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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2

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La vacanza del trono non produsse sconcerto veruno. L'ambizione dei Generali fu repressa dai loro vicendevoli timori, ed il giovane Numeriano, ed il suo fratello assente, Carino, furono di comun consenso riconosciuti Imperatori di Roma. Il Pubblico sperava che il successore di Caro seguitasse le vestigia del padre, e senza lasciar che i Persiani si riavessero dalla loro costernazione, entrasse colla spada alla mano nei palazzi di Susa e di Ecbatana173. Ma le legioni, benchè numerose e disciplinate, furono atterrite dalla più vile superstizione. Non ostanti tutti gli artifizi posti in uso per nascondere qual fosse stata la morte dell'ultimo Imperatore, fu impossibile di distruggere l'opinione della moltitudine, ed è insuperabile la forza della opinione. I luoghi o le persone colpite dal fulmine erano riguardate dagli antichi con religioso orrore, come singolarmente consacrate all'ira del cielo174. Fu allora rammentato un oracolo, che indicava il fiume Tigri, come il confine fatale delle armi Romane. Le truppe, atterrite dal destino di Caro e dal lor proprio pericolo, altamente gridarono al giovane Numeriano, che ubbidisse al voler degli Dei, e le conducesse fuori di quell'infausto teatro di guerra. Non seppe il debole Imperatore vincere l'ostinato lor pregiudizio, ed i Persiani videro con stupore l'improvvisa ritirata di un vittorioso nemico175.

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La nuova della misteriosa morte dell'ultimo Imperatore fu presto portata dalle frontiere della Persia a Roma; ed il Senato non meno che le Province si congratularono co' figliuoli di Caro del loro avvenimento al trono. Mancava per altro a questi giovani fortunati quella nota superiorità o di nascita o di merito, che sola può render facile il possesso di un trono, come se fosse naturale. Nati ed educati in condizione privata, furono per l'elezione del padre innalzati in un momento alla dignità di Principi; e la morte di lui, seguita quasi sedici mesi dopo, lasciò ad essi l'inaspettata eredità di un vasto Impero. Si richiedeva una virtù e prudenza non ordinaria per sostener con moderazione questo rapido innalzamento; e Carino, il maggiore de' fratelli, era più che all'ordinario privo di queste due qualità. Aveva egli nella guerra della Gallia mostrato qualche grado di valor personale176, ma dal momento del suo arrivo in Roma si abbandonò al lusso della Capitale, ed all'abuso della sua fortuna. Egli era effemminato e ad un tempo crudele; dedito al piacere, ma privo di buon gusto; e benchè vano all'estremo, non curante della pubblica stima. Nel corso di pochi mesi successivamente sposò o ripudiò nove mogli, molto delle quali lasciò gravide; e nonostante questa incostanza, autorizzata dalle leggi, trovò tempo di soddisfare tanti irregolari appetiti, che disonorò se stesso e le più nobili famiglie di Roma. Egli riguardava con odio implacabile tutti coloro, che potean rammentarsi l'antica sua oscurità, o censurare la sua presente condotta. Condannò all'esilio o alla morte gli amici ed i consiglieri, che il padre gli avea posti attorno per guidare l'inesperta sua giovinezza; e perseguitò colla più vile vendetta i suoi condiscepoli e compagni, che non aveano abbastanza rispettata la nascosta maestà dell'Imperatore. Coi Senatori, Carino affettava un superbo e regio contegno, frequentemente dichiarando che aveva idea di distribuire i loro beni alla plebaglia di Roma. Dalla feccia della medesima scelse i suoi favoriti, e fino i suoi ministri. Il palazzo e la tavola stessa Imperiale era piena di musici, di ballerini, di donne prostituite, e di tutto il vario corteggio del vizio e della follìa. Ad uno dei suoi Portieri177 affidò il governo della Città. Al Prefetto del Pretorio, da lui messo a morte, Carino sostituì uno de' ministri de' suoi più vili piaceri. Un altro, che possedeva l'istesso, o ancora un più infame diritto al favore di lui, fu rivestito del Consolato. Un Segretario di confidenza, che avea acquistata la rara abilità di contraffare lo scritto, liberò l'indolente Imperatore, col consenso di lui, dal molesto dovere di segnare il suo nome.

Quando l'Imperator Caro cominciò la guerra di Persia, fu indotto da motivi di affetto, non meno che di politica, ad assicurare la sorte della sua famiglia, lasciando nelle mani del suo maggior figliuolo le armate e le Province dell'Occidente. La notizia, ch'egli ricevè ben tosto della condotta di Carino, lo ricolmò di vergogna e di dolore; nè avea egli celata la sua risoluzione di soddisfare la Repubblica con un severo atto di giustizia, o di adottare in luogo di un indegno figliuolo, il valoroso e virtuoso Costanzo, ch'era allora Governatore della Dalmazia. Ma l'innalzamento di questo fu per un tempo differito, ed appena che la morte di un Padre ebbe liberato Carino dal freno del timore o del rispetto, egli mostrò ai Romani le stravaganze di Elagabalo, accompagnate dalla crudeltà di Domiziano178.

Il solo merito del Regno di Carino, che la storia possa ricordare, e la poesia celebrare, fu l'insolito splendore, col quale in nome suo e del fratello egli festeggiò i giuochi Romani del teatro, del circo e dell'anfiteatro. Più di venti anni dopo, quando i cortigiani di Diocleziano rappresentavano al loro frugal Sovrano lo splendore e la popolarità del magnifico suo predecessore, egli confessò, che il regno di Carino era veramente stato un regno di piacere179. Ma il Popolo Romano godeva con sorpresa e con trasporto di questa vana prodigalità, che la prudenza di Diocleziano poteva giustamente disprezzare. I più vecchi cittadini, rammentandosi gli spettacoli dei tempi andati, la pompa trionfale di Probo o di Aureliano, ed i giuochi secolari dell'Imperatore Filippo, confessavano che tutti erano oscurati dalla superiore magnificenza di Carino180.

Gli spettacoli pertanto di Carino non possono esser meglio illustrati che coll'osservazione di alcune particolarità, che la storia si è degnata di riferire, concernenti quelli dei suoi predecessori. Se ci limitiamo solamente alla caccia delle fiere, benchè criticar si possa la vanità dell'idea o la crudeltà dell'esecuzione, siamo costretti a confessare, che nè avanti nè dopo il tempo dei Romani tant'arte o spesa non è mai stata profusa pe' divertimenti del popolo181. D'ordine di Probo fu trapiantata nel mezzo del circo una considerabil quantità di grand'alberi, svelti dalle radici. Fu questa spaziosa e ombrosa foresta immediatamente ripiena di mille struzzi, di mille cervi, di mille daini e di mille cignali; e tutta questa varietà di selvaggiume fu abbandonata allo sfrenato impeto della moltitudine. La tragedia del giorno susseguente consistè nella strage di cento leoni, di cento leonesse, di dugento leopardi e di trecento orsi182. Gli animali raccolti e preparati dal più giovane Gordiano pel suo trionfo, e che il suo successore fece vedere nei giuochi secolari, erano meno ragguardevoli pel loro numero, che per la loro singolarità. Venti zebre mostrarono le loro eleganti forme e le belle liste del lor mantello agli occhi del Popolo Romano183. Dieci alci ed altrettante giraffe, i più alti e i più mansueti animali, ch'errino per le pianure della Sarmazia e dell'Etiopia, fecero un bel contrasto con trenta jene affricane, e dieci tigri dell'India, le più implacabili belve della Zona torrida. Nel rinoceronte, nell'ippopotamo del Nilo184 ed in una maestosa truppa di trentadue elefanti185 si ammirò l'innocente forza, di cui la natura ha dotato i più grandi tra i quadrupedi. Mentre la plebe guardava con attonita maraviglia quella splendida mostra, il naturalista potea invero osservare la figura e la proprietà di tante specie diverse, trasportate da ogni parte dell'antico mondo nell'anfiteatro di Roma. Ma questo accidental benefizio, che la scienza ricavar potea dalla follìa, non è certamente bastante a giustificare un così smoderato abuso delle pubbliche ricchezze. Si trova per altro un solo esempio nella prima guerra Punica, in cui il Senato combinò saggiamente questo divertimento della moltitudine coll'interesse dello Stato. Un numero considerabile di elefanti fu preso nella disfatta dell'armata Cartaginese, e condotto per uso del circo da pochi schiavi armati soltanto di dardi spuntati186. Servì quest'utile spettacolo ad imprimere nell'animo del soldato Romano un giusto disprezzo per quegli enormi animali, ed egli più non ne paventò l'incontro nelle battaglie.

 

La caccia o la mostra delle fiere era regolata con una magnificenza conveniente ad un popolo, che s'intitolava padrone del mondo; ed era l'edifizio, destinato a questo divertimento, una prova non meno evidente della romana grandezza. La posterità ammira e lungamente ammirerà i magnifici avanzi dell'anfiteatro di Tito, che tanto bene meritò il titolo di Colossale187. Era questo un edifizio di figura ellittica, lungo cinquecentosessantaquattro piedi, e largo quattrocentosessantasette, fabbricato sopra ottanta archi, e che si ergeva con quattro successivi ordini di architettura all'altezza di centoquaranta piedi188. Questo edificio era al di fuori incrostato di marmo, e adorno di statue. Il recinto di quella vasta concavità era ripieno e circondato da sessanta o ottanta ordini di sedili parimente di marmo coperti di cuscini, e capaci di contenere comodamente più di ottantamila spettatori189. Da sessantaquattro vomitatorj (giacchè con questo adattato vocabolo erano distinte le porte) usciva l'immensa moltitudine; e gli ingressi, i corridori, e le scale erano con tal disegno disposte, che qualunque persona dell'ordine o Senatorio o Equestre o Plebeo, giungeva al suo destinato luogo senza disturbo o confusione190. Niente era stato omesso di ciò che in qualche modo potesse servire al comodo, ed al piacere degli spettatori. Li difendea dal Sole e dall'acqua un'ampia tenda, che si tirava, richiedendolo il bisogno, sopra i loro capi. Veniva continuamente rinfrescata l'aria dai getti delle fontane, e profusamente impregnata del grato odore di aromati. Nel centro dell'edifizio, l'arena, o il teatro, era coperto della più fina sabbia, e prendea successivamente le più diverse forme. Ora poteva sorgere dalla terra come il giardino dell'Esperidi, e dopo era rotto in rupi e caverne simili a quelle della Tracia. I sotterranei canali conducevano una quantità inesauribile di acqua; e quel che un momento avanti sembrava un piano ben livellato, poteva improvvisamente cangiarsi in un vasto lago coperto di armate navi, e ripieno dei mostri dell'Oceano191. Nella decorazione di queste scene gl'Imperatori Romani facevano pompa delle loro ricchezze e della lor liberalità, e noi leggiamo che in diverse occasioni tutti gli ornamenti dell'anfiteatro erano o di argento o di oro o di ambra192. Il poeta, che descrive i giuochi di Carino, sotto il carattere di un pastore tratto alla Capitale dalla fama della loro magnificenza, afferma che le reti destinate, come per difesa, contro le fiere, erano di filo d'oro; che i portici erano dorati; e che il balteo o cerchio, che divideva i diversi ordini degli spettatori gli uni dagli altri, era adornato con un prezioso mosaico di bellissime pietre193.

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In mezzo a questa splendida pompa l'Imperatore Carino, sicuro della sua fortuna, godeva delle acclamazioni del popolo, dell'adulazione dei cortigiani e dei canti dei poeti, che in mancanza di un merito più essenziale, eran ridotti a celebrare le grazie divine della persona di lui194. Nell'ora stessa, ma in distanza di novecento miglia da Roma, il suo fratello rendeva lo spirito; ed una subita rivoluzione facea passare nelle mani di uno straniero lo scettro della famiglia di Caro195.

I Figli di Caro non si videro mai fra loro dopo la morte del padre. Le disposizioni, ch'esigeva la loro nuova posizione, erano probabilmente differite fino al ritorno del minor fratello a Roma, dov'era destinato un trionfo ai giovani Imperatori pel glorioso esito della guerra Persiana196. È incerto se avessero idea di divider tra loro il governo, o le province dell'Impero; ma è molto inverisimile che la loro unione dovesse lungamente durare. La gelosia della sovranità sarebbe stata infiammata dalla diversità dei caratteri. Carino era indegno di vivere anche nei tempi più corrotti; Numeriano meritava di regnare in un secolo più felice. Le affabili sue maniere e le sue mansuete virtù gli procacciarono, appena furono conosciute, il rispetto e gli affetti del Pubblico. Egli possedeva le belle doti di poeta e di oratore, che illustrano e adornano la più umile o la più elevata condizione. La sua eloquenza, benchè applaudita dal Senato, era formata più sul modello dei moderni declamatori, che su quello di Cicerone; ma in un secolo molto lontano dall'esser privo del merito poetico, egli ne disputò la palma coi più celebri suoi contemporanei, e rimase tuttavia amico dei suoi rivali; circostanza che dimostra o la bontà del suo cuore, o la superiorità del suo ingegno.197 Ma erano i talenti di Numeriano di un genere più contemplativo che attivo, quando l'innalzamento del padre lo estrasse a forza dall'ombra del suo ritiro; nè il suo carattere, nè i suoi studi lo avean renduto atto a comandare gli eserciti. La sua complessione fu rovinata dalle fatiche della guerra Persiana; ed egli avea contratto pel calore del clima198 una debolezza tale negli occhi, che fu costretto, nel corso di una lunga ritirata, a confinarsi nella solitudine; e nell'oscurità di una tenda o di una lettiga. L'amministrazione di tutti gli affari e militari e civili fu conferita ad Arrio Apro, Prefetto del Pretorio, che alla potenza dell'importante sua carica univa l'onore di esser suocero di Numeriano. Era strettamente guardato il padiglione Imperiale dai suoi più fedeli aderenti, e per molti giorni Apro diede all'armata i supposti ordini dell'invisibile Sovrano199.

 

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Non erano scorsi ancora otto mesi dalla morte di Caro, quando l'esercito Romano, ritornando a lunghe giornate dalle rive del Tigri, arrivò a quelle del Bosforo Tracio. Le legioni fecero alto a Calcedonia nell'Asia, mentre la Corte passava sopra Eraclea sulla costa Europea della Propontide200. Ma si sparse improvvisamente nel campo, prima con segreti bisbigli e finalmente con alti clamori, la voce della morte dell'Imperatore, e della presunzione del suo ambizioso ministro, ch'esercitava tuttavia il potere sovrano in nome di un principe estinto. Non potè l'impazienza dei soldati sopportare più lungamente uno stato d'incertezza. Con insolente curiosità entrarono a forza nella Tenda Imperiale, e vi ritrovarono soltanto il cadavere di Numeriano201. La continua decadenza della salute di lui avrebbe potuto indurli a crederne naturale la morte; ma l'averla celata fu riguardato come una prova di delitto, e le provvisioni, prese da Apro per assicurare la propria elezione, divennero la cagione immediata della sua rovina. Pure, nel trasporto ancora della lor rabbia e del loro dolore, tennero le truppe una regolare condotta, che prova quanto sodamente era stata ristabilita la disciplina dei guerrieri successori di Gallieno. Fu intimata una generale assemblea dell'esercito da tenersi in Calcedonia, dove Apro fu condotto tra i ceppi come prigioniero e delinquente. Fu eretto in mezzo al campo un vuoto tribunale, ed i Generali ed i Tribuni tennero un gran consiglio di guerra. Essi annunziarono ben presto alla moltitudine, che la scelta loro era caduta sopra Diocleziano, comandante delle guardie domestiche, o sia del corpo, come il soggetto più capace di vendicare il loro amato Imperatore, e di succedergli. Dipendeva la futura sorte del Candidato dal caso, o dalla condotta di quel momento. Conoscendo Diocleziano che il grado, ch'egli avea occupato, lo esponeva a qualche sospetto, montò sul tribunale, ed alzando gli occhi al Sole, fece una solenne protesta sulla propria innocenza dinanzi a quel Nume, che tutto vede202. Prendendo di poi i modi di Sovrano o di Giudice, comandò che Apro, incatenato, fosse condotto a piè del tribunale. «Costui (diss'egli) è l'assassino di Numeriano»; e senza dargli tempo di entrare in una pericolosa giustificazione, snudò il ferro, e l'immerse in seno all'infelice Prefetto. Un'accusa sostenuta da una prova così decisiva, fu ammessa senza contraddizione, e le legioni riconobbero con ripetute acclamazioni la giustizia e l'autorità dell'Imperator Diocleziano203.

Prima di entrare nel memorabil regno di questo Principe, sarà conveniente cosa il punire e tor di mezzo l'indegno fratello di Numeriano. Carino aveva armi e ricchezze bastanti a sostenere il suo legittimo diritto all'Impero. Ma i suoi vizi personali preponderavano tutti i vantaggi della nascita e dell'attual situazione. I più fedeli ministri del padre disprezzavano l'incapacità, e paventavano la crudele arroganza del figliuolo. Eran gli affetti del popolo impegnati in favore del rivale, ed il Senato istesso inclinava a preferire un usurpatore a un tiranno. Gli artifizi di Diocleziano infiammarono la generale scontentezza, e fu il verno consumato in segreti intrighi, ed in aperti preparativi per una guerra civile. S'incontrarono a primavera le forze dell'Oriente e dell'Occidente nelle pianure di Margo, piccola città della Mesia, nelle vicinanze del Danubio204. Le truppe tornate così recentemente dalla guerra Persiana, aveano acquistata la loro gloria a spese della loro salute e del lor numero, nè erano esse in istato di contrastare con l'inesausto vigore delle legioni Europee. Furono rotte le loro file, e per un momento Diocleziano disperò della porpora e della vita. Ma perdè Carino in un punto, per l'infedeltà de' suoi uffiziali, il vantaggio riportato dal valore de' suoi soldati. Un Tribuno, di cui egli avea sedotta la moglie, prese l'opportunità di vendicarsi, e con un colpo solo spense la discordia civile col sangue dell'adultero205.

CAPITOLO XIII

Regno di Diocleziano e dei suoi tre colleghi, Massimiano, Galerio e Costanzo. Ristabilimento generale dell'ordine e della tranquillità. Guerra Persiana; vittoria e trionfo. Nuova forma di governo. Rinunzia e ritiro di Diocleziano e di Massimiano

Come fu il regno di Diocleziano più illustre di quello di qualunque suo predecessore, così fu la sua nascita più vile e più oscura. L'efficace ragione del merito e della forza avea spesso superate le immaginarie prerogative della nobiltà; ma si era tuttavia mantenuta una distinta linea di separazione tra i liberi e tra gli schiavi. I genitori di Diocleziano erano stati schiavi nella casa di Anulino Senatore Romano; e Diocleziano medesimo non aveva altro nome che quello derivatogli da una piccola città della Dalmazia, donde sua madre traeva l'origine206. È per altro probabile che il padre di lui ottenesse la libertà della famiglia, e che egli presto acquistasse l'uffizio di scrivano, esercitato comunemente da quelli della sua condizione207. I favorevoli oracoli, o piuttosto la consapevolezza di un eminente merito, spinsero l'ambizioso suo figliuolo a seguitare la professione delle armi e le speranze della fortuna; e sarebbe cosa estremamente curiosa l'osservare la serie degli artifizi e degli accidenti, che lo condussero finalmente all'adempimento di quegli oracoli, ed a mostrare al mondo il suo merito. Fu Diocleziano successivamente promosso al governo della Mesia; alla dignità di Console, ed all'importante comando delle guardie del palazzo. Egli fece conoscere i suoi talenti nella guerra Persiana; e dopo la morte di Numeriano, lo schiavo fu, per confessione e giudizio de' suoi rivali, dichiarato il più degno del trono Imperiale. La malizia di un religioso zelo, mentre taccia la selvaggia ferocia del suo collega Massimiano, ha affettato di gettare sospetti sul personal coraggio dell'Imperator Diocleziano208. Non è però facile il persuaderci della codardia di un soldato di fortuna, che si conciliò e conservò la stima delle legioni, ed il favore di tanti Principi bellicosi. Contuttociò la calunnia è sagace abbastanza per iscoprire, ed attaccare la parte più debole. Il valore di Diocleziano si trovò sempre proporzionato al suo dovere o alle circostanze; ma non sembra che egli avesse il prode, e generoso spirito di un Eroe, che avido di pericoli e di gloria sdegna l'artifizio, e arditamente pretende di assoggettarsi gli uguali. Erano i suoi talenti più utili che illustri; una mente vigorosa e perfezionata dall'esperienza e dallo studio degli uomini; destrezza ed applicazione negli affari; una giudiziosa mescolanza di liberalità e di economia, di dolcezza e di rigore; una profonda dissimulazione sotto la maschera di militar franchezza; costanza nel seguitare i suoi disegni; flessibilità nel variarne i mezzi; e sopra tutto la grand'arte di sottomettere le sue passioni, e quelle ancora degli altri, all'interesse della propria ambizione, e di colorire l'ambizione istessa coi più speciosi pretesti della giustizia e del pubblico bene. Può Diocleziano, al pari di Augusto, considerarsi come il fondatore di un nuovo Impero. Simile al figliuolo adottivo di Cesare, egli si distinse, più come politico che come guerriero; nè mai questi due Principi impiegarono la forza, dovunque poterono ottenere l'intento colla politica.

La vittoria di Diocleziano fu riguardevole per la sua singolare dolcezza. Un popolo avvezzo ad applaudire alla clemenza del vincitore, quando i soliti castighi di morte, di esilio, e di confiscazione venivano inflitti con qualche grado di moderatezza e di equità, vide col più gradito stupore una guerra civile, le cui fiamme rimasero estinte nel campo della battaglia. Diocleziano ammise alla sua confidenza Aristobolo, principal ministro della famiglia di Caro, rispettò le vite, i beni, e le dignità dei suoi nemici, e conservò pur anche nei loro respettivi posti la maggior parte delle creature di Carino209. Non è improbabile che motivi di prudenza avvalorassero l'umanità dell'artificioso Dalmatino; molte di quelle creature aveano comprato il favore di lui con segreti tradimenti, e nell'altre egli pregiò la grata lor fedeltà per un infelice Sovrano. Il giudizioso discernimento di Aureliano, di Probo, e di Caro avea collocati nei vari dipartimenti dello Stato e dell'esercito Uffiziali di un merito riconosciuto, l'allontanamento dei quali avrebbe nociuto al pubblico servigio, senza giovare all'interesse del successore. Tal condotta, per altro, presentava al Mondo Romano la più bella apparenza del nuovo Regno e l'Imperatore affettò di confermare questa favorevole prevenzione, dichiarandosi che tra tutte le virtù dei suoi predecessori, l'umana filosofia di Marco Antonino era quella che egli più ambiva d'imitare210.

La prima azione considerabile del suo Regno sembrò una prova evidente della sua sincerità e moderazione. Ad esempio di Marco si scelse un Collega nella persona di Massimiano, a cui conferì prima il titolo di Cesare, e di poi quello di Augusto211. Ma i motivi della sua condotta, egualmente che quelli della sua scelta, erano ben diversi da quelli del suo ammirato predecessore. Accordando ad un giovane dissoluto gli onori della porpora, avea Marco Antonino soddisfatto a un debito di privata gratitudine, a spese veramente della pubblica felicità. Diocleziano, associando in un tempo di pubblico pericolo alle fatiche del governo un amico ed un compagno nell'armi, provvide alla difesa dell'Oriente e dell'Occidente. Massimiano era nato agricoltore, e come Aureliano, nel territorio di Sirmio. Incolto era nelle lettere212, e sprezzatore delle leggi; e la rozzezza del suo aspetto o dei suoi modi scopriva nel più alto stato di fortuna la bassezza della sua estrazione. Era la guerra la sola arte da lui professata. In un lungo corso di servigio militare egli si era segnalato sopra ogni frontiera dell'Impero; e benchè fossero i suoi talenti guerrieri più propri per l'ubbidienza che pel comando; e benchè forse mai non acquistasse l'abilità di un Generale sperimentato, fu però capace col valore, colla costanza, e coll'esperienza di eseguire le più difficili imprese. Nè meno utili furono i vizi di Massimiano al suo benefattore. Insensibile alla pietà, e senza timore delle conseguenze, egli era il pronto strumento di ogni atto di crudeltà, che la politica di quel Principe artificioso poteva suggerire e discolparsene insieme. Appena che si era offerto alla prudenza o alla vendetta un sanguinoso sacrifizio, Diocleziano coll'opportuna sua intercessione salvava il piccolo resto, che non avea mai disegnato di punire, riprendeva dolcemente la severità del suo austero collega, e godeva del paragone di un secolo d'oro con un secol di ferro, che veniva generalmente applicato alle loro opposte massime di governo. Non ostante la differenza dei loro caratteri, conservarono i due Imperatori sul trono quell'amicizia da loro già contratta in una condizione privata. Il superbo e turbolento spirito di Massimiano, tanto fatale dipoi a lui stesso ed alla pubblica pace, era avvezzo a rispettare il genio di Diocleziano, e riconosceva la superiorità della ragione sulla brutale violenza213. Per un motivo o di orgoglio o di superstizione, i due Imperatori presero i titoli, uno di Giovio e l'altro di Erculio. Mentre il moto del Mondo (tale era il linguaggio de' lor venali oratori) era regolato dalla sapienza di Giove che tutto vede, l'invincibil braccio di Ercole purgava la terra dai tiranni e dai mostri214.

Ma l'onnipotenza di Giovio e di Erculio era incapace di sostenere il peso del pubblico governo. La prudenza di Diocleziano conobbe, che l'Impero, assalito per ogni parte dai Barbari, richiedeva in ogni parte la presenza di un grande esercito e di un Imperatore. Con questa mira si risolvè di dividere un'altra volta il suo pesante potere, e di conferire a due Generali di merito riconosciuto una egual parte della Sovrana autorità, col titolo inferiore di Cesari215. Galerio, soprannominato Armentario dall'originaria sua professione di pastore, e Costanzo, che dalla pallidezza del suo colore ebbe il soprannome di Cloro216, furono i due soggetti rivestiti degli onori secondi della porpora Imperiale. Descrivendo la patria, l'estrazione ed i costumi di Erculio, abbiam già descritti quelli di Galerio, che spesso fu non impropriamente chiamato il giovane Massimiano, benchè da molti tratti e di virtù e di abilità sembri, che egli avesse una manifesta superiorità sul meno giovane. Era la nascita di Costanzo meno oscura di quella dei suoi Colleghi. Eutropio suo padre era uno dei più considerabili nobili della Dardania, e la sua madre era nipote dell'Imperator Claudio217. Benchè avesse Costanzo passata la sua gioventù nelle armi, era di carattere dolce ed amabile, e la voce popolare lo avea da lungo tempo riconosciuto degno del posto, a cui venne finalmente innalzato. Per rinforzare i legami della politica unione con quelli della domestica, ciascuno degli Imperatori prese il carattere di Padre per uno dei Cesari, Diocleziano per Galerio, e Massimiano per Costanzo, e ciascuno, obbligandoli a repudiare le prime lor mogli, fece sposar la propria figliuola al suo figliuolo adottivo218. Questi quattro Principi si diviser tra loro la vasta estensione dell'Impero Romano. La difesa della Gallia, della Spagna219 e della Britannia fu affidata a Costanzo; e Galerio fu posto sulle rive del Danubio, a difesa delle Province Illiriche. L'Italia e l'Affrica si considerarono come dipartimento di Massimiano: e Diocleziano si riserbò per sua particolar porzione la Tracia, l'Egitto e le ricche contrade dell'Asia. Era sovrano ognuno nella sua giurisdizione; ma la loro autorità riunita si estendeva sopra tutta la Monarchia; ed era ciascun di essi pronto ad assistere i suoi Colleghi coi consigli o colla presenza. I Cesari nel sublime lor posto, rispettavano la Maestà degl'Imperatori, ed i tre più giovani Principi invariabilmente riconobbero colla loro gratitudine ed ubbidienza il comun padre delle loro fortune. La sospettosa gelosia della potenza non trovò luogo fra loro, e la singolar felicità della loro unione è stata paragonata ad un coro di musici, la cui armonia era regolata e conservata dall'abil mano del primo Artista220.

Questo importante progetto non fu posto in esecuzione se non sei anni in circa dopo l'associazione di Massimiano, e non era stato quell'intervallo di tempo mancante di memorabili avvenimenti. Ma noi abbiamo preferito, in grazia della chiarezza, di prima descrivere la perfetta forma del governo di Diocleziano, e dopo di riferire le azioni del suo Regno, seguitando piuttosto il naturale ordine degli eventi, che le date di una incertissima cronologia.

La prima impresa di Massimiano, benchè sia brevemente riferita dai nostri imperfetti Scrittori, merita per la sua singolarità di esser rammentata in una storia dei costumi degli uomini. Egli soggiogò i contadini della Gallia, i quali sotto la denominazione di Bagaudi221, eransi sollevati in una general sedizione, molto simile a quelle, che nel quartodecimo secolo afflissero successivamente la Francia e l'Inghilterra222. Sembra, che molte di quelle istituzioni, che facilmente si riferiscono al sistema feudale, sieno derivate dai barbari Celti. Quando Cesare soggiogò i Galli, era già quella numerosa nazione divisa in tre ordini di persone, clero, nobiltà e plebe. Il primo governava colla superstizione, il secondo colle armi, ma il terzo ed ultimo non aveva influenza o parte veruna nei pubblici loro consigli. Era naturalissimo che i plebei, oppressi dai debiti, o paventando le ingiurie, implorassero la protezione di qualche potente Capo, il quale acquistasse sopra le loro persone ed il lor patrimonio quei medesimi assoluti diritti, che tra i Greci e i Romani un padrone esercitava su i propri schiavi223. Fu a poco a poco la maggior parte della nazione ridotta allo stato di servitù, astretta alla perpetua coltivazione dei terreni appartenenti ai nobili Galli, e addetta al suolo o col peso reale delle catene, o col non meno crudele e possente vincolo delle leggi. Durante la lunga serie delle turbolenze, che agitarono la Gallia, dal Regno di Gallieno a quello di Diocleziano, la condizione di questi servili contadini fu in ispecial modo meschina, e soffrirono ad un tempo stesso la complicata tirannia dei loro padroni, dei Barbari, dei soldati, e dei ministri dell'entrate224.

173Vedi Nemesian. Cynegeticon. V. I. ec.
174Vedi Festo ed i suoi comentatori sulla parola Scribonianum. I Luoghi percossi dal fulmine venivan circondati con un muro; le cose eran bruciate con misteriose cerimonie.
175Vopisco nella Stor. Aug. p. 250. Aurelio Vittore sembra che presti fede alla predizione, ed approvi la ritirata.
176Nemesian. Cynegiticon, V. 69. Egli era contemporaneo, ma poeta.
177Cancellarius. Questa parola, così umile nella sua origine, è per una singolar fortuna divenuta il titolo della prima gran carica di Stato nelle monarchie dell'Europa. Vedi Casaubono e Salmasio, ad Histor. August. p. 253.
178Vopisco nella Stor. Aug. p. 253, 254. Eutropio, IX. 19. Vittore Juniore. Il regno di Diocleziano, per vero dire, fu così lungo e prospero, che dovè esser molto favorevole alla reputazione di Carino.
179Vopisco nella Stor. Aug. p. 254. Egli lo nomina Caro, ma il senso è naturale abbastanza, e le parole furono spesso confuse.
180Vedi Calfurnio egloga VII. 43. È da osservarsi che gli spettacoli di Probo erano tuttavia recenti, e che il poeta vien secondato dallo Storico.
181Il filosofo Montaigne (Saggi. L. III. 6.) fa un molto giusto e vivace quadro della magnificenza romana in questi spettacoli.
182Vopisco nella Stor. Aug. p. 240.
183Vengono nominati Onagri: ma il numero n'è troppo piccolo per semplici asini selvaggi. Cuper (de Elephant. exercitat. II. 7) ha provocato con le autorità di Oppiano, di Dione e di un Anonimo Greco, che si erano in Roma viste le zebre. Vi furono portate da qualche isola dell'Oceano, forse dal Madagascar.
184Carino presentò un ippopotamo (Vedi Calf. Eglog. VII. 66.) Negli ultimi spettacoli io non ritrovo coccodrilli, dei quali una volta Augusto ne fece vedere trentasei. Dione Cassio, l. LV. p. 781.
185Capitolin. nella Stor. Aug. p. 164, 165. Noi non conosciamo gli animali, ch'egli nomina archeleontes: alcuni leggono argoleontes, altri agrioleontes; ambedue queste correzioni sono molto puerili.
186Plinio Stor. Nat. VIII. 6. Dagli annali di Pisone.
187Vedi Maffei Verona illustr. P. IV. l. I. c. 2.
188Maffei l. II. c. 7. L'altezza fu molto più esagerata dagli antichi. S'innalzava quasi al Cielo, secondo Calfurnio (Eglog. VII. 23), ed oltrepassava il termine della vista umana secondo Ammiano Marcellino (XVI. 10.) Contuttociò quanto era piccola cosa riguardo alla gran Piramide dell'Egitto, che ha cinquecento piedi di perpendicolo!
189Secondo diverse copie di Vitruvio, si legge 77000, o 87000 spettatori; ma il Maffei (l. II. c. 12) su i sedili scoperti non trova luogo che per 34000. Il rimanente entrava nelle superiori gallerie coperte.
190Vedi Maffei l. II. c. 5-11. Egli tratta questo difficilissimo soggetto con tutta la possibil chiarezza, e come architetto non meno che come antiquario.
191Calfurnio Egloga VII. 64, 73. Curiosi sono questi versi; e tutta l'Egloga è stata di un uso infinito al Maffei. Calfurnio non men che Marziale, (vedi il suo I. libro) era poeta, ma quando essi ritrassero l'anfiteatro, scrissero ambidue secondo i propri lor sentimenti, e quei dei Romani.
192Vedi Plin. Stor. nat. XXXIII. 16. XXXVII. 11.
193Balteus en gemmis, en inclita porticus auro Certatim radiant ec. Calfurn. VII.
194Et Martis vultus et Apollinis esse putavi, dice Calfurnio; ma Giovanni Malela, che avea forse veduto qualche ritratto di Carino, lo rappresenta come grosso, piccolo e bianco, tomo I. p. 403.
195Riguardo al tempo in cui questi giuochi romani furono celebrati, Scaligero, Salmasio e Cuper si sono dati gran pena per oscurare un soggetto chiarissimo.
196Nemesiano, nei Cinegetici, sembra che anticipi colla sua immaginazione quel fausto giorno.
197Vinse tutte le corone a Nemesiano, col quale contendeva nella poesia didattica. Il Senato eresse una statua al figliuolo di Caro, con una iscrizione molto ambigua. «Al più potente degli Oratori». Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 251.
198Cagione almeno più naturale di quella che assegna Vopisco (Stor. Aug. p. 251.) cioè il continuo piangere per la morte di suo padre.
199Nella guerra Persiana, Apro fu sospettato di aver disegno di tradir Caro. Stor. Aug. p. 250.
200Noi dobbiamo alla Cronica Alessandrina (p. 274) la notizia del tempo e del luogo, dove Diocleziano fu eletto Imperatore.
201Stor. Aug. p. 251. Eutrop. IX. 18. Hieronym. in Chron. Secondo questi giudiziosi Scrittori, la morte di Numeriano si scoprì pel fetore del suo cadavere. Non si potevano forse trovare aromati nella Tenda Imperiale?
202Aurelio Vittore. Eutropio, IX. 20. Hieronym. in Chron.
203Vopisco nella Stor. Aug. p. 252. La ragione, por cui Diocleziano uccise Apro (cinghiale) era fondata sopra una predizione e sopra un giuoco di parole egualmente ridicoli che conosciuti.
204Eutropio ne segna il sito molto accuratamente; questo fu tra il Monte Aureo ed il Viminiaco. Il Sig. Danville (Geograf. antica tom. I. p. 304) pone Margo a Kastolatz nella Servia, un poco sotto Belgrado e Semendria.
205Stor. Aug. p. 254. Eutrop. IX. 20. Aurelio Vittore. Vittore in Epitom.
206Eutropio IX. 19. Vittore in Epitom. Sembra che la città fosse propriamente detta Daclia da una piccola tribù d'Illirici. (Vedi Cellario, Geograf. antic. tom. I. p. 393). Probabilmente il primo nome del felice schiavo fu Docles, che allungò dopo per servire alla greca armonia in quel di Diocles, e che finalmente convertì in quello di Diocletianus, come più proprio della maestà Romana. Prese parimente il nome patrizio di Valerio, che gli viene ordinariamente dato da Aurelio Vittore.
207Vedi Dacier sulla sesta satira del secondo libro di Orazio, Cornel. Nip. nella vita di Eumene. c. I.
208Lattanzio (o chiunque fu l'autore del piccol trattato de mortibus persecutorum) accusa in due luoghi Diocleziano di timidità c. 7, 8. Nel cap. 9, dice di lui «erat in omni tumultu meticulosus et animi disiectus».
209In questo elogio sembra che Aurelio Vittore insinui una giusta, benchè indiretta censura, della crudeltà di Costanzo. Apparisce dai fasti, che Aristobolo rimase Prefetto della città, e che terminò con Diocleziano il Consolato ch'egli avea cominciato con Carino.
210Aurel. Vittore nomina Diocleziano «Parentem potius quam Dominum». Vedi Stor. Aug. p. 30.
211La questione del tempo, in cui Massimiano ricevesse la dignità di Cesare e di Augusto, avea divisi i critici moderni, e data occasione ad un gran numero di dotte dispute. Io ho seguitato il Tillemont, (Stor. degl'Imperat. t. IV. p. 500-505) che ha bilanciato le diverse difficoltà e ragioni colla solita sua scrupolosa esattezza.
212In una orazione recitata dinanzi a lui (Panegir. vet. II. 8.) Mamertino dubita se il suo Eroe, imitando la condotta di Annibale e di Scipione, ne avesse mai udito i nomi. Possiamo quindi benissimo inferire, che Massimiano ambiva più di essere stimato come soldato che come uomo di lettere: ed in tal guisa si può spesso saper la verità dal linguaggio medesimo dell'adulazione.
213Lattanzio de M. P. c. 8 Aurel. Vittore. Siccome tra i Panegirici si trovano orazioni recitate in lode di Massimiano, ed altre che adulano i di lui avversarj a sue spese, si ricava qualche verità da questo contrasto.
214Vedi i Panegir. 2 e 3, e particolarmente III. 3, 10, 14, ma sarebbe cosa tediosa il copiare le prolisse ed affettate espressioni della falsa loro eloquenza. Riguardo ai titoli si consulti Aurel. Vittore, Lattanzio de M. P. c. 52. Spanhemio de usu Numism. etc. Dissert. XII. 8.
215Aurel. Vittore, in Epitom. Eutrop. IX. 22. Lattanzio de M. P. c. 8. Hieronym. in Chron.
216Il Tillemont non ha potuto rinvenire che tra i Greci moderni il soprannome di Chlore. Verun notabile grado di pallidezza non sembra potersi combinare col rubor menzionato nel Panegir. V. 19.
217Giuliano, nipote di Costanzo, vanta la discendenza della sua famiglia dai bellicosi Mesj (Misopogon, p. 348.) I Dardani abitavano all'estremità della Mesia.
218Galerio sposò Valeria, figlia di Diocleziano. Se si parla con precisione, Teodora, moglie di Costanzo, era soltanto figlia della moglie di Massimiano. Spanhem. Dissertat. XI. 2.
219Questa divisione combina con quella delle quattro Prefetture: vi è però qualche ragione di dubitare che fosse la Spagna Provincia di Massimiano. Vedi Tillemont, tom. IV. p. 517.
220Giuliano in Caesarib. p. 315 note di Spanhem. alla traduzione Francese, p. 122.
221Il nome generico di Bagaudae (nel significato di ribelli) continuò fino al quinto secolo nella Gallia. Alcuni critici lo fanno venire dalla parola Celtica Bagad, assemblea tumultuosa. Scaliger. ad Euseb. Du Cange Glossar.
222Cronica di Froissart vol. I. p. 182. II. 73-79. La semplicità di questa Storia non è stata imitata dai nostri moderni scrittori.
223Caesar. De Bell. Gallic. VI. 13. Orgetorige, di nazione Svizzero, potè armare in sua difesa un corpo di diecimila schiavi.
224L'oppressione e miseria loro vien confermata da Eumenio, (Panegir. VI. 8.) Gallias efferatas iniuriis.
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