore Juniore in Aureliano, Euseb. Hieronym. e Idazio in Chronic.
46Il suo competitore fu Lolliano o Eliano, se veramente questi due nomi indicano la stessa persona. Ved. Tillemont, tom. III. p. 1177.
47Il carattere che fa di questo Principe Giulio Ateriano (appresso la Stor. Aug. p. 187) merita di esser trascritto, giacchè sembra bello ed imparziale: «Victorino qui post Junium Posthumium Gallias rexit, neminem existimo praeferendum; non in virtute Traianum; non Antoninum in clementia; non in gravitate Nervam; non in gubernando aerario Vespasianum, non in censura totius vitae ac severitate militari Pertinacum vel Severum. Sed omnia haec libido et cupiditas voluptatis mulierariae sic perdidit, ut nemo audeat virtute ejus in litteras mittere, quem constat omnium judicio meruisse puniri».
48Egli rapì la moglie di Attiziano, attuario, o agente dell'esercito. Stor. Aug. p. 186. Aurel. Vittore in Aureliano.
49Pollione assegna ad essa un articolo fra i trenta Tiranni. Stor. Aug. p. 206.
50Pollione nella Stor. Aug. p. 196. Vopisco nella Stor. Aug. p. 220. I due Vittori nelle vite di Gallieno e di Aureliano; Eutropio, IX. 13. Euseb. in Chron. Di tutti questi Scrittori solamente i due ultimi (ma con gran probabilità) pongono la caduta di Tetrico innanzi a quella di Zenobia. Il Sig. di Boze (nell'Accademia delle Iscrizioni tom. XXX) non vorrebbe, e Tillemont (tom. III. p. 1189) non ardisce seguitarli. Io sono stato più sincero dell'uno, e più ardito dell'altro.
51Vittore Juniore in Aurel. Eumenio nomina queste truppe Batavicae; alcuni critici senza alcuna ragione vorrebbero cambiar quella voce in Bagaudicae.
52Eumen. in vel. Panegir. IV. 8.
53Vopisco nella Stor. Aug. p. 246. Autun non fu ristaurata fino al regno di Diocleziano: Ved. Eumenio de restaurandis scholis.
54Quasi tutto quel che si dice dei costumi di Odenato e di Zenobia, è preso dalle loro vite nella Stor. Aug. di Trebellio Pollione. Vedi p. 192, 198.
55Essa non riceveva mai gli abbracciamenti del suo marito che per l'oggetto di aver prole. Se le sue speranze restavan deluse, reiterava il tentativo nel susseguente mese.
56Stor. Aug. p. 192, 193. Zosimo l. I. p. 36. Zonara, l. XII. p. 633. L'ultimo è chiaro e probabile; sono gli altri confusi e inconsistenti. Il testo di Sincello, se non è coretto, è assolutamente inintelligibile.
57Odenato e Zenobia spesso gli mandavano doni di gemme e gioielli, scelte tra le spoglie del nemico, ed esso li riceveva con infinito piacere.
58Sono stati promossi alcuni ingiustissimi sospetti sopra Zenobia, come se stata fosse complice dell'uccisione del marito.
59Stor. Aug. p. 180, 181.
60Vedi nella Stor. Aug. p. 198 la testimonianza che rende Aureliano al di lei merito; e per la conquista dell'Egitto Zosimo l. I, p. 39, 40.
61Timolao, Erenniano e Vaballato. Si suppone che i due primi fosser già morti avanti la guerra. Aureliano concesse all'ultimo di questi una piccola Provincia dell'Armenia col titolo di Re. Esistono tuttora diverse medaglie di lui. Vedi Tillemont, tom. III. p. 1190.
62Zosimo l. I, p. 44.
63Vopisco (nella Stor. Aug. p. 217) ci dà una lettera autentica, ed una dubbia visione di Aureliano. Apollonio di Tiana era nato quasi contemporaneamente a Gesù Cristo. La vita del primo vien riferita dai suoi discepoli in un modo tanto favoloso, che non si può conoscere se fosse un savio, un impostore, od un fanatico.
64Zosimo, l. I. p. 46.
65In un luogo chiamato Immoe, Eutropio, Sesto Ruffo e S. Girolamo fanno solamente menzione di questa prima battaglia.
66Vopisco nella Stor. Aug. p. 217 fa solamente menzione della seconda.
67Zosimo l. I. p. 44, 48. La sua descrizione delle due battaglie è chiara e circostanziata.
68Era 537 miglia distante da Seleucia, e dugentotre dalla più vicina costa della Siria, secondo la relazione di Plinio, che in poche parole (Stor. nat. V. 21) ne porge una eccellente descrizione di Palmira.
69Alcuni viaggiatori Inglesi che partirono da Aleppo, scoprirono le rovine di Palmira verso il fine dell'ultimo secolo. La nostra curiosità è stata poi soddisfatta più splendidamente dai Signori Wood e Dawkins. Per la Storia di Palmira possiam consultare la magistrale dissertazione del Dottor Halley nelle Transazioni Filosofiche, compendio di Lowthorp. vol. III. p. 528.
70Vopisco nella Stor. Aug. p. 218.
71Da una incertissima Cronologia ho procurato di estrarre la data più probabile.
72Stor. Aug. p. 218. Zosimo, l. I. p. 50. Benchè il cammello sia una grave bestia da soma, pure il dromedario, che è della stessa specie o di una specie affine, vien usato dai natii dell'Asia e dell'Affrica in tutte le occasioni che richieggono celerità. Affermano gli Arabi che il dromedario può far tanto cammino in un giorno, quanto ne fanno in otto o dieci giorni i loro cavalli più corridori. Vedi Buffon. Storia nat. tom. XI. p. 122, ed i Viaggi di Shaw, p. 167.
73Pollione nella Stor. Aug. p. 299.
74Vopisco nella Stor. Aug. p. 219. Zosimo, l. I. p. 51.
75Stor. Aug. p. 219.
76Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 220, 242. Viene osservato, come esempio di lusso, ch'egli avea le finestre di vetro. Era famoso per la forza e per l'appetito, pel coraggio e per la destrezza. Dalla lettera di Aureliano si può giustamente inferire, che Fermo fu l'ultimo dei ribelli, e conseguentemente che Tetrico era già sottomesso.
77Vedi il trionfo di Aureliano descritto da Vopisco. Egli riferisce le particolarità colla sua solita esattezza, ed in questa occasione sono fortunatamente interessanti. Stor. Aug. p. 220.
78Fra le barbare nazioni, le donne hanno spesso combattuto ai fianchi dei loro mariti. Ma è quasi impossibile, che una società di Amazzoni sia mai esistita o nel vecchio o nel nuovo mondo.
79L'uno delle braccae o calzoni era tuttavia considerato in Italia come una gallica e barbara moda. I Romani per altro vi si erano molto avvicinati. Il cingersi le gambe e cosce con fasce o strisce, si prendeva ai tempi di Pompeo e di Orazio, come una prova di malattia, o di effemminatezza. Nel secolo di Traiano l'uso di queste era limitato alle persone ricche e di lusso. Fu a poco a poco adottato dai più vili del popolo. Vedi una curiosa nota del Casaubono, ad Sveton. in August. c. 82.
80Erano i primi, assai probabilmente; i secondi nelle medaglie di Aureliano non indicano (come giudica il dotto Cardinal Noris) che una vittoria orientale.
81L'espressione di Calfurnio (Eglog. l. 50.) «Nullos ducet captiva triumphos» come applicata a Roma, contiene una manifestissima allusione e censura.
82Vopisco nella Stor. Aug. p. 199. Hieronym. in Chron. Prosper. in Chron. Baronio suppone che Zenobio, vescovo di Firenze ai tempi di S. Ambrogio, fosse della famiglia di lei.
83Vopisco nella Stor. Aug. p. 222. Eutropio, IX. 13. Vittore Juniore. Ma Pollione nella Stor. Aug. p. 196 dice che Tetrico fu fatto Censore di tutta l'Italia.
84Stor. Aug. p. 197.
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