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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1

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È osservazione giusta, sebben comune, che la vittoriosa Roma fu ella stessa soggiogata dalle arti della Grecia. Quegli immortali Scrittori, che fanno ancora l'ammirazione della moderna Europa, presto divennero l'oggetto favorito dello studio e dell'imitazione nell'Italia e nelle province occidentali. Ma non portavano danno le geniali occupazioni dei Romani alle radicate massime della loro politica. Mentre riconoscevano le bellezze della lingua greca, sostenevano la dignità della latina; e l'uso esclusivo della seconda fu conservato inflessibilmente nell'amministrazione sì del governo civile, che del militare150. I due linguaggi esercitavano nel tempo stesso la loro separata giurisdizione per tutto l'Impero; il primo come naturale idioma delle scienze, il secondo come il dialetto legale degli atti pubblici. Quelli che univano le lettere agli affari, erano egualmente versati nell'uno e nell'altro; ed era quasi impossibile in qualunque provincia di trovare un suddito romano di una educazion liberale, che non sapesse nel tempo stesso la lingua greca e la latina.

Con tali regolamenti le nazioni dell'Impero insensibilmente si confusero nel nome e nel popolo romano. Ma vi restava ancora nel centro di ogni provincia e di ogni famiglia una infelice classe di uomini, che sopportavano il peso senza godere dei benefizj della società. Negli Stati liberi delle antiche Repubbliche, gli schiavi domestici erano esposti al capriccioso rigore del dispotismo. Al perfetto stabilimento dello Impero romano avean preceduto i secoli della violenza e della rapina. Gli schiavi erano per la maggior parte Barbari prigionieri, presi a migliaia per sorte di guerra, comprati a vil prezzo151, avvezzi ad una vita indipendente, ed impazienti di rompere e vendicare i lor ceppi.

I più severi provvedimenti, ed il più crudel trattamento152 contro quegli interni nemici pareano quasi giustificati dalla gran legge della propria conservazione, giacchè essi avean con disperate ribellioni condotta più d'una volta la Repubblica all'orlo del precipizio153. Ma quando le principali nazioni dell'Europa, dell'Asia e dell'Affrica furono unite sotto le leggi di un solo Sovrano, la sorgente dei rinforzi stranieri divenne meno abbondante, ed i Romani furono ridotti al più mite ma più tedioso metodo della propagazione. Incoraggiarono i matrimonj degli schiavi nelle lor numerose famiglie, e particolarmente nelle loro campagne. I sentimenti della natura, gli abiti della educazione, ed una specie di proprietà, benchè dipendente, contribuirono ad addolcire la durezza della servitù154. L'esistenza di uno schiavo divenne un oggetto di valuta maggiore; e sebbene la felicità di lui dipendesse sempre dal carattere o dalle circostanze del padrone, pure l'umanità del secondo, invece di essere scemata dal timore, era incoraggiata dal sentimento del proprio interesse. La politica o la virtù degl'Imperatori accelerò il perfezionamento dei costumi; ed Adriano e gli Antonini estesero con i loro editti la protezion delle leggi fino alla più abietta parte degli uomini. Si tolse ai privati il diritto di vita e di morte sopra gli schiavi, del quale avevano per lungo tempo e spesso abusato, e fu riservato ai soli magistrati. Furon distrutte le sotterranee prigioni; e lo schiavo ingiuriato, se giustamente si lamentava di un intollerabil trattamento, otteneva o la libertà, od un padrone meno crudele155.

La speranza, che è il miglior sollievo della nostra imperfetta condizione, non era negata allo schiavo romano; e se trovava alcuna opportunità di rendersi utile e gradito, poteva molto ragionevolmente sperare che la diligenza e fedeltà di pochi anni sarebbe ricompensata con l'inestimabil dono della libertà. La benevolenza del padrone era così spesso animata dai più bassi motivi di vanità e di avarizia, che le leggi crederono più necessario di raffrenare, che d'incoraggiare questa profusa ed indistinta liberalità, la quale poteva degenerare in un abuso molto pericoloso156. Secondo l'antica giurisprudenza uno schiavo non avea patria: acquistando la libertà egli veniva ammesso nella società politica, di cui il suo patrono era membro. Le conseguenze di questa massima avrebbero prostituiti i privilegi della cittadinanza romana ad una vile e promiscua moltitudine. Furon perciò stabilite alcune opportune eccezioni; e l'onorevol distinzione di cittadino fu ristretta soltanto a quegli schiavi, i quali per giuste cagioni, e con l'approvazione del magistrato eran solennemente e legalmente manumessi. Di più questi scelti liberti non ottenevan che i privati diritti di cittadini, ed erano rigorosamente esclusi dagl'impieghi civili e dal servizio militare. Qualunque esser potesse il merito o la ricchezza dei loro figli, essi eran parimente stimati indegni di aver posto in Senato; nè si cancellavano affatto le tracce della origine servile fino alla terza o quarta generazione157. Così senza distrugger la distinzione degli ordini, la libertà e gli onori si mostravano in lontananza anche a quelli, che l'orgoglio e il pregiudizio sdegnavano quasi di annoverare fra gli uomini.

Fu una volta proposto di dar agli schiavi per distintivo un abito particolare, ma si temè con ragione che vi fosse qualche pericolo nel far ad essi conoscere la grandezza del loro numero158. Senza interpretare nel loro più stretto senso le pompose voci di legioni e di miriadi159, si può probabilmente asserire che la proporzione degli schiavi, che si valutavano come proprietà, era più considerabile di quella dei servi mercenarj160. I giovani di un ingegno che prometteva, erano instruiti nelle arti e nelle scienze, ed il loro prezzo si misurava dal grado della loro abilità e dei loro talenti161. Quasi ogni professione o liberale162 o meccanica, si trovava nella casa di un ricco Senatore. I ministri della magnificenza e del piacere erano moltiplicati oltre l'idea del lusso moderno163. Il mercante o il manifattore trovava più utile a comprare, che a prendere a paga i suoi lavoranti; e nella campagna gli schiavi erano impiegati come gli strumenti meno costosi e più utili dell'agricoltura. Si possono portare diversi particolari esempi per confermar la generale osservazione, e mostrare la moltitudine degli schiavi. Un tristo avvenimento fece scoprire che in un sol palazzo di Roma si mantenevano quattrocento schiavi164. Ne apparteneva un numero eguale ad una villa, che una vedova affricana di condizione molto privata cedè al suo figlio, mentre si riservava per se una maggior porzione del suo patrimonio165. Sotto il Regno di Augusto un liberto, le cui ricchezze erano molto diminuite per le guerre civili, lasciò tremila seicento paia di bovi, dugento cinquantamila capi di bestiame minuto, e quattromila cento sedici schiavi, i quali venivano quasi inclusi nella descrizione de! bestiame166.

 

Il numero dei sudditi, i quali riconoscevano le leggi romane, cittadini, provinciali e schiavi, non si può determinare con quella precisione, che meriterebbe l'importanza del soggetto. Sappiamo che quando l'Imperatore Claudio esercitò l'uffizio di Censore, il censo fu di sei milioni novecento quarantacinquemila cittadini romani, i quali, computandovi in proporzione le donne ed i ragazzi, dovevano ascendere al numero quasi di venti milioni d'anime. La quantità dei sudditi di un grado inferiore era incerta e variabile. Ma dopo aver valutata attentamente ogni circostanza, che può influire nel comparto, sembra probabile, che al tempo di Claudio, il numero dei provinciali fosse quasi doppio di quello dei cittadini d'ogni età e d'ogni sesso; e che gli schiavi fossero almeno eguali in numero agli abitanti liberi dell'orbe romano. La somma totale di questo calcolo imperfetto ascenderebbe quasi a cento venti milioni; popolazione, che forse eccede quella della Europa moderna167 e forma la più numerosa società che sia mai stata unita sotto lo stesso sistema di governo.

La pace e l'unione interna erano le naturali conseguenze della moderata ed illuminata politica dei Romani. Se volgiamo gli occhi alle Monarchie dell'Asia, vedremo nel centro il dispotismo, e la debolezza nelle estremità; la percezione delle entrate, o l'amministrazione della giustizia sostenuta dalla presenza dell'armi; nemici barbari stabiliti nel cuor del regno; satrapi ereditari che usurpano il dominio delle province, e sudditi disposti alla ribellione, sebbene incapaci di libertà. Ma l'obbedienza del Mondo romano era uniforme, volontaria e costante. Le vinte nazioni, raccolte in un gran popolo, ponevano giù la speranza, anzi il desiderio di riacquistare la loro indipendenza, e consideravano appena la loro esistenza come distinta da quella di Roma. L'autorità, già assodata degl'Imperatori, si stendeva senza fatica per la vasta estensione dei loro dominj, ed era esercitata con la stessa facilità sulle rive del Tamigi o del Nilo, come su quelle del Tevere. Le legioni erano destinate a servire contro i pubblici nemici, ed il magistrato civile rare volte implorava l'aiuto della forza militare168. In questo stato di general sicurezza il Principe ed il popolo impiegavano l'ozio e l'opulenza loro ad ingrandire e adornare l'Impero romano.

Quanti fra gl'innumerabili monumenti di architettura costruiti dai Romani, sono sfuggiti alla notizia della storia, e quanti pochi han resistito alle distruzioni del tempo e de' Barbari! E pure le sole maestose rovine che si vedono tuttavia sparse per l'Italia e per le province, servirebbero a provare che quei luoghi furono una volta la sede di un Impero colto e possente. La loro sola grandezza, o la loro bellezza meriterebbe la nostra attenzione; ma esse divengono anche più interessanti per due circostanze importanti, le quali uniscono la dilettevole storia delle arti con la storia più utile degli umani costumi. Molte di queste fabbriche erano erette a spese private, e destinate quasi tutte alla pubblica utilità.

È naturale il supporre che la maggior parte e la più considerabile dei romani edifizj fosse innalzata dagli Imperatori, che potevano illimitatamente disporre di tanti uomini e di tanti tesori. Augusto era solito di vantarsi, che aveva trovata la sua capitale fabbricata di mattoni, e la lasciava fabbricata di marmo169. La stretta economia di Vespasiano fu la sorgente della sua magnificenza. Le opere di Traiano portano il marchio del suo grand'animo. I pubblici monumenti con i quali Adriano adornò ogni provincia dell'Impero, furono eseguiti non solo pe' suoi ordini, ma sotto la sua immediata ispezione. Era artista egli stesso, ed amava quelle arti che accrescevano la gloria del Monarca. Esse furono incoraggiate dagli Antonini, come proprie a contribuire alla felicità del popolo. Ma se gl'Imperatori furono gli architetti primarj del loro Impero, non ne furono per altro i soli. Il loro esempio fu generalmente imitato dai principali sudditi, i quali non temevano di mostrare, ch'essi avevano spirito da concepire, o ricchezze da terminare le più nobili imprese. Non era appena eretto e consacrato a Roma il superbo Colosseo, che Capua e Verona innalzarono a spese proprie e per uso loro altri edifizj, invero men vasti, ma costruiti sullo stesso disegno e coi medesimi materiali170. L'iscrizione del maraviglioso ponte di Alcantara attesta, che esso fu gettato sul Tago a spese di poche comunità Lusitane. Quando a Plinio fu dato il governo della Bitinia e del Ponto, province che non erano nè le più ricche, nè le più considerabili dell'Impero, egli trovò le città della sua giurisdizione, che gareggiavano in fabbriche, le quali per l'utilità e per l'ornamento meritassero la curiosità dei forestieri, o la gratitudine dei cittadini. Era dover del Proconsole di supplire a ciò che loro mancava, di regolare il lor gusto, e talvolta di moderare la loro emulazione171. I ricchi Senatori di Roma e le province consideravano come un onore, e quasi come un obbligo l'accrescere lo splendore del loro secolo e della lor patria; e l'influenza della moda bene spesso suppliva alla mancanza del buon gusto o della generosità. Tra la folla di questi privati benefattori, merita di esser distinto Erode Attico, cittadino ateniese, il quale vivea nel secolo degli Antonini; e qualunque fosse il motivo che lo faceva operare, la sua magnificenza sarebbe stata degna dei Re più grandi.

La famiglia di Erode, almeno dopo che si trovò favorita dalla fortuna, fu fatta discendere per linea retta da Cimone e Milziade, da Teseo e Cecrope, da Eaco e Giove. Ma la posterità di tanti Numi e di tanti eroi era caduta nello stato il più abbietto. L'avo di Erode era stato nelle mani della giustizia, e Giulio Attico, suo padre, avrebbe finiti i suoi giorni nella povertà e nel disprezzo, se scoperto non avesse un immenso tesoro, sepolto sotto un vecchio casamento, ultimo avanzo del suo patrimonio. Secondo il rigor della legge, l'Imperatore avrebbe potuto far valere le sue pretensioni, ed Attico prudentemente prevenne lo zelo dei delatori con una libera confessione. Ma il giustissimo Nerva, che allora occupava il trono, non volle accettarne alcuna porzione; e gli comandò di servirsi senza timore del dono della fortuna. L'accorto Ateniese sempre insisteva dicendo, che il tesoro era troppo considerabile per un suddito, e ch'egli non sapeva come bene usarne. Abusane dunque, replicò il Monarca con una graziosa impazienza, giacchè ti appartiene172. Molti saranno d'opinione, che Attico eseguì litteralmente le ultime istruzioni dell'Imperatore; giacchè spese in util del pubblico la maggior parte dei suoi beni, i quali erano considerabilmente aumentati per un ricco matrimonio. Egli aveva ottenuta pel suo figlio Erode la prefettura delle città libere dell'Asia; e questo giovane magistrato, osservando che in quella di Troade mancava l'acqua, ottenne dalla liberalità di Adriano trecento miriadi di dramme (quasi dugentomila zecchini) per la costruzione di un nuovo acquedotto. Ma nell'esecuzione della fabbrica la spesa montando a più del doppio, ed i ministri dell'entrate publiche cominciando a mormorare, il generoso Attico impose loro silenzio col supplicare che gli fosse permesso di addossarsi il di più della spesa173.

 

I più abili maestri della Grecia e dell'Asia erano stati invitati con liberali ricompense a governare l'educazione del giovane Erode. Il loro allievo divenne ben tosto un celebre oratore, secondo l'inutil rettorica di quel secolo, la quale, confinandosi nelle scuole, sdegnava di comparire nel Foro o nel Senato. Gli fu conceduto a Roma l'onor del Consolato; ma egli passò la maggior parte della sua vita in un ritiro filosofico in Atene e nelle ville adiacenti, continuamente circondato da' Sofisti; i quali riconoscevano senza ripugnanza la superiorità di un ricco e generoso rivale174. I monumenti del suo genio sono periti; alcuni riguardevoli avanzi conservano tuttora la fama del suo buon gusto e della sua munificenza: qualche viaggiatore moderno ha misurate le rovine dello Stadio ch'esso fece costruire in Atene. Era lungo seicento piedi, fabbricato tutto di marmo bianco, e capace di contener tutto il popolo; fu finito in quattr'anni, mentre Erode era il presidente dei giuochi ateniesi. Consacrò alla memoria di Regilla sua moglie un teatro, di cui appena potea trovarsi l'eguale in tutto l'Impero; non vi si impiegò altro legno che cedro squisitamente intagliato. L'Odeo, destinato da Pericle per l'Accademia di musica e per le nuove tragedie, sorgea come trofeo della vittoria riportata dalle belle arti sulla grandezza asiatica; giacchè il legname impiegatovi era per la maggior parte di alberi delle navi persiane. Benchè un re di Cappadocia lo avesse una volta restaurato, era nuovamente sul punto di rovinare. Erode gli rendè l'antica eleganza e munificenza. Nè la liberalità di questo illustre cittadino rimase ristretta fra le mura di Atene. I più splendidi ornamenti, fatti al tempio di Nettuno nell'Istmo, un teatro in Corinto, uno Stadio in Delfi, un bagno alle Termopile, ed un acquedotto in Canusio nell'Italia, non poterono esaurire i suoi tesori. L'Epiro, la Tessaglia, l'Eubea, la Beozia ed il Peloponeso provarono i suoi favori; e molte iscrizioni delle città greche ed asiatiche nominarono con gratitudine Erode Attico loro patrono e benefattore175.

Nelle Repubbliche di Atene, e di Roma, la modesta semplicità delle case private annunziava l'egual condizione della libertà, mentre la sovranità del popolo si spiegava nei maestosi edifizj destinati all'uso pubblico176; nè questo spirito repubblicano si spense affatto per l'introduzione dell'opulenza e della monarchia. Gli Imperatori più virtuosi godevano di mostrare la loro magnificenza soltanto nelle fabbriche fatte per l'onore e per l'utile della nazione. L'aureo palazzo di Nerone eccitò una giusta indignazione, ma l'istesso terreno usurpato dal suo sfrenato lusso, fu più nobilmente occupato sotto i successivi regni dal Colosseo, dai bagni di Tito, dal portico di Claudio o dai tempj dedicati alla Pace od al Genio di Roma177. Questi monumenti di architettura, proprietà del Popolo romano, erano adornati dalle più belle produzioni della greca pittura e scultura; e nel tempio della Pace si aprì una libreria molto rara alla curiosità dei letterati. Poco lungi di là sorgeva il Foro di Trajano. Questo era di forma quadrangolare, circondato da un alto portico, nel quale quattro archi trionfali aprivano un ingresso nobile e spazioso; nel centro era posta una colonna di marmo, la cui altezza di cento dieci piedi indicava l'elevazione della collina che vi era stata spianata. Questa colonna, che ancor sussiste nella sua antica bellezza, presentava un esatto quadro delle vittorie riportate, da chi l'innalzò, contro i Daci. Il soldato veterano contemplava la storia delle sue proprie campagne, ed il pacifico cittadino, per una facile illusione di vanità nazionale, si associava agli onori del trionfo. Tutti gli altri quartieri della capitale, e tutte le province dell'Impero erano abbellite dal medesimo liberale genio di pubblica magnificenza, e ripiene di anfiteatri, teatri, tempj, portici, archi trionfali, bagni ed acquedotti, tutti per diversi modi utili alla salute, alla devozione, ed ai piaceri degl'infimi cittadini. Gli acquedotti meritano la nostra particolare attenzione. L'ardire dell'impresa, la solidità dell'esecuzione, e gli usi ai quali servivano, assegnano ad essi un posto tra i più nobili monumenti del genio e della potenza romana. Gli acquedotti della capitale giustamente esigon la preeminenza; ma un viaggiatore curioso, il quale esaminasse senza il lume della storia quelli di Spoleto, di Metz, o di Segovia, concluderebbe naturalmente, che quelle città provinciali erano anticamente state la residenza di qualche possente Monarca. Le solitudini dell'Asia e dell'Affrica erano una volta coperte da floride città, la cui gran popolazione, e fin l'esistenza, era dovuta a questi artificiali soccorsi di una perenne corrente di acqua fresca178.

Noi abbiamo computato gli abitanti, e contemplato i pubblici edifizi dell'Impero romano. L'osservazione del numero e della grandezza delle sue città servirà a confermare il computo dei primi, ed a moltiplicare quella de' secondi. Non sarà disgradevole il raccorre alcuni sparsi esempi relativi a questo soggetto, ricordandoci per altro che la vanità delle nazioni e la povertà del linguaggio, hanno indifferentemente conceduto il vago nome di città a Roma ed a Laurento.

I. Si dice che l'antica Italia contenesse mille cento novantasette città; ed a qualunque epoca dell'antichità si debba applicare questa espressione179, non vi è alcuna ragione di creder l'Italia meno popolata nel secolo degli Antonini che nel secolo di Romolo. I piccoli Stati del Lazio erano contenuti nella metropoli dell'Impero, la cui superiore influenza gli aveva attirati. Quelle parti dell'Italia, che hanno poscia per tanto tempo languito sotto l'oziosa tirannia dei preti, e dei vicerè, erano state soltanto afflitte dalle più tollerabili calamità della guerra; ed i primi sintomi, ch'esse ebbero di decadenza, furono ampiamente compensati dai rapidi progressi della Gallia Cisalpina. Ne' suoi avanzi ancora mostra Verona l'antico splendore, e pur Verona era men famosa di Aquileia o di Padova, di Milano o di Ravenna.

II. Lo spirito di miglioramento aveva passato le Alpi, e si sentiva perfino nei boschi della Britannia, che a poco a poco erano scomparsi per dar luogo a comode ed eleganti abitazioni. York era la sede del governo, Londra già si arricchiva col commercio, e Bath era celebre pel salutare effetto delle medicinali sue acque. La Gallia poteva vantarsi delle sue mille dugento città180, e sebbene molte di queste nelle parti settentrionali, senza eccettuarne Parigi stessa, fossero poco più che rozzi ed imperfetti borghi di popol nascente, le province meridionali nondimeno emulavano l'opulenza e l'eleganza italiana181. Molte eran le città della Gallia, Marsiglia, Arles, Nimes, Narbona, Tolosa, Bordò, Autun, Vienna, Lione, Langres e Treveri, l'antica condizion delle quali potrebbe benissimo e forse con vantaggio gareggiare con il loro stato presente. La Spagna, che nello stato di provincia era floridissima, divenuta un Regno, è andata in decadenza. Spossata dall'abuso della sua forza, dall'America e dalla superstizione, resterebbe forse molto umiliata la sua superbia, se si ricercasse da lei il numero di trecento sessanta città, quanto Plinio ne contò sotto il Regno di Vespasiano182.

III. Trecento città affricane avevano una volta riconosciuta l'autorità di Cartagine183, nè si può credere che il lor numero diminuisse sotto il governo degli Imperatori. Cartagine stessa rinacque con nuovo splendore dalle proprie ceneri; e quella capitale, come Capua e Corinto, ricuperarono ben presto tutti i vantaggi, che possono aversi senza una indipendente sovranità.

IV. Le province dell'Oriente presentarono il contrasto della magnificenza romana con la barbarie ottomana. Le rovine dell'antichità, sparse per le inculte campagne, e attribuite dall'ignoranza al potere della magìa, danno appena un asilo al contadino oppresso, o all'Arabo vagabondo. Sotto il regno dei Cesari, l'Asia, propriamente detta, conteneva cinquecento città molto popolate184, arricchite di tutti i doni della natura, ed adornate da tutti i raffinamenti dell'arte. Undici città dell'Asia si erano una volta disputato l'onore di dedicare un tempio a Tiberio, ed il Senato esaminò i loro meriti respettivi185. Quattro di esse furono immediatamente rigettate come incapaci di un tanto peso; ed una di queste era Laodicea, il cui splendore apparisce ancora nelle sue rovine186. Laodicea ricavava una considerabilissima entrata da' suoi greggi, famosi per la finezza della lana, ed avea ricevuto, poco avanti a questa contesa, un legato di più di ottocentomila zecchini lasciatole da un generoso cittadino187. Se tale era la povertà di Laodicea, qual deve essere stata l'opulenza di quelle città, le cui pretensioni parvero preferibili, e specialmente di Pergamo, di Smirne e di Efeso, le quali sì lungamente si disputarono il titolar primato dell'Asia188? Le capitali della Siria e dell'Egitto erano di un ordine ancor superiore nell'Impero. Antiochia ed Alessandria riguardavan con disprezzo una folla di città dipendenti189, e non cedevano, che con ripugnanza, alla maestà della stessa Roma.

Tutte queste città comunicavano una con l'altra, e colla capitale per mezzo delle strade maestre, le quali partendosi dal Foro di Roma, traversavan l'Italia, penetravano nelle province, e non terminavano che ai confini dell'Impero. Se si prenda esattamente la distanza dal muro di Antonino a Roma, e di là a Gerusalemme, si troverà che la gran catena di comunicazione da maestro a scirocco si estendeva per la lunghezza di quattromila ottanta miglia romane190. Le pubbliche strade erano esattamente divise dalle colonne miliarie, e andavano in retta linea da una città all'altra con assai poco riguardo agli ostacoli o della natura o della privata proprietà. Si foravano i monti, e si gettavano grand'archi su i fiumi più larghi e più rapidi191. Il mezzo della strada era molto elevato sopra l'adiacente campagna, ed era fatto con molti strati di sabbia, di ghiaia e di cemento, e lastricato di larghe pietre, o di granito192 in alcuni luoghi vicini alla capitale. Tale era la stabile costruzione delle strade maestre dei Romani, la cui solidità non ha interamente ceduto allo sforzo di quindici secoli. Esse procuravano ai sudditi delle più distanti province una corrispondenza facile e regolare; ma il loro oggetto primario era stato di facilitare la marcia delle legioni; nè alcun paese si considerava come pienamente soggiogato, finchè non era renduto in tutte le sue parti accessibile all'armi ed all'autorità del conquistatore.

Il vantaggio di ricevere più sollecite le notizie, e di spedire con celerità i loro ordini, indusse gl'Imperatori a stabilire, per tutto il loro esteso dominio, le poste regolari193. Si eressero da per tutto case in distanza soltanto di cinque o sei miglia; ciascuna delle quali era costantemente provvista di quaranta cavalli, e con l'aiuto di queste poste era facile di fare cento miglia in un giorno per le strade romane194. Il comodo delle poste si concedeva a quelli, che avevano un mandato imperiale; ma quantunque nella sua istituzione fosse destinato al pubblico servizio, era qualche volta concesso al privato dei cittadini195.

La comunicazione dell'Impero romano per mare non era meno libera ed aperta che per terra. Il Mediterraneo si trovava circondato dalle province; e l'Italia, a guisa di un immenso promontorio, si avanzava nel mezzo di questo gran lago. Sulle coste d'Italia vi sono pochi seni sicuri; ma l'umana industria avea supplito alla mancanza della natura; e il porto artificiale di Ostia, specialmente, collocato all'imboccatura del Tevere, e fatto dall'Imperator Claudio, era un utile monumento della romana grandezza196. Da questo porto, lontano dalla capitale sole sedici miglia, i vascelli con un vento favorevole arrivavano spesso in sette giorni alle Colonne d'Ercole, ed in nove o dieci in Alessandria d Egitto197.

Per quanti mali la ragione o la declamazione abbia imputato agl'Imperj troppo estesi, la potenza di Roma era accompagnata da alcune conseguenze utili al genere umano; e la stessa libertà di commercio, che dilatava i vizj, diffondeva ancora i vantaggi della vita sociale. Nei più remoti secoli dell'antichità, il Mondo era inegualmente diviso. L'Oriente era da tempo immemorabile in possesso delle arti e del lusso, mentre l'Occidente era abitato da rozzi e guerrieri Barbari, che o disprezzavano o ignoravano affatto l'agricoltura. Sotto la protezione di un governo assodato, le produzioni dei climi più felici, e l'industria delle nazioni più culte s'introdussero a poco a poco nelle parti occidentali dell'Europa; ed un libero ed util commercio incoraggiò i nazionali a moltiplicare i prodotti, e a migliorare le arti. Sarebbe quasi impossibile di numerare tutti i generi del regno o animale o vegetabile, che furono successivamente trasportati nell'Europa dall'Asia e dall'Egitto198; ma non disconverrà al decoro, e molto meno all'utilità di una storia il toccar leggermente alcuni dei capi principali. I. Quasi tutti i fiori, l'erbe ed i frutti, che nascono nei nostri giardini europei, sono di estrazion forestiera, manifestata spesso dai lor nomi medesimi; la mela era nativa d'Italia, e quando i Romani ebber gustato il sapore più delicato dell'albicocca, della pesca, della melagranata, del cedro, dell'arancia, si compiacquero di dare a tutti questi nuovi frutti la comune denominazione di pomo, distinguendoli con aggiunger l'epiteto del loro paese.

II. Al tempo d'Omero la vite cresceva inculta in Sicilia, e forse ancora nel vicin continente: ma non era perfezionata dall'arte degli abitanti selvaggi, i quali non sapeano estrarre un liquore soave al gusto199. Mille anni dopo, l'Italia potè vantarsi, che delle ottanta specie dei vini più generosi e celebri, più di due terzi eran prodotti dal proprio suolo200. Questa pianta preziosa s'introdusse nella provincia narbonese della Gallia; ma al tempo di Strabone il freddo nella parte settentrionale delle Sevenne era così eccessivo, che si credeva impossibile di farvi maturare le uve201. Questa difficoltà, non pertanto, a poco a poco fu superata; e vi è qualche ragione di credere che le vigne di Borgogna sieno d'antichità eguale al secolo degli Antonini202. III. L'olivo, nel Mondo occidentale, era il compagno ed il simbolo della pace. Due secoli dopo la fondazione di Roma, questo utile albero era sconosciuto e all'Italia ed all'Affrica; ma vi fu poi naturalizzato, e finalmente portato nel cuore della Spagna e della Gallia. La timida ignoranza degli antichi, i quali pensavano, che gli fosse necessario un certo grado di calore, nè potesse crescere che nelle vicinanze del mare, fu insensibilmente distrutta dall'industria e dall'esperienza203. IV. La coltivazione del lino passò dall'Egitto nella Gallia ed arricchì l'intero paese, per quanto potesse impoverire le terre particolari nelle quali era seminato204. V. L'uso dei prati artificiali divenne familiare all'Italia e alle province, e specialmente l'erba medica, ossia il trifoglio, che deve alla Media il nome e l'origine205. Le sicure provvisioni di un cibo sano ed abbondante pel bestiame nel verno moltiplicarono il numero delle mandrie, le quali a vicenda contribuirono alla fertilità del terreno. A tutti questi vantaggi si può aggiungere un'assidua attenzione alle pesche ed alle miniere, le quali impiegando una moltitudine di mani laboriose, servivano ad accrescere i piaceri del ricco, e la sussistenza del povero. Columella, nel suo elegante trattato, descrive il florido stato dell'agricoltura spagnuola sotto il regno di Tiberio; ed è da osservarsi, che quelle carestie, dalle quali fu così spesso angustiata la Repubblica nella sua infanzia, raramente o non mai si sentirono nell'Impero esteso di Roma. La casuale scarsezza in una provincia, era immediatamente riparata dall'abbondanza dei suoi più fortunati vicini.

L'agricoltura è il fondamento delle manifatture; giacchè le produzioni della natura sono i materiali dell'arte. Sotto l'Impero di Roma, la gente ingegnosa ed industre s'impiegava diversamente, ma continuamente in servizio dei ricchi. Questi favoriti della fortuna univano ogni raffinamento di comodo, di eleganza, e di splendore negli abiti, nella tavola, nelle case e nei mobili; e volevano tutto ciò che poteva o lusingar il fasto, o soddisfare il senso. Questi raffinamenti, sotto l'odioso nome di lusso, sono stati severamente condannati dai moralisti d'ogni secolo; e forse sarebbe più conveniente alla virtù, ed alla felicità degli uomini, se ciascuno possedesse i beni necessarj alla vita, e niuno i superflui. Ma nella presente imperfetta condizione della società, il lusso, sebben conseguenza del vizio o della pazzia, sembra esser l'unico mezzo di correggere l'ineguale distribuzione dei beni. Il diligente meccanico e l'abile artista, i quali non ebbero parte alcuna nelle divisioni della terra, ricevono una tassa volontaria dai possessori dei terreni; e questi sono eccitati dal sentimento dell'interesse a migliorare quei beni, col prodotto dei quali possono procurarsi nuovi piaceri. Questa operazione, i cui particolari effetti si provano in ogni società, esercitava un'energia molto più estesa nel Mondo romano. Le province avrebber ben presto perduto la loro opulenza, se le manifatture ed il commercio del lusso non avessero insensibilmente restituite ai sudditi industriosi le somme, che da loro esigevano le armi e l'autorità di Roma. Finchè la circolazione fu confinata nei limiti dell'Impero, essa imprimeva alla macchina politica un nuovo grado di attività, e le sue conseguenze, talvolta benefiche, non potevano mai divenire perniciose.

150Valerio Massimo, l. II c. 2 n. 1. L'Imperatore Claudio degradò un ragguardevol Greco, perchè non sapeva la lingua latina. Questi avea forse qualche pubblico impiego. Svet. Vita di Claudio c. 16.
151Nel campo di Lucullo un bove fu venduto una dramma, ed uno schiavo quattro dramme. Plutarco; Vita di Lucullo, p. 580.
152Diodoro di Sicilia, in Eclog. Hist. l. XXXIV e XXXVI Floro III 19 20.
153Ved. un esempio notabile di severità in Cicerone, in Verrem. V. 3.
154Grutero, e gli altri compilatori riportano un gran numero d'iscrizioni indirizzate dagli schiavi alle lor mogli, ai figli, ai compagni, ai padroni ec. e che, secondo tutte le apparenze, sono del secolo degl'Imperatori.
155Ved. la Storia Augusta, ed una Dissert. di M. de Burigny intorno agli schiavi dei Romani nel XXXV volume dell'Accademia delle Belle Lettere.
156Ved. un'altra Dissert. del suddetto M. de Burigny intorno ai liberti dei Romani nel XXXVII tomo della stessa Accad.
157Spanheim Orb. Rom. l. I. c. 16 p. 124 ec.
158Seneca, De Clementia l. I. C. 24. L'Originale è molto più forte. Quantum periculi immineret, si servi nostri numerare nos coepissent.
159Ved. Plinio Stor. Nat. l. XXXIII e Ateneo Deipnos, l. VI p. 272. Questi asserisce arditamente che ha conosciuto molti Παμπολλοι Romani che possedevano non per uso, ma per ostentazione dieci ed ancora ventimila schiavi.
160In Parigi si contano più di 43700 servitori di ogni sorta, che non fanno la dodicesima parte de' suoi abitanti. Messanges Ricerche sulla popolazione p. 186.
161Uno schiavo colto si vendeva molte centinaia di zecchini. Attico ne avea sempre alcuni da educare, ai quali dava lezione egli stesso. Cornel. Nep. Vit. Attici cap. 13.
162La maggior parte dei medici romani erano schiavi. Ved. La Dissert. e la Difesa del Dott. Middleton.
163Pignorio De servis fa una lunghissima enumerazione dei loro ordini e dei loro impieghi.
164Tacito Ann. XIV 43. Furono giustiziati per non aver previsto o impedito l'assassinio del loro padrone.
165Apuleio in Apolog. p. 548. Edit. Delph.
166Plinio Stor. Nat. l. XXXIII 47.
167Se si contano 20 milioni di anime in Francia, 22 in Germania, 4 in Ungheria, 10 in Italia e nell'isole adiacenti, 8 nella Gran-Bretagna e in Irlanda, 8 in Spagna e in Portogallo, 10 o 12 nella Russia europea, 6 in Polonia, 6 in Grecia ed in Turchia, 4 in Svezia, 3 in Danimarca e Norvegia, e 4 nei Paesi Bassi; il totale monterà a 105, o 107 milioni. Ved. la Stor. Gen. di Voltaire. (I computi della popolazione europea sono ora diversi d'assai. La sola Italia contiene al presente 12 milioni d'abitatori.)
168Giuseppe de bello Judaico l. II c. 16. Il discorso di Agrippa, o a dir meglio, quello dello Storico, è una bella descrizione dell'Impero romano.
169Svetonio, vita di Augusto c. 28. Augusto fabbricò in Roma il tempio e la piazza di Marte Vendicatore; il tempio di Giove Fulminante nel Campidoglio; quello di Apollo Palatino con pubbliche librerie; il portico, e la basilica di Caio e Lucio; i portici di Livia e di Ottavia; ed il teatro di Marcello. L'esempio del Sovrano fu imitato dai Ministri e dai Generali, ed il suo amico Agrippa fece innalzare il Panteon, monumento immortale.
170Ved. Maffei Ver. Illustr. l. IV pag. 68.
171Ved. il l. X delle Lettere di Plinio. Tra le fabbriche intraprese a spese dei cittadini, quest'Autore parla di quelle che seguono: a Nicomedia una nuova piazza, un acquedotto e un canale, che uno degli antichi Re avea lasciato imperfetto; a Nicea un Ginnasio e un Teatro che era già costato quasi cento ottantamila zecchini; alcuni bagni a Claudiopoli e Prusa; e un acquedotto lungo cinque leghe ad uso di Sinope.
172Adriano fece in seguito un giustissimo regolamento, che divideva ogni tesoro tra il proprietario del luogo e l'inventore. Stor. Aug. p. 9.
173Filostrato in vita Sophist. l. II p. 543.
174Aulo Gellio Noct. Attic. l. 2 IX, 2 XVIII, 10 XIX 12. Filost, p. 564.
175Ved. Filost. l. II pag. 548 566. Pausania l. I, VII 10. La vita di Erode nel XXX tom. dell'Accademia dell'Iscrizioni.
176Questa osservazione è principalmente applicata alla Repubblica ateniese da Dicearco De statu Graeciae, p. 8. Inter geograph. minores edit. Hudson.
177Donato de Roma vetere l. III c. 4 5 6. Nardini Roma antica lib. III II 12 13 e un manuscritto che contiene una descrizione di Roma antica fatta da Bernardo Oricellario, o Rucellai, della quale ho ottenuto una copia dalla libreria del canonico Riccardi a Firenze. Plinio parla di due celebri quadri di Timante e di Protesene posti, per quel che sembra, nel tempio della Pace. Il Laocoonte fu trovato nelle Terme di Tito.
178Montfaucon Antiq. expliq. tom. IV p. 2 l. I c. 9. Il Fabretti ha composto un trattato molto erudito sopra gli acquedotti di Roma.
179Eliano Hist. var. l. IX c. 16. Quest'autore viveva sotto Alessandro Severo. Ved. il Fabrizio Biblioth. Graeca l. IV. c. 21.
180Giuseppe de bello Judaico II 16. Questo numero vi è riferito; forse non deve esser preso con rigore.
181Plin. Stor. Nat. III 5.
182Plin. Stor. Nat. III 3, 4 IV 35. La nota pare autentica ed esatta; la divisione delle province, e la diversa condizione delle città vi sono minutamente riferite.
183Strabon. Geograph. l. XVII p. 1189.
184Giuseppe De bello Jud. II 16 Filostr. in vit. Sophist. l. II p. 548. Edit. Olear.
185Tacit. Annal. IV 66. Ho impiegato qualche studio in consultare e paragonare tra loro i moderni viaggiatori, riguardo al fatto di quelle undici città dell'Asia; sette o otto sono affatto distrutte; Ipea, Tralli, Laodicea, Ilione, Alicarnasso, Mileto, Efeso, e possiamo aggiungere Sardi. Delle tre altre Pergamo è un misero villaggio di due o tremila abitanti. Magnesia, sotto il nome di Guzel-hissar, è città di qualche riguardo; e Smirne è una città grande, popolata di centomila anime. Ma mentre che in Smirne i Franchi hanno conservato il commercio, i Turchi hanno rovinate le arti.
186Ved. una esattissima e curiosa descrizione delle rovine di Laodicea nei viaggi di Chandler per l'Asia Minore p. 225 ec.
187Strabone l. XII. 866. Egli avea studiato in Tralli.
188Ved. una Dissertazione di M. de Boze, Mem. dell'Accad. tom. XVIII. Aristide recitò un'orazione, che ancora esiste, per raccomandare la concordia alle città rivali.
189Gli abitanti dell'Egitto, eccettuata Alessandria, si facevano ascendere a sette milioni e mezzo. Giuseppe De bello Jud. II. Sotto il governo militare dei Mammalucchi, la Siria si credeva che contenesse settantamila villaggi. Storia di Timur. Bec. l. V. c. 20.
190Il seguente itinerario può servire a dar qualche idea della direzione del cammino, e della distanza tra le principali città. I. Dalla muraglia di Antonino fino a York 222 miglia romane. II. A Londra 227. III. A Rhutupia ovvero Sandwich 67. IV. Tragitto fino a Bologna 45. V. A Rheims 174. VI. A Lione 330. VII. A Milano 324 VIII. A Roma 426. IX. A Brindisi 360. X. Tragitto fino a Durazzo 40. XI. A Bisanzio 711. XII. Ad Ancira 283. XIII. A Tarso 301. XIV. Ad Antiochia 141 XV. A Tiro 252 XVI. A Gerusalemme 168 in tutto miglia Romane 4080. Ved. gl'Itinerarj pubblicati da Wesselling colle sue note; vedasi ancora Gale e Stukeley per la Britannia, e d'Anville per la Gallia e l'Italia.
191Montfaucon. Antiq. expliq. tom. IV p. 2 l. I c. 5 ha descritti i ponti di Narni, di Alcantara, di Nimes ec.
192Bergier Storia delle strade maestre dell'Impero rom. l. II c. 128.
193Procopio in Hist. Arcana c. 30. Bergier Stor. delle strade maestre l. IV. Codic. Theodos. l. VIII tit. V vol. II p. 506-563 con il dotto commentario del Gotofredo.
194Al tempo di Teodosio, Cesario, magistrato di alto affare, venne per la posta da Antiochia a Costantinopoli. Cominciò il suo viaggio di notte; fu la sera dipoi nella Cappadocia a 165 miglia da Antiochia, ed arrivò a Costantinopoli il sesto giorno verso mezzodì. L'intera distanza era di miglia 725 romane. Ved. Libanio Orat. XXI e gl'Itinerarj p. 572 581.
195Plinio, benchè ministro favorito, dovè giustificarsi per aver fatto dare cavalli di posta alla sua moglie per un affare di gran premura. Epist. X l. X 121 122.
196Bergier luog. cit. l. IV c. 49.
197Plinio Stor. Nat. XIX 1.
198È probabile che i Greci ed i Fenicj introducessero nuove arti e nuove produzioni nelle vicinanze di Cadice, e di Marsiglia.
199Ved. Omero Odiss. l. IX v. 358.
200Plinio Stor. Nat. l. XLV.
201Strab. Geog. l. IV p. 223. Il freddo eccessivo di un inverno Gallo era un proverbio tra gli antichi.
202Nel principio del quarto secolo l'Oratore Eumene Panegir. veter. VIII 6 edit. Delph. parla dei vini di Autun, che avevano perduto la qualità loro per l'antichità; ed allora s'ignorava affatto il tempo, nel quale le vigne erano per la prima volta state piantate nel territorio di quella città. M. d'Anville pone il Pagus Arebrignus nel distretto di Beaune, celebre ancora adesso per la bontà de' suoi vini.
203Plinio Stor. Nat. l. XV.
204Plinio Stor. Nat. l. XIX.
205Il bel saggio di Harte sull'agricoltura; egli ha unito in quest'opera tutto ciò che gli antichi e i moderni han detto del trifoglio.
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